Metal Gear Solid 5 The Phantom Pain: ecco cosa abbiamo visto all'E3 2014

Kojima spiazza tutti ancora una volta e presenta all'E3 nuove caratteristiche della sua ultima e chiacchierata creatura

Metal Gear Solid 5 The Phantom Pain: ecco cosa abbiamo visto all'E3 2014
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  • Xbox 360
  • PS3
  • Pc
  • PS4
  • Xbox One
  • Inaspettato ma fugace è stato l'amore che Hideo Kojima ha provato per Microsoft. Dopo la comparsata sul palco della conference Xbox One dello scorso anno, Metal Gear Solid 5: The Phantom Pain torna in “casa base”, mostrandosi al pubblico grazie ad un nuovo trailer nel corso dello show Sony. Kojima riconferma, nei cinque minuti di montaggio serrato, la tracotante teatralità del suo stile, spesso carico e autoreferenziale eppure così affascinante. Il trailer, che procede spedito sulle note di Nuclear (Mike Oldfield), riesce persino a fare più confusione di quanta già non ce ne fosse nella cronologia ufficiale della serie, sbattendo in faccia al giocatore bare in fiamme (che non possono essere certo quelle dei caduti dell'incidente di Ground Zeroes) e ceneri cosparse sulla faccia di un anti-eroe profondamente segnato. Le cicatrici di Big Boss, e quelle schegge metalliche che spuntano fuori dal cranio come corna demoniache, sono la lampante testimonianza di un ritrovato amore per il dramma umano; e insomma l'eclettico game designer, rivendicando persino la paternità del montaggio e della post-produzione, riesce ancora a spiazzare il pubblico “ristrutturando” il volto della sua saga. Kojima si conferma un creativo in preda alle sue rapsodiche ossessioni, che stavolta si incarnano nello scintillare delle lame dei coltelli, insolito leitmotiv di questo trailer.
    Non crediate però che l'E3 di The Phantom Pain sia finito con un teaser. Il nuovo stealth game di Konami si è infatti concesso ad una ristretta cerchia di giornalisti selezionati nel corso della seconda giornata di fiera, mostrando finalmente il suo gameplay.

    Scatole di cartone e palloni gonfiabili

    Prendete Ground Zeroes, quella “demo estesa” che è bastata per mandare in visibilio tutti gli appassionati della saga. Anche nel prodotto finale le meccaniche stealth saranno sostanzialmente identiche. Aspettatevi quindi una mappa finalmente aperta e smisurata, capace di punzecchiare l'utente che vuole restare sottotraccia con un senso di profondo smarrimento. La svolta “open-world” della saga è insomma ormai conclamata, e anche in The Phantom Pain bisognerà pianificare attentamente ogni mossa, avanzando con circospezione ma senza mai trovarsi costretti a procedere lungo un binario prestabilito.
    Se già Snake Eater cercava di trasmettere una costante sensazione di libertà, qui si va oltre: nell'Afghanistan di Kojima ci sono deserti smisurati da percorrere a cavallo, posti di blocco e casupole costruite ai margini delle mulattiere, e poi accampamenti più estesi in cui si riscopre tutta l'attenzione per un level design calcolatissimo, ricco di spunti e possibilità. Nella sostanza, il gameplay è esattamente lo stesso che abbiamo assaporato nel lungo “prologo” giocato a Camp Omega. Bisogna ancora spiare le guardie con il binocolo, marcarne la posizione, e poi avanzare acquattati, strisciando a terra come serpenti, per cogliere alle spalle i nostri avversari, interrogarli oppure metterli fuori gioco con spietate mosse di Close Quarter Combat. È necessario uno studio attento ed una buona pianificazione, e non pensiate che l'abuso dello slow motion possa in qualche modo smussare la stimolante difficoltà del titolo, che si fregia di un'intelligenza artificiale sicuramente più consapevole.

    In linea di massima, il primo contatto con The Phantom Pain resta comunque molto atteso, regolare, anche se il cambio di setting determina uno sconvolgimento non solo regolare. Ci sono, è vero, le condizioni atmosferiche variabili, con tempeste di sabbia che possono ridurre il campo visivo di Snake e dei soldati avversari, ed un'architettura meno squadrata e regolare di quella vista nel campo di prigionia. C'è pure la novità della cavalcatura ed un braccio meccanico il cui rumore può attirare le guardie: ma in linea di massima, se avete completato tutte le missioni secondarie di Ground Zeroes, tutte queste “sorprese” restano marginali nell'economia della produzione.
    Eppure, ad un certo momento succede l'inaspettato: di fronte ad una guardia tramortita, Big Boss tira fuori il pallone aerostatico “Fulton” che ben conosce chi ha giocato ai due capitoli portatili della saga (Portable Ops e Peace Walker). Anche in The Phantom Pain, insomma, potremo spedire alla base prigionieri e, addirittura, risorse: mezzi, container, persino la fauna locale.
    Questa sorta di mini-mongolfiera che si gonfia, e trasporta verso il cielo nemici e jeep, è un elemento che rompe in maniera nettissima con il realismo senza compromessi che sembrava così importante per The Phantom Pain. Le sensazioni, all'inizio, sono spiazzanti. Eppure non serve molto per capire che quella di Kojima sia una precisa dichiarazione d'intenti: a chi lo accusa di inseguire in maniera troppo evidente i modi e le risorse espressive del cinema, Hideo sbatte in faccia un elemento che più ludico non si può. Così come il codice del Codec scritto nel retro della confezione o come le memory card di Psycho Mantis, The Phantom Pain rompe la quarta parete, esibisce la sua natura di videogame, e l'incontrovertibile “giocosità” delle sue meccaniche.

    Attenti però: se Ground Zeroes vi aveva dato l'impressione di uno stealth game realistico (anzi: credibile), in linea con le conquiste del quarto capitolo regolare, questa virata così esplicita potrebbe persino lasciarvi interdetti.
    In verità tutto è funzionale alla costruzione di un gameplay francamente smisurato: in The Phantom Pain ci sono sempre le sequenze stealth tenutissime, alternate eventualmente a sparatorie che si fanno adesso crude e movimentate. Ma c'è anche tutta la componente strategica di Peace Walker, con una base da costruire, truppe da gestire, e addirittura tecnologie che la vostra “Mother Base” può spedirvi sul campo. Tutti i soldati catturati, infatti, verranno arruolati nel gruppo paramilitare di Snake (e questo dovrebbe bastare a scoraggiare un approccio distruttivo, che si lasci dietro una scia di cadaveri): qui potranno essere impiegati - tra le altre cose - in una serie di ricerche, che potrebbero sbloccare oggetti e tecnologie di supporto. In nome della grande libertà che questo approccio si porta in dote, sarà possibile richiedere scansioni dell'area di gioco per trovare punti di interesse, bombardamenti a tappeto per radere al suolo edifici e contingenti nemici, oppure gadget che ci aiuteranno nell'infiltrazione, come le immancabili scatole di cartone (vere e proprie protagoniste di questa presentazione).

    È bastata una mezz'ora di gioco, quindi, per convincerci che The Phantom Pain finirà per essere un vero e proprio capolavoro, intriso di quell'eclettismo tipicamente nipponico e così esplicito nel mostrare i suoi meccanismi interni (al limite del meta-videogioco), da non lasciare indifferente nessun appassionato (anche quelli che resteranno un po' spiazzati da questa nuova ed inattesa deriva). Anche perché, si conti, in The Phantom Pain la Mother Base c'è davvero: è quella stessa piattaforma in mezzo all'oceano che abbiamo visitato in Sons Of Liberty, solo che qui può essere costruita direttamente dal giocatore, modificata e personalizzata, ed alcune missioni secondarie si giocheranno proprio lì sopra: ci saranno attacchi a sorpresa delle forze avversarie, che dipenderanno anche dalle alleanze che avremo stretto sul campo di battaglia, e per respingerle dovremo impiegare tutta la nostra forza militare, “reclutata” forzatamente sul campo.
    Sul fronte tecnico si riconferma una performance strabiliante del Fox Engine. I modelli poligonali sono molto migliorati, e finalmente abbracciano una qualità che non si può far altro che definire “da next-generation”. L'espressività facciale, il reparto animazioni veramente curatissimo, la gestione degli effetti atmosferici ed un'illuminazione da Oscar riescono poi a costruire un'atmosfera davvero incredibile: anche l'ambientazione insolita e poco esplorata (diremmo quasi unica, per uno Stelth Game) contribuisce a rendere The Phantom Pain un prodotto nuovo e vibrante, che oscilla fra classicismo e innovazione, ed esibisce un linguaggio fascinosamente eterogeneo, composto da elementi cinematografici e ludici.

    Metal Gear Solid 5: The Phantom Pain Kojima spiazza tutti ancora una volta. Dopo il realismo integrale di Ground Zeroes, il game designer fa tabula rasa e rimescola le dinamiche stealth con innesti strategici recuperati da Peace Walker e Portable Ops. Nel farlo, giustappone in maniera molto brutale un gameplay action sempre teso e credibile, con le esagerazioni tipiche della scuola nipponica del videogame: qui ci sono insomma palloni aerostatici che spuntano dal nulla e trascinano in aria truppe, capre e container, e tante altre squisite stilizzazioni che urlano, in ogni momento: “questo è un videogame”. Dall'altra parte ci sono cut-scene molto estese e con un amore quasi viscerale per regia e montaggio, ma anche sparatorie crude che sembrano uscite da un Third Person Shooter realistico. La chiave di volta che regge questo pot-pourri, più vicino di quanto non si pensi all'essenza stessa del nostro media, ricercatissimo pastiche d'autore, è rappresentato dalle dinamiche stealth queste sì, estratte brutalmente dall'avventura a Camp Omega e quindi funzionali, ben costruite, variegate, esaltanti. Non c'è dubbio, insomma, che The Phantom Pain sarà uno di quei giochi in grado di lasciare una cicatrice indelebile nella memoria di chi lo giocherà. E magari anche sulla faccia di questo E3, molto meno roboante di quanto ci si aspettasse.

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