Recensione A Pixel Story

Il primo titolo di Lamplight Studio è un puzzle/platform ingegnoso e intrigante, con una trovata stilistica che permette di ripercorrere l'evoluzione grafica dei videogiochi dall'era degli 8 bit a quella del rendering tridimensionale.

Recensione A Pixel Story
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  • Il caro vecchio Pong lo conoscono tutti, sia i fortunati che riuscirono a mettere le mani su uno di quei leggendari cabinati in mogano, sia chi dovette procurarsi una delle prime console monogioco di Atari, o qualche posticcio knock-off su Commodore. Lo conosce anche chi, nato un po’ più tardi, ha sempre ammirato le iconiche racchette come pitture rupestri della preistoria del videoludo. Della sacralità di tale immagine sono al corrente anche i giovanissimi sviluppatori di Lamplight Studios, alle prese con un curioso esperimento sui videogiochi che parlano del media stesso, una celebrazione serrata, scandita dal più spudorato citazionismo sul tema. Pare quasi di vederci già immersi in una manica di nerd occhialuti, a lanciare il gomito a quello accanto, indicando lo schermo con lo sguardo compiaciuto di chi ha colto il riferimento prima degli altri.

    I dolori del giovane inverter

    Il pixel è la vecchia pallina del Pong, resa antropomorfa per l’occasione e lanciata in una pericolosa avventura per scongiurare la caduta dell’intero sistema sotto l’oppressione del tiranno Operatore, non prima di cadere vittima dell’abusato clichè del “prescelto”. La strada è piena di insidie, come testimoniano i vecchi programmi caduti sotto il peso schiacciante dell’obsolescenza, e ci porterà a ripercorrere tutte -o quasi- le ere videoludiche, dagli albori dell’intrattenimento digitale alla popolarità del medium nei giorni nostri. Con tali premesse, A Pixel Story si propone come uno struggente omaggio alle passate ere videoludiche, ma anche come tagliente critica al mercato odierno ed esaltazione dell’opera degli sviluppatori indipendenti, la sola categoria dedita alla riproposizione di meccaniche e soluzioni grafiche definite come sorpassate. E così i Lamplight, pur di farsi contenti e di elettrizzare qualche nostalgico, si prendono il rischio, così giovani, di apparire come quei vegliardi che si rifiutano di ascoltare alcunchè dagli anni ‘70 e che “la musica di oggi è solo rumore”.


    1111101000 modi per morire

    Accompagnato da un logorroico robot con le fattezze dell’icona di ricerca, e aiutato da svariate incarnazioni digitali dei termini più conosciuti del gergo informatico, il pixel prescelto dovrà farsi strada in quello che sulle prime battute appare come un normalissimo platform, ma che progressivamente prende le forme di uno dei più rognosi puzzle game degli ultimi tempi. Gran parte del gameplay girerà attorno all’utilizzo di un potentissimo manufatto, un berretto rosso dall’aria piuttosto familiare, che permette al protagonista di teletrasportarsi dopo averlo abbandonato in zone utili dei livelli. Grazie a questa trovata, che, fra le altre cose, ci riporta in mente l’ormai dimenticata icona anni ‘90 di Mighty Max, il gameplay di Pixel Story riesce a mostrarsi fresco ed ingegnoso, ma indissolubilmente legato a meccaniche molto classiche. Nessun margine di errore è concesso al giocatore nella risoluzione degli enigmi ambientali: un salto troppo lungo, una pedana rimbalzante colpita troppo presto, un teletrasporto attivato per errore precedono sempre un sano -anche se non sempre ben accolto- retry. Questo sempre che si abbia ben chiara a monte la risoluzione dell’enigma stesso. Fortunatamente si parla di ostacoli superabili con la giusta dose di pazienza e spirito d’osservazione, che premiano i vincitori con un quantitativo non trascurabile di soddisfazione e con la tipica scenetta di giubilo in cui il personaggio solleva al cielo l’oggetto appena raccolto, proprio come accadeva nell’era d’oro dei videogiochi.

    Ci siamo fatti strada attraverso un discreto numero di rompicapo sempre impegnativi e stimolanti solo per raggiungere l’ultima era videoludica (rappresentata dai Lamplight attraverso un piacevole 2.5D), ma avremmo potuto spendere svariate ore per dedicarci a qualche inumano atto di completismo. Disseminate per le aree di gioco, vi sono infatti delle stanze bonus, sbloccabili col giusto gruzzolo di monete, nelle quali vi attendono sfide incredibilmente ardue. Incentrate più sulle meccaniche platform che su quelle tipiche del puzzle game, le suddette stanze sono un vero incubo per il giocatore medio, roba da far impallidire anche il mai tanto osannato Super Meat Boy. Con grande gioia scopriremo che è possibile passarci davanti fischiettando, a quelle stanze immonde, e portare a termine ugualmente l’avventura, accettando però di ferire il nostro piagnucoloso spirito di nerd. Giunti al termine della logorante, ma tutto sommato soddisfacente impresa, sarà possibile tornare sui propri passi per affacciarsi timidamente a quelle stanze infernali, giusto per avere un assaggio della potenziale longevità del titolo. Dopo aver consegnato un prezioso palanchino a tale Dr. Freeware, e visto emergere dalle cyber-fogne un baffuto idraulico extracomunitario, avremo ripercorso 30 anni e più di storia videoludica, osservando i graduali miglioramenti grafici -e sonori- che distinguono nettamente i quattro atti dell’avventura, meglio se col sorriso in volto di chi li ha effettivamente vissuti.

    A Pixel Story A Pixel StoryVersione Analizzata PCA Pixel Story è ingegnoso e intrigante, con una trovata stilistica per niente scontata, che fa ripercorrere l'evoluzione grafica dei videogiochi dall'era degli 8 bit a quella del rendering tridimensionale, lungo un sentiero lastricato di citazioni più o meno lampanti sul mondo informatico e della cultura popolare degli anni ‘70, '80 e '90. Un ottimo esordio per la giovanissima Lamplight Studio, purché in futuro allenti la presa sul mero esercizio di stile legato al meta-gioco per mettere in cantiere qualcosa di inaspettato ed innovativo. Indispensabile per i paladini della causa indie e per gli amanti dei puzzle game intricati.

    8

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