Recensione Albedo: Eyes from Outer Space

Miscelando sapientemente il look da fantascienza a basso budget degli anni 60/70 con meccaniche di gameplay vecchia scuola, questa produzione italiana riesce a riesce a ritagliarsi un suo spazio, stupendo il giocatore fin dalle prime fasi dell'avventura.

Recensione Albedo: Eyes from Outer Space
Articolo a cura di
Disponibile per
  • Pc
  • PS4
  • Xbox One
  • Albedo: Eyes From Outer Space è un gioco “alieno” nel senso etimologico del termine. Nella galassia dell’industria made in Italy si muove, infatti, come un corpo “estraneo”, un concentrato di materia videoludica intellettuale, modellata da un solo demiurgo: l’italico Fabrizio Zagaglia, meglio conosciuto come Z4g0, che ha plasmato tutta la sua creazione infondendole l’afflato vitale della logica. È nato così un escape game in prima persona ricchissimo di enigmi e decisamente impegnativo, ermetico ma allo stesso tempo appagante e stimolante, che viaggia in direzione opposta e antitetica rispetto alla deriva eccessivamente semplificatoria del gaming moderno. Miscelando con abilità il look da fantascienza a basso budget degli anni 60/70 con meccaniche di gameplay vecchia scuola, Albedo orbita nello “spazio profondo” delle nostre librerie di Steam (ma è prevista anche l’invasione di PS4 e Xbox One) con un “occhio” di riguardo per l’atmosfera, un altro per il divertimento e un altro ancora per il temerario piacere della sfida.

    ULTIMATUM ALLA LOGICA

    Nel centro di ricerca Jupiter del misterioso gruppo Olympus, il guardiano notturno John T. Longy è pronto ad iniziare il suo turno di lavoro dopo essersi rifocillato con pizza e birra. Mentre barcolla sbronzo, però, un’improvvisa esplosione lo fa precipitare in una cantina. La botta gli farà sì passare l’ubriacatura, ma finirà anche per confondergli ancor di più le idee: dopo aver perso i sensi, si risveglierà circondato da disgustosi bulbi oculari extraterrestri. Sono questi il risultato degli strani esperimenti condotti dagli scienziati dell’Olympus Group, oppure la terra è stata invasa da una riprovevole razza aliena? Armato solo del suo intuito, Longy dovrà trovare una via di fuga dal centro di ricerca e scoprire la verità, immergendoci in una narrazione che incomincerà a tessere i fili della vicenda soltanto poco prima della conclusione, quando -in maniera un po’ troppo frettolosa- saremo messi al corrente degli eventi che hanno prodotto quegli orribili monocoli tentacolari. La trama è quindi lasciata in disparte, poco più di un divertito pretesto per dare un senso alle vicissitudini del protagonista.
    Ben presto, tuttavia, la medesima sensazione di spaesamento in cui riversa Longy, totalmente all'oscuro di ciò che sta accadendo, s’impossesserà anche del giocatore per un sentimento di “empatia videoludica”. Questo perché il gioco non ci fornirà alcun sussidio concreto: ci toccherà allora aguzzare la materia grigia e superare da soli ogni insidia che il centro di ricerca cela al suo interno. Albedo è composto infatti da una serie di stage più o meno contenuti, che dovremo analizzare attentamente, per disinnescare trappole che ci ostacolano e superare intricati puzzle. Fortunatamente non sarà la nostra capacità intuitiva l’unica arma a disposizione: nel primo livello del gioco entreremo in possesso di un curioso quanto ingegnoso visore temporale, che si rivelerà utilissimo per mettere in evidenza gli oggetti principali con cui interagire. L’effetto del visore è strettamente legato al peculiare e innovativo sistema che regola la difficoltà dell’avanzamento: nel menù opzioni sono presentii due settaggi, “Adventure” ed “Action”, modificabili in una scala di valori che va da “facile” ad “alieno”. Il livello più basso della categoria Adventure permette al visore di mostrare sullo schermo il primo tassello del puzzle, così da fornirci una base dalla quale partire per elaborare un piano di fuga, mentre ad un livello di difficoltà maggiore saranno evidenziati soltanto indizi più labili e di non immediata lettura. Più canonicamente, invece, il settaggio Action riguarda soltanto il grado di danno inflitto e subito dai temibili bulbi alieni.

    Nonostante il discreto aiuto da parte del visore temporale, Albedo non mostra il fianco a nessuna accomodante semplificazione, e la natura old school delle meccaniche enigmistiche si palesa in tutta la sua forza quando ci toccherà capire quali elementi combinare (nel modo e nell'ordine corretto) tra la chincaglieria più disparata che presto riempirà il nostro inventario. La gestione di quest’ultimo, purtroppo, posto al margine alto dello schermo, è una delle poche note dolenti che affliggono il gameplay: è legato difatti ad un sistema posizionale che permette di interagire solo con ciò che si osserva da vicino, e la visuale dell’elemento in questione finisce alle volte per sovrapporsi ad un menù radiale che si apre nel mezzo dello schermo quando si equipaggiano gli oggetti, rendendo piuttosto macchinoso unirli tra di loro nei frangenti più concitati e caotici.
    Albedo è un gioco decisamente complesso, ma dotato di una curva di difficoltà elaborata con sapienza. Solo in rarissimi casi ci troveremo a dover sbrogliare enigmi la cui soluzione pare forse un po’ troppo cervellotica, mentre il più delle volte si ha la netta sensazione che paralizzarsi dinanzi ad un puzzle dipenda da un nostro deficit intuitivo piuttosto che da un bandolo troppo ingarbugliato.
    Albedo manda dunque un “ultimatum alla logica” (giusto per citare a modo nostro un caposaldo della fantascienza anni ’50): la sfida a sfruttare ogni grammo di materia grigia viene rinnovata costantemente anche se il titolo non si prende mai realmente sul serio, giocando con sprazzi di lieve ironia volutamente ricamata sul modello della science fiction di serie B.
    Le stanze che compongono l’architettura del centro di ricerca sono poi curate fin nel minimo dettaglio, creando ambienti particolareggiati e “arredati” con un gusto finemente citazionista. Gli enigmi che contribuiscono a caratterizzare le varie zone e dar loro una specifica personalità, inoltre, si susseguono in modo vario e ben cadenzato, senza che il tarlo della ripetitività roda la struttura della progressione. Si alternano così rompicapo a tempo, mini giochi, sequenze di esplorazione e persino alcune sporadiche fasi action, che per quanto cerchino di rinfrescare la formula di gioco finiscono per risultare il neo principale del gameplay.

    Le due sessioni shooter (in cui rientra anche una specie di boss fight) sono volutamente ispirate agli fps del passato, come DOOM o Duke Nukem, nei quali bisognava muoversi costantemente nell’area di gioco, senza alcun tipo di copertura, e bersagliare freneticamente e senza pietà gli avversari che ci venivano incontro. Il sapore nostalgico non può però nascondere l’amaro dei pur brevi scontri a fuoco, sporcati da un feedback dei colpi privo di fisicità e hitbox a tratti quasi del tutto inesistenti. Più in generale, è proprio l’ultima fase dell’avventura ad essere meno ispirata, con enigmi un po’ forzati e poco contestualizzati, se si esclude il simpatico tocco finale che ci vede imbrigliati in strambi paradossi temporali.
    E parlando di tempo, non possiamo non lodare la corposa longevità del titolo, che difficilmente v’impegnerà i neuroni per meno di 9 ore. Senza contare la possibilità di dedicarsi con più calma all’esplorazione degli ambienti, che celano al loro interno, a scapito della limitata ampiezza, un gran numero di segreti imprescindibili per sbloccare tutti gli achievement di Steam e cogliere di conseguenza i riferimenti ai classici della fantascienza da cui lo sviluppatore ha tratto ispirazione.

    A ME GLI OCCHI

    Ci sono giochi che non nascondono la limitatezza della loro struttura poligonale, ma riescono a trasformarla in un punto di forza grazie ad intelligenti soluzioni estetiche. Albedo è uno di questi: lo schermo si satura di colori rancidi, sporchi, con una patina che in filigrana rivela un grande amore per l’atmosfera sci-fi low budget. La piacevolezza del colpo d’occhio, gli accesi cromatismi che divorano gli stage e la ruvidità dell’impatto scenico sono da un lato caratteristiche del comparto grafico degne di ammirazione, per la capacità di soverchiare le magagne tecniche dell'engine utilizzato (Unity 3D); ma dall'altro, nelle zone più articolate, la ricercata sporcizia dell’immagine si scontra con la necessità di analizzare ogni dettaglio delle aree di gioco, rendendo alle volte meno limpida la visione d’insieme. Sono comunque piccoli e trascurabili difetti di un comparto grafico piacevolissimo, che mantiene una buona fluidità anche impostando al massimo la qualità del rendering e degli shader, dei riflessi e dell’occlusione ambientale. L’ultimo delizioso tocco, in grado di acuire ancor di più la piacevole sensazione di trovarsi in una versione interattiva delle pellicole d’epoca, è dato dall'accompagnamento musicale, stridulo come impone il sonoro posticcio dei succitati film, con campionature ambientali quasi perfette e persino un doppiaggio che a tratti, volutamente, è mixato come se provenisse da un registratore di tanti anni fa, che corrode il nastro e si mangia qualche sillaba. E questo è un grande esempio di come la scarsità di mezzi a disposizione possa mutarsi in vera e propria originalità.


    Albedo Eyes from Outer Space Albedo Eyes from Outer SpaceVersione Analizzata PCLo abbiamo detto in apertura e lo riconfermiamo: Albedo è un gioco intrigante, ben strutturato e a tratti sorprendente. È sicuramente un prodotto imperfetto, ancora un po’ grezzo e polveroso nelle meccaniche, a causa di una narrazione approssimativa, di un sistema di gestione dell’inventario un po’ grossolano, e di sparute fasi shooter che, pur avendo il merito di far ricaricare le energie al nostro cervello prima di un nuovo enigma, presentano ampissimi margini di miglioramento. Ma ai fini della valutazione finale non bisogna dimenticare come Albedo sia stato programmato da una sola persona, e questo è un dato che va tenuto in seria considerazione: Zagaglia è riuscito a creare, con indubbio talento e un pizzico di ambizione, un’opera innovativa, machiavellica e genuinamente “old style”. Albedo è quindi nella struttura e nell'anima proprio come quei film cult della fantascienza anni ’60, realizzati con pochissimi mezzi ma con tantissimo cuore, e proprio per questo così amabili e affascinanti.

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