Splinter Cell Double Agent Recensione: Sam si nasconde anche su PS3

Nasconditi, Sam

Splinter Cell Double Agent Recensione: Sam si nasconde anche su PS3
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Disponibile per
  • PS2
  • DS
  • Xbox
  • Xbox 360
  • Wii
  • PS3
  • Pc
  • Psp
  • Splinter Cell: Double Agent è un titolo che sta soffrendo di una sovraesposizione mediatica con pochi precedenti. Lo stealth game firmato Ubisoft ha solcato gli increspati profili del panorama videoludico in qualsiasi forma, mostrandosi qualche tempo fa sulle piattaforme Next-Gen e Old Gen (360 e Ps2), facendo timidamente capolino negli “Essential” su Psp e pure adeguandosi con scarsi risultati al sistema di controllo tutto motorio di Nintendo Wii.
    Da poco, Sam Fisher ha esordito pure su Ps3, riproponendo piuttosto fedelmente tutti i tratti distintivi dell’ultimo capitolo per il solo gusto di espandere bacino d’utenza.
    L’analisi che segue vuole percorrere strade parallele e alternative a quelle, sommariamente descrittive, necessarie per giudicare il prodotto al momento del suo esordio primo: ora che la Nuova Generazione di Software è radicata e lampante, che giocatori e sviluppatori mostrano esigenze concrete, appare ben più significativa una trattazione atipica, specificatamente concettuale.
    Ed il giudizio inevitabile che da essa si dovrà trarre è che Double Agent giunge su PS3 con grande supponenza e del tutto fuori tempo massimo, ormai più vicino agli scampoli di una concezione ludica stantia che ai nuovi baluardi del videogioco moderno.

    Il Double Agent che sottotitola la produzione rispecchia la pratica quasi “doppiogiochista” a cui Sam Fisher è dedito nella sua ultima avventura. Distrutto per la morte della figlia, l’anti-eroe di Third Echelon si lancia infatti in una lotta contro il destino avverso, accettando i casi più pericolosi e delicati, in un macabro gioco contro la probabilità. Questo lo porta, nel caso, ad infiltrarsi fra le fila della Jhon Brown’s Army, un gruppo di terroristi ben organizzati pronti a seminare il panico nei gloriosi Stati Uniti d’America. Nell’intenzione del team di sviluppo e nelle pompose dichiarazioni dei comunicati stampa, la necessità di mantenere un basso profilo, senza rischiare la fiducia delle due parti in causa (JBA e NSA) avrebbe dovuto avere risvolti quantomeno vistosi non soltanto nel gameplay, ma anche nella componente narrativa. La realtà dei fatti è ben diversa.
    Anzitutto la scarsa cura con cui è confezionata la trama è pronta a disattendere le aspettative di qualsiasi giocatore. Nonostante l’idea alla base di un cambio psicologico sia molto buona, la realizzazione in game, raccontata da una voce fuori campo su una serie di immagini statiche, non rende giustizia alla bozza concettuale degli sceneggiatori. Lo storytelling è soltanto accennato, poco incisivo e tutt’altro che efficace: mancano sequenze distintive ben costruite, i quaranta secondi (!) di computer grafica a cui si assiste durante l’avventura riguardano un evento marginale, e l’inespressività dei personaggi durante le Cut Scene in Real Time non permette, di fatto, la necessaria drammaticità. Così, merito anche di un doppiaggio qualitativamente molto inferiore a quello dei precedenti episodi (comprensivo di interventi vocali di guardie balbuzienti e bilingue), la caratterizzazione di personaggi e situazioni è, per certi versi, del tutto risibile. Non che manchino le buone intenzioni, ma queste sono castrate da una realizzazione frettolosa e da uno scarso “carattere” delle relazioni fra comportamento In-Game e evoluzione della trama. Double Agent dovrebbe significare infatti non solo “doppio lavoro”, ma anche “doppia responsabilità”: Sam è in effetti chiamato a compiere scelte importanti, in tre momenti dell’avventura. Nello specifico dovrà decidere se salvare la vita di un innocente (o sventare un attentato), oppure prenderla per conservare la copertura. L’influenza di queste scelte è del tutto marginale: prendendo atto del fatto che l’assenza di Pathos non fa sentire al giocatore nessuna sorta di responsabilità, e nemmeno avvicina le sue simpatie ad una delle due parti in causa, le scelte di Sam sfoceranno soltanto in uno dei tre finali alternativi, confezionati senza alcuna cura e dispensati ognuno con una rapidità imbarazzante. Alla fine la necessità più onerosa per l’utente sarà solo quella di soddisfare le richieste di entrambe le parti. Questo si traduce, in termini pratici, nel compiere tutti gli obiettivi affidati al protagonista dal JBA senza tuttavia uccidere nessun civile (così da far contenti i ragazzi dell’NSA). Entusiasmante.

    Il gameplay di Double Agent non tenta minimamente di svecchiare un concept ludico che si trascina dietro pesanti limitazioni. La serie Sprinter Cell è stata, storicamente, afflitta da problemi congeniti di linearità intrinseca. Nonostante abbia fatto dell’esecuzione perfetta la sua ragion d’esistere, esasperando ai massimi livelli la penitenza per il giocatore poco attento, ha limitato fortemente la libertà d’azione dell’utente, costringendolo a seguire un percorso invisibile con poche aperture per bivi e variazioni. Double Agent non fa eccezione: procedere nell’avventura significa muoversi lungo un tragitto già segnato. E se in alcuni casi le ambientazioni all’aperto permettono un approccio leggermente meno incatenato, la maggior parte delle volte Sam Fisher si troverà costipato e costretto fra i corridoi di una nave da crociera, sperduto nelle stanze sequenziali di un hotel giapponese, in cui il certosino lavoro di level design ha disposto magicamente piattaforme, cunicoli e zone d’ombra nei punti più adatti a superare le guardie. Alla fine il rischio sensibile è quello di un approccio non solo lineare, ma che proceda “a tentoni”: vista l’intransigenza delle guardie e una tendenza all’esasperazione delle loro abilità sensoriali, nonché le forti penalizzazioni in cui si incorre quando si viene scoperti, l’operazione più frequente sarà quella di ricaricare dall’ultimo checkpoint, fintanto che non si conoscano a menadito i movimenti scriptati dei nemici o l’ubicazione esatta di elementi architettonici che possano celare la presenza di Sam. Certo, Fisher ha a disposizione anche un lodevole equipaggiamento da utilizzare in battaglia, e si potrebbe pensare che la sua influenza sia determinante. In realtà, anche sbloccando i numeri gadget aggiuntivi, nell’economia di gioco la tecnologia al servizio dello spionaggio gioca un ruolo sostanzialmente marginale. Soprattutto perché molti livelli si svolgono in ambienti chiusi, ben poco funzionali sono i set di granate fumogene, e anche le telecamere spia rallentano non poco l’operare del protagonista. Alla fine è possibile, se non raccomandato, limitarsi all’utilizzo di qualche apparecchiatura standard, dimenticandosi anche che il set di tre visori a disposizione abbia una qualche usabilità tattica.
    I pregi di un’impostazione di questo genere sono da ricercare sostanzialmente in un’elevata ma aggirabile difficoltà, che si traduce nella aleatoria soddisfazione ludica che si prova nell’esecuzione tempisticamente perfetta di un esteso percorso ad ostacoli. C’è da chiedersi, ma è solo retorica, se sia una struttura adatta ad uno Stealth Game.
    Fortunatamente risollevano la situazione delle sessioni di gioco ambientate all’interno del quartier generale JBA: in questi particolari frangenti si è chiamati a completare un percorso ad ostacoli e vari compiti assegnatici dal comando dei terroristi, salvo poi, nel breve tempo che avanza, eseguire particolari azioni di spionaggio. Non che la struttura di gioco vari sensibilmente, ma una parvenza di libero arbitrio deriva forse dalla locazione, ben studiata e ricca di spunti.

    Splinter Cell: Double Agent, in definitiva, resta ancorato a concezioni ludiche proprie della scorsa generazione, e neppure così originali se si considera il panorama degli stealth game (Tenchu e Mgs lasciano ben più libertà d’interpretazione). Il successo di cui Sam Fisher ha goduto agli albori della sua Next Gen derivano probabilmente da uno dei fugaci entusiasmi dell’utenza e della stampa specializzata, non pienamente ripresa dallo scossone del lancio di un nuovo Hardware con un “parco giochi” ancora in via di affermazione. Alcuni buoni spunti nelle locazioni all’aperto, un grado di sfida tutto sommato elevato, e forse l’idea di non patteggiare in nessun caso con gli errori del giocatore hanno portato Sprinter Cell ad essere considerato più di quanto meriti. Perché il titolo Ubisoft è in effetti un gioco dedicato sostanzialmente a quella fetta d’utenza appassionata del genere, ed un prodotto tutt’altro che universale, che anzi potrebbe infastidire i giocatori abituati ad altri standard. La riproposizione di Double Agent per Ps3 certo colma uno dei molti vuoti nella softeca del nuovo monolite Sony, ma non certo la arricchisce di un prodotto fresco, genuino, adatto a rappresentare la nuova generazione. Ora che infatti l’utenza ha imparato a conoscere le possibilità effettive di questa nuova epoca, sono ben altri i profili a cui dovrebbe rivolgere la sua piena attenzione.
    Si conti per altro che la conversione da Xbox 360 non è affatto all’altezza delle aspettative. A fronte dell’impegno che Ubisoft ha dimostrato in altri adattamenti, il lavoro eseguito per Sprinter Cell è insufficiente. L’appeal visivo è nettamente inferiore, la gestione delle Texture, nonostante la particolare architettura del processore Ps3, non pienamente soddisfacente. Soprattutto sono i cali di framerate che preoccupano: la differenza di architetture fra le due console avrebbe ovviamente richiesto un particolare lavoro di ottimizzazione, che è stato trascurato a priori.
    Gli inediti inserti ludici nella versione Ps3 sono pochissimi: da una parte il timido affacciarsi delle funzionalità del Tilt Sensor, attivate durante le sessioni di Hackeraggio dei sistemi di sicurezza (i team di sviluppo dovrebbero capirlo che il riconoscimento motorio non è un riempitivo, e che i giocatori non vogliono vederlo implementato con finalità rinunciabili), dall’altro l’aggiunta di due mappe ed un personaggio femminile da utilizzare nella modalità online. Per quest’ultima segnaliamo una buona qualità del servizio, ma una scarsa affluenza di utenti (a fronte di un notevole afflusso per altre produzioni: il problema non è legato a Ps3, ma ai singoli prodotti che, evidentemente, non interessano gli ormai navigati videogiocatori). In sostanza, le aggiunte alla versione Sony non sono molto determinanti.

    Splinter Cell:Double Agent Splinter Cell:Double AgentVersione Analizzata PlayStation 3Splinter Cell: Double Agent è un titolo nato e cresciuto nella vecchia generazione. Lo dimostra chiaramente il fatto che la versione Ps2 del prodotto faccia una figura sensibilmente migliore, anche grazie ad una cura più marcata nella caratterizzazione degli eventi. Tuttavia, trascinato in fretta e furia nella Next Gen, Sam Fisher ha avuto un discreto successo, come “anello di congiunzione” fra due divergenti linee evolutive del videogioco. A distanza di mesi dalla sua uscita, però, le evidenti limitazioni concettuali lo rendono un prodotto di nicchia, adatto agli sfegatati fan dello Stealth game, che riescano a venire a patti con la linearità ed il futile specchietto dei gadget ricercando nella pratica del “trial & error” un po’ di soddisfazione.

    6.5

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