Recensione The Old City: Leviathan

Un viaggio onirico (e sconclusionato?) nelle viscere oscure della Città Vecchia

Recensione The Old City: Leviathan
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  • Pc
  • Dopo Dear Esther qualcosa è cambiato nel mondo dei videogiochi: è nato un nuovo genere, completamente improntato sulla narrativa, sulla capacità di suscitare emozioni scarnificando il gameplay per creare un’esperienza che sfrutta la potenza evocativa delle parole, delle immagini e dei suoni. Sembrerebbe un lavoro più facile sotto il profilo del mero sviluppo tecnico, ma in realtà realizzare un gioco coeso e suggestivo, senza sfociare nel tedioso, nel banale e nell'insensato non è certo alla portata di tutti. I ragazzi di PostMod Softworks provano comunque ad inserirsi nel solco di questi “racconti interattivi” con il loro The Old City - Leviathan: un ennesimo viaggio nell'inconscio vissuto in prima persona, un’opera in cui eccessiva ambizione ed effettiva qualità corrono però su due rette parallele.

    NEL VENTRE DELLA BALENA

    La Città Vecchia si fonda su di un complesso industriale ormai in decadenza, dopo che le riserve idriche sono state contaminate e hanno portato alla morte della popolazione. Una piaga, una punizione, un tentativo di sovvertire l’ordine costituito. Ma se crediate che il nostro compito, in quanto giocatori, sia quello di indagare su quanto avvenuto, vi sbagliate: qui non siamo dalle parti di The Vanishing of Ethan Carter, bensì di Dear Esther, quindi all'investigazione si sostituiscono la contemplazione e l’esplorazione. Proprio come nel gioco thechineseroom (e nei suoi ormai numerosi emuli) durante il nostro vagabondare lungo le ambientazioni ascolteremo i monologhi del protagonista, un flusso di pensieri joyciano che tratteggia i contorni di una narrazione che rappresenta la vera sfida del gioco: mettere insieme i pezzi della storia non è un’impresa facile ed occorrerà sbirciare virtualmente ogni angolo per sbloccare tutte le linee di dialogo presenti. Sin dall'inizio siamo avvertiti che il viaggio che stiamo per intraprendere potrebbe non essere reale, ma il percorso onirico nella mente di un sopravvissuto che osserva e giudica ogni cosa dalla sua prospettiva. Un narratore mendace dunque, se non del tutto inaffidabile, un personaggio soggetto spesso e volentieri a visioni, o per meglio dire esperienze trascendentali, che mutano l’ambiente circostante e confondono persino la nostra interpretazione della realtà.
    L’unica interazione concessaci riguarda l’apertura di porte o di piccole scatole in cui sono celati degli appunti che aiutano a definire maggiormente il contesto narrativo. Ci sarà data facoltà anche di correre, per visitare gli scenari con maggiore velocità (ma perdendo gran parte del fascino ambientale) e persino di saltare, azione che, a conti fatti, durante l’esperienza si rivelerà inspiegabilmente inutile. Consci di trovarci dinanzi ad una produzione che esula dai criteri tradizionali di analisi, l’aspetto su cui porre maggiore attenzione è sicuramente legato al modo in cui l’ambientazione si rapporta con la storia e viceversa.

    La progressione, in The Old City, non ha uno sviluppo logico e coerente: in quanto pellegrinaggio nei sogni e nella mente visiteremo senza soluzione di continuità un complesso industriale, sobborghi orientali travolti dal rigoglio del verde, residui di antiche città che hanno i tratti propri dell’era precristiana, e boschi che sembrano materializzazione delle descrizioni del mito, dei poemi, delle leggende faunistiche. Ad unire questi luoghi apparentemente slegati tra di loro vi è la piccola stanza di un bambino, in cui osservare con attenzione i singoli oggetti che la arredano, suppellettili e giocattoli: simboli, a loro modo, di un immaginario che, con l’avanzare dell’età, ha generato mostri e paranoie. Ogni scenario pullula di una sciarada di dettagli che provano a configurarsi come tasselli di un puzzle davvero complesso, da pittogrammi sulle mura a statue di marmo, passando per iscrizioni mortuarie su pietre sotto cui sono metaforicamente sepolti i sogni: la loro analisi minuziosa diviene quindi imprescindibile ai fini della pur minima comprensione del substrato narrativo. Un certo di tipo di cultura pregressa è tuttavia estremamente necessaria per capire la storia di The Old City, che orienta il proprio appeal su un pubblico che conosce anche per sommi capi il simbolismo cristiano intorno al quale gli sviluppatori hanno imbastito il background della Città Vecchia. Il problema è che i riferimenti alle “Bestie della Creazione” (il Leviatano, il Behemoth e lo Ziz), alla mitica città di Tarsis e alle vicende bibliche del profeta Giona si confondono in un calderone fumoso e dal significato fin troppo ingarbugliato: anche conoscendo le Scritture da cui trae ispirazione, il senso della storia di The Old City scava ben oltre il limine della percezione, mescolando fatti, personaggi e iconografie senza che nessuno prenda il sopravvento.

    Trarne un filo conduttore è certamente possibile, ma non sarà realmente soddisfacente, e a tratti sembrerà di scorgere collegamenti un po’ troppo forzati, causati dagli eccessi di una sceneggiatura non in grado adeguatamente di gestire la complessità delle tematiche presenti. In più di un’occasione, i monologhi del protagonista paiono non avere un filo conduttore, e potrebbero facilmente essere etichettati, anche se un po’ superficialmente, come il delirio di un folle. L’intera esperienza è tutta giocata, quindi, sulle potenzialità evocative insite negli anfratti di memoria del protagonista e della Città stessa, senza però avere l’afflato epico di altri congeneri. Ai fini di una maggiore e più nitida comprensione, comunque, un secondo playthrough è assolutamente fondamentale. Ecco allora che i parametri classici per valutare la longevità si piegano dinanzi alla concreta possibilità di dover considerare la brevità dell’avventura (un’ora scarsa per completare gli 11 capitoli del gioco in una prima run) una caratteristica inserita volontariamente per favorire la rigiocabilità. Proprio come se volessimo rivedere la scena di un film o rileggere un passo di un racconto per cogliere un particolare che ci era precedentemente sfuggito.
    In giochi di questo genere, inoltre, il comparto grafico è un aspetto da non sottovalutare ai fini della valutazione complessiva, perché necessario per trasportare in immagini le suggestioni dei pensieri e i fantasmi che popolano i sogni, e per donare un impatto audiovisivo in grado di coinvolgere i sensi del giocatore. Sviluppato con l’UDK (Unreal Development Kit), The Old City si difende piuttosto bene sul fronte meramente tecnico, con paesaggi e interni opportunamente particolareggiati e un abile level design che alterna, senza sortire nessun effetto eccessivamente straniante, ambienti reali e panorami onirici. Alcuni scorci visivi regalano sequenze ricche di emotività, cui si aggiungono anche un buon accompagnamento musicale di genere e un doppiaggio di efficace stampo teatrale.

    TUTTA COLPA DI BABELE

    L’incomunicabilità è una brutta bestia, anche più degli animali mitici della Creazione. The Old City è localizzato completamente in inglese e la barriera linguistica può essere un bel problema in un gioco simile. Questo non tanto perché la sintassi e i termini utilizzati siano particolarmente complessi o desueti, ma perché, anche comprendendo parola per parola l’intero sproloquiare del protagonista, si potrebbe trovare difficoltà a scovare un senso che vada oltre il significato letterale. I monologhi abbondano di metafore e allusioni, e chi non possiede una buona conoscenza della lingua della Regina farebbe meglio a non intraprendere questo viaggio.

    The Old City: Leviathan The Old City: LeviathanVersione Analizzata PCSi potrebbe snocciolare una serie d’ipotesi per dare un senso compiuto e coerente alla storyline di The Old City, e per far capire quanto profonda sia la tematica e l’ambizione alla base di questo nuovo esperimento di narrazione videoludica pseudo interattiva. Tuttavia la sostanza non cambierebbe: occorre tenere ben a mente che, per quanto voglia apparire intrigante e complessa una struttura narrativa, mostrando magari tutta la cultura figurativa e simbolica di cui si fregiano gli autori, c’è una bella differenza tra una vicenda inutilmente disordinata e una sapientemente sfaccettata perché ricca di diversi gradi di lettura. Purtroppo, sotto molteplici punti di vista, The Old City si macchia del primo peccato, ma rimane comunque un prodotto di discreto artigianato che ha alla base un lavoro meticoloso sul piano artistico e culturale, e che in alcune sequenze sa ripagare il giocatore più attento con pur validi spunti di riflessione e momenti di sano coinvolgimento visivo.

    6

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