Cina e Videogiochi: No Country for a Console Gamer

Nuove Geografie Videoludiche: un viaggio alla scoperta di mercati del Sol Levante. Si comincia da quello cinese, analizzando storia, gusti, mode e tendenze

Cina e Videogiochi: No Country for a Console Gamer
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Quello che stiamo per intraprendere è un viaggio alla scoperta dei mercati videoludici che solitamente restano "in disparte", poco indagati dalla stampa di settore e ancor meno conosciuti dal pubblico. L'interesse dell'autore si basa del resto sulla convinzione che i videogame influenzino le società più di quanto si possa immaginare. Purtroppo, per questioni di tempo e spazio, la tendenza è quella di concentrarsi sulle strutture centrali e dominanti, tralasciando una "periferia ludica" che è in piena rivoluzione industriale. Questa rubrica rappresenta quindi un percorso di riscoperta dei panorami irradiati dal sol levante, ognuno con le proprie specificità.

Una delle cose che più mi piace fare quando viaggio è andare alla ricerca di videogame. Non devo necessariamente comprare qualcosa, ma anche solo entrare in un negozio, valutarne l'assortimento e i prezzi, vedere cosa compra la gente: mi provoca una malsana sensazione di appagamento. Uno dei posti in cui questa ricerca è stata più affascinante, ma anche estremamente difficile, è stata la Cina. Nel 2011 ho avuto la possibilità di trascorrere un paio di mesi tra Hong Kong e Guangzhou. Se l'esperienza di Hong Kong si è rivelata abbastanza in linea con quella avuta in altre metropoli occidentali, le poche centinaia di chilometri che mi hanno condotto nella Repubblica Popolare Cinese si son tradotte in una specie di ritorno al medioevo videoludico. Ero consapevole della peculiare condizione in cui versava il gaming in Cina, soprattutto lato console, ma l'osservazione diretta del fenomeno porta sempre in dote delle simpatiche sorprese.
Una volta passata la dogana e poggiate le valigie in albergo, potevo finalmente partire alla scoperta della città e cercare di capire da dove iniziare la mia ricerca. Nonostante la vendita di hardware e software fosse vietata, il mercato nero era abbastanza diffuso nelle principali città cinesi e l'importazione di prodotti da determinati porti franchi (principalmente Hong Kong e Taiwan) era per lo più tollerata. E poi eravamo in piena Golden Week, il periodo dell'anno dove la gente è più incline a viaggiare e spendere. Alla reception dell'albergo scopro di avere il più grosso centro commerciale sotterraneo dell'Asia a due isolati di distanza. L'orgoglio nelle parole della giovane receptionist mi convince e, dopo un veloce pit-stop da One Dollar Coffee, inizio a sognare una bella copia cinese di Gears of War 3. Inutile dire che la mia chilometrica peregrinazione si è conclusa con un deludente nulla di fatto, i pochi negozi di articoli elettronici erano ovviamente sprovvisti di videogames e alle mie domande ricevevo in risposta delle interrogative spallucce, traducibili con un universale "ma che si aspettava sto fesso?"
Ho provato anche in alcuni negozi in centro, ma la risposta è stata la stessa. Probabilmente non conoscevo i posti dove cercare, o non avevo i giusti canali informali per convincere i diffidenti negozianti cantonesi. Nel 2011, questa era la triste realtà per i poveri consolari come me. Ma come si è venuta a creare una situazione del genere in un paese che, potenzialmente, potrebbe diventare il mercato videoludico più florido al mondo?

Coda di fronte all'Apple Store a Nanchino

Le impressionati riforme economiche avviate da Deng Xiaoping durante gli anni ‘80 hanno progressivamente trasformato la Cina nel socialismo di mercato che oggi conosciamo. Il suo invito ad arricchirsi è stato prontamente accolto da una crescente fascia imprenditoriale, che ha contribuito alla creazione di un mercato dalle infinite possibilità per qualsiasi tipo di business. Il turbocapitalismo in salsa cinese ha così permesso che Shanghai diventasse una delle città con la più alta concentrazione di Ferrari al mondo, e che buona parte del fatturato della Apple sia dovuto alla granitica brand loyalty dei cinesi.
Ma un'industria è rimasta indietro ad arrancare, cercando di inserirsi attraverso canali ufficiali e non formali. L'industria del gaming, nello specifico delle home console, non ha avuto la possibilità di conquistare il mercato e influenzare generazioni di giovani nerd come accaduto altrove. Se negli anni '90 si poteva ancora parlare di difficoltà nel penetrare commercialmente un mercato difficile e tendenzialmente arretrato, nel 2000 le cose cambiarono in maniera drastica.
L'inizio del nuovo millennio portò infatti in dote la messa al bando dei sistemi di gioco casalinghi. Nel giugno del 2000 il consiglio di stato cinese promulgò una legge che forniva delle linee guida per la gestione di sale gioco e internet cafè, ma soprattutto imponeva il blocco immediato della produzione e della vendita di apparecchi elettronici da gaming, con annessi software e accessori, nel territorio cinese. Inoltre l'importazione degli stessi venne subordinata al superamento di un fantomatico controllo governativo.
Questa misura sembrava indirizzata principalmente a combattere due fenomeni: la propagazione della dipendenza da gioco, che aveva già causato le prime vittime in Giappone, Corea del Sud e Taiwan, e l'esposizione di bambini e adolescenti a pratiche potenzialmente alienanti e dannose da un punto di vista sociale. Ciò nonostante, esisteva una zona istituzionalmente grigia entro la quale muoversi. Per esempio, i PC erano ovviamente esclusi dalle restrizioni. E, teoricamente, le hardware house avrebbero potuto cercare un modo di aggirare il problema. Per esempio, per quanto riguarda la produzione locale il blocco era principalmente riferito a slot machine e affini.

Sala per il gioco online

Sony, che aveva appena lanciato Playstation 2 in Giappone, cercò comunque di pianificare una strategia per portare la console in Cina. La distribuzione venne affidata alla CellStar, una compagnia telefonica cinese, e il prezzo consigliato si aggirava sui 1500 yuan (all'epoca circa 180 dollari). Ma, dopo alcuni rinvii, il lancio del gennaio 2004 fu fortemente ridimensionato. Playstation 2 venne commercializzata solo a Guangzhou e Shanghai, nonostante il lancio fosse inizialmente previsto in cinque città. Oltre alle forti problematiche legali descritte in precedenza, questa decisione venne probabilmente influenzata anche dalla galoppante pirateria. Nel 2002 il 92% del software utilizzato dai cinesi era stato ottenuto illegalmente, causando alle aziende produttrici un mancato introito di circa 2,4 miliardi di dollari.
In questo senso, Nintendo fu l'unica azienda a trovare un valido "Cavallo di Troia." Nel 2002 la compagnia di Kyoto fu la principale investitrice della neonata iQue. Il focus di questa compagnia era, ed è tuttora, la produzione e la distribuzione dei prodotti Nintendo in territorio cinese. Quindi una compagnia cinese, localizzata e operante in Cina. Il primo frutto di questa collaborazione fu l'iQue Player, che fu rilasciato il 17 novembre 2003.
A questo punto credo sia necessario soffermarsi un attimo sull'iQue Player, sia per la sua iconicità e sia per la sua capacità di essere un esempio paradigmatico del mercato cinese. In parole povere, l'iQue Player era un Nintendo 64 plug-and-play. La console era racchiusa all'interno del pad, che veniva collegato direttamente alla tv. I giochi, ovviamente porting dei titoli N64, venivano salvati in una flash card da 64 MB. Che era incastonata in una sorta di cartuccione. Che doveva essere inserito nella console. La flash card poteva contenere un solo gioco alla volta e non poteva essere inserita in un'altra console.

iQue Player

Per comprare i giochi era necessario trovare un rivenditore autorizzato, dotato di un macchinario chiamato "iQue Depot." Una volta acquistato il gioco, si riceveva un "iQue Ticket" con un codice da inserire nel macchinario. Il passo successivo era collegare la flash card al macchinario e scaricare il gioco. Comodo no? A questo medievale sistema era anche affiancata una primordiale piattaforma online, Fugue Online, adibita all'aggiornamento della console e dello storico acquisti. Teoricamente era anche possibile scaricare i giochi direttamente dal sito, previo acquisto del ticket ovviamente.
Grazie ad iQue, Nintendo si trovò in una posizione di sostanziale monopolio per quanto riguarda il mercato ufficiale. La grande N riuscì a penetrare le maglie burocratiche del Partito, sfruttando principalmente il paracapitalismo di stato atto ad attirare investimenti diretti esteri. Inoltre il software Nintendo non era visto in maniera particolarmente negativa dalle autorità cinesi, era anzi ritenuto preferibile a molte altre produzioni occidentali che mal si coniugavano con i valori della società cinese. Ciò nonostante, l'iQue Player non fu esattamente un successo commerciale e il mercato nero continuava ad essere una valida alternativa per i pochi core gamer cinesi. In un città industriale come Shenzen, distante una manciata di chilometri da Hong Kong, era abbastanza semplice acquistare Playstation 2 e GameCube d'importazione. Accanto a questa situazione di apparente stallo, in realtà qualcosa iniziò a muoversi. Il mondo del PC gaming era in grande fermento, con giochi come Diablo e World of Warcraft che divennero ben presto popolarissimi. Conseguentemente iniziarono a nascere software house, compagnie di distribuzione e holding finanziarie locali che intravedevano grandi possibilità di guadagno. Anche grazie alla loro opera di pressione, il governo cinese iniziò a ragionare sulla possibilità di sfruttare la situazione e regolare il mercato in maniera differente.
Come vedremo nel prossimo articolo, fu proprio in questo periodo che iniziarono a crearsi, o strutturarsi, alcune delle holding che ora dominano il mercato interno e che hanno acquisito una certa influenza anche a livello globale.

Leggi la Parte 2: Cina e Videogiochi - Anno Zero, nascita e crescita del mercato locale
Leggi la Parte 3: La Cina ritorna nel mondo: primo bilancio sul mercato liberalizzato