I V motivi per cui Metal Gear Solid V è un capolavoro

Cosa ci ha lasciato Kojima nell'ultimo capitolo della sua saga? Analizziamo nel dettaglio le sue tecniche narrative

I V motivi per cui Metal Gear Solid V è un capolavoro
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  • Xbox 360
  • PS3
  • Pc
  • PS4
  • Xbox One
  • Un avviso importante ai lettori: in questo articolo ci sono molte anticipazioni e vengono discussi dettagli importanti sulla trama di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain. Insomma, è un articolo pieno di spoiler, terribili e minacciosi. Quindi attenzione a leggere, se non volete rovinarvi l'esperienza finale del videogame. L'obiettivo del pezzo, una volta quietate le aspre discussioni sui tagli (reali o presunti che siano) e sull'impostazione globale del prodotto (che non è andata giù a molti fan di lungo corso), è quello di individuare i motivi dell'unicità di The Phantom Pain, e soprattutto quegli elementi che più di altri hanno fatto breccia nel cuore dell'autore: quella di Federico resta una visione struggente e personale, che racconta di un amore ludico intenso e trascinante. La speranza è che pure chi non la condivide possa cercare di capire come mai l'ultimo Metal Gear è un prodotto a suo modo unico, che risponde ad esigenze diverse rispetto a quelle dei capitoli più tradizionali, e che ha tanto da offrire.

    Introduzione a cura di Francesco Fossetti

    QUIET

    "Everybody calls me the quiet one
    You can see but you can't hear me
    Everybody calls me the quiet one
    You can try but you can't get near me
    I ain't never had the gift of gab
    But I can't talk with my eyes
    When words fail me you won't nail me
    My eyes can tell you lies"
    - The Who, The Quiet One

    L'estrema sensualità della donna silente non è che un'erotica superficie dove si può arrestare lo sguardo più superficiale, cadendo nell'accecante trappola di bellezza sfrontata allestita da Kojima per ingannare benignamente il giocatore o infastidire il suo senso del pudore. Disprezzare il fascino carnale di Quiet, o peggio volerlo censurare, è un atteggiamento simile a quello di chi volle coprire di foglie di fico le nudità del Giudizio Universale, come il pittore e scultore Daniele Ricciarelli ricordato ancora oggi con il dispregiativo titolo di "braghettone". Non c'è nulla di scandaloso nella travolgente femminilità di Quiet. "La bellezza è verità", e quella di Quiet va oltre le sue bianche carni. Il vertice tragico e poetico toccato da Kojima in questa sua ultima opera risiede nel profondo dell'animo sconvolto e ferito della fanciulla-cecchino, nei motivi del suo sofferto silenzio, nell'abisso dei suoi occhi in cui arde un disperato bisogno di esprimersi, nell'eroica e altruistica volontà di non comunicare con le parole. Per comprendere la statura etica e poetica della pallida Quiet è necessario vedere e giocare ogni aspetto della sua storia, guardarla schizzare Snake giocando con le pozzanghere come fosse tornata una bimba, osservarla dolenti mentre viene torturata e infine assistere al sublime e amoroso epilogo della sua storia.

    L'importanza di ascoltare

    Sono cresciuto ascoltando la radio, facendomi leggere le fiabe e mettendo sul giradischi i 45 giri delle favole. Mi piace sentire una storia, probabilmente anche a Kojima e a molti della mia generazione per i quali non è solo l'immagine a stabilire e a giustificare l'andamento del racconto. Comprendo che molti, in un'epoca dove ogni azione si può trasformare in una fotografia o in un video pubblicabile e condivisibile, possano trovare noiose e disturbanti le lunghe sessioni di ascolto di registrazioni audio, molte delle quali sono obbligatorie da udire se si intende sbloccare contenuti fondamentali. Invece questa è un'altra intuizione geniale di Kojima, non un segno di trascuratezza o pigrizia. I segmenti audio sono recitati con estrema bravura e partecipazione, sono sceneggiati con arte e uno squisito senso del teatro radiofonico. Kojima sollecita l'orecchio e lo emancipa dall'occhio, liberando l'udito dalla dipendenza della visione. La parola, esercizio sonoro della ragione, intesa come linguaggio che definisce un popolo e ne giustifica l'esistenza, è la magnifica ossessione di Kojima nel suo commiato alla saga. D'altronde l'idioma videoludico e multimediale che ha inventato con Metal Gear non è destinato a estinguersi con il suo allontanamento da Konami? Sono convinto che realizzerà altre grandi opere, nuove e diverse. Metal Gear tuttavia sta già soccombendo da prima che Phantom Pain uscisse, vittima di un virus letale come quello del gioco: la grande industria, le sue dinamiche e il drastico mutare dei gusti del pubblico.

    Colonne sonore, le canzoni come affresco di un'epoca

    "Any day now
    The Year of the Diamond Dogs
    This ain't Rock'n'Roll
    This is Genocide
    " - David Bowie, Future Legends da Diamond Dogs

    The Phantom Pain, oltre a essere una dichiarazione d'amore a David Bowie, è il lavoro più musicale di Hideo Kojima, poichè le canzoni costruiscono uno scenario (fanta)storico in maniera efficace. Un altro tassello della metodica, chimerica e multi-artistica costruzione dell'orizzonte tematico e del racconto operata da Kojima. Non sono mai stato un fanatico dei collezionabili, ma cercare tutte le canzoni presenti nel videogame è diventato un imperativo categorico. Non solo è un'esperienza di gioco affascinante ascoltarle alle radio dove vengono riprodotte, dapprima a distanza, poi identificare il luogo da cui risuonano e sottrarre infine il nastro per poterlo poi ascoltare successivamente con il walkman Sony, ma è straordinaria la casualità con cui le canzoni vengono riprodotte nella prigione di Quiet. Per questo atterravo sempre sulla piattaforma medica, non solo per visitare occasionalmente Quiet. Le canzoni sono un fenomenale affresco sonoro di un'epoca, indissolubilmente legate ad un passato che ripristinano con le loro note. Guardare Quiet quando si muove meccanicamente, irresistibile nella sua cella mentre Midge Ure e gli Ultravox cantano "dancing with tears in my eyes", canzone intimista su un'imminente catastrofe nucleare, è un momento grandioso sebbene sia assolutamente fortuito. C'è poi l'usuale colonna sonora techo-epica e sinfonica che non risulta mai artificiosa, contrappuntando di rado le immagini e per questo esaltandole, confondendosi con i suoni della battaglia, del deserto, della foresta e delle emozioni.

    Essere o non essere Snake, la maestria del super colpo di scena

    Attenzione, questo paragrafo contiene spoiler sul finale del gioco
    "Egli è un uomo superbo, empio, divino. Il Capitano Ahab non parla molto; ma, quando parla, dovresti ascoltarlo bene... Ahab è al di sopra della gente comune, è stato all'università così come in mezzo ai cannibali, è abituato a meraviglie più profonde delle onde, e ha immerso il suo arpione ardente in nemici più strani e potenti che le balene". - Herman Melville, Moby Dick

    Chiunque abbia portato a termine The Phantoim Pain conosce la verità definitiva e clamorosa, anche se annunciata in maniera colta o didascalica durante molti segmenti del gioco, a partire dai nomi di Ishmael, l'unico superstite della Pequod in Moby Dick e Ahab, destinato invece a soccombere per sconfiggere il bianco e imbattibile leviatano leggendario. Bisogna conoscere tuttavia con profondità sia il romanzo di Melville che la saga di Metal Gear dalle sue origini per cogliere la traccia iniziale lasciata dall'autore. Infatti Achab/Venom Snake è destinato a essere eliminato nel primo episodio, vittima della sua volontà incrollabile di realizzare un'utopia, annientato da un sistema mostruoso quanto la balena bianca. Ishmael/Big Boss invece sopravvive, sebbene in coma artificiale, per tornare alla fine di Guns of the Patriots e concludere la saga. Cerebrale e dotto il parallelismo con il capolavoro letterario americano, ermetico senza alcun dubbio, magistrale. Devo ammettere che solo a posteriori ho meditato su tutto ciò, mentre ho iniziato a intuire davvero che forse non ero davvero Big Boss quando seppi che i geni di Eli non coincidevano con quelli di Venom Snake. E poi c'è il doppiaggio; a posteriori sono convinto che Kojima avrebbe voluto affidare a Hayter quello di Ishmael, ma il colpo di scena finale sarebbe stato evidente fin dall'inizio. Il nuovo doppiaggio di Kiefer Sutherland risulta comunque sorprendentemente efficace anche per chi scrive, un grande ammiratore della voce catramosa di David Hayter. Ritengo che la scelta di Kiefer Sutherland sia stata adeguata (e solo in minima parte una trovata commerciale) alla nuova dimensione verbale di Venom Snake, laddove ogni parola è come un grumo di sangue che fatica ad essere espulso, un linguistico tumore maligno che si ritira per poi crescere di nuovo, implacabile. Venom Snake, così avaro nell'esprimersi, è un uomo torturato dalla parola, non solo per la scheggia che gli ha ferito quella zona del cervello in cui hanno luogo le elaborazioni linguistiche.

    Il racconto mimetizzato

    C'è chi si lamenta della scarsità numerica di scene d'intermezzo, qualcosa di paradossale se prendo in considerazione gli antichi pianti di chi ai tempi degli altri Metal Gear si lagnò invece dell'eccessiva abbondanza di filmati non interattivi. Voglio sperare, e lo credo, che non siano le stesse persone. Va considerata la vastità, in termini di tempo di gioco, dell'ultima opera di Kojima. Le scene d'intermezzo risultano diluite in decine di ore e questa volta l'autore ha deciso di mimetizzare e celare molte tra le più preziose, trasformandole in un premio per il giocatore appassionato e meticoloso. Kojima ha fatto una scelta rivoluzionaria e sperimentale, che ha la forza di trasgredire le leggi stabilite dai precedenti lavori, rischiando di deludere il pubblico dei suoi fan più intransigenti.

    Tuttavia, ancora una volta, il suo racconto è magnifico, estremo, politico e personale risultando simbolico e allegorico come un testo barocco, visionario,teso e ispirato nella maniera della migliore narrativa giapponese. Kojima ha inventato un'esperienza ludica dai ritmi così dilatati che come pochissime altre consente una forma di narrazione interiore e intima, favorendo una dialettica artificiale, illusoria ma feconda, con un personaggio che striscia in noi accarezzandoci la psiche con le squame di un serpente amichevole. Una continua cinematica metafisica fiorisce nell'immaginazione del giocatore, si sovraimprime al gameplay come un'allucinata visione sognata dalla mente ferita di Venom Snake e diventa cosa propria, unica. Si instaura una simbiosi tra le emozioni artificiali di un simulacro digitale e quelle del "giocatore", causando una sovrapposizione di pensieri, soprattutto di memorie e ricordi. I ricordi artificiali di Big Boss, neanche tanto estranei perché li abbiamo vissuti e ci appartengono, e quelli soggettivi legati alle trascorse esperienze ludiche della saga e al loro ruolo nel tempo e nella vita quotidiana di chi gioca. Così come accade nei grandi romanzi c'è una meta-testo, qualcosa che si intuisce tra le lettere e i periodi, nello spazio galattico che si spalanca dopo un punto. Questa segretezza dei contenuti narrativi, la discrezione con cui Kojima ha preferito farli scaturire dalla fantasia e dal lavoro del giocatore invece che mostrarli, come avrebbe potuto, con la solita didascalica perizia e precisione, è un segno della nuova maturità del suo genio e del rispetto che nutre per chi vive e ama le sue opere, una stima per il proprio pubblico che non solo si manifesta grazie all'estrema libertà concessaci nello svolgere qualsivoglia missione ma soprattutto quando elaboriamo le nostre visioni personali contrappuntate da quelle dell'anima digitale di Venom Snake. Va inoltre sottolineato lo stile novello con cui Kojima, un regista che va accostato a maestri come Kurosawa, Aldrich, Fuller e Carpenter, ha deciso di dirigere le scene non interattive: il piano-sequenza dalla lunghezza smisurata. Se nelle opere precedenti un montaggio geometrico e spettacolare, nello stile di John Woo, connetteva ispirate inquadrature dando vita a eccezionali coreografie, in Groud Zeoes e Phantom Pain invece può sembrare che Kojima si rivolga a reminiscenze wellsiane e (perdonatemi è orrendo) depalmiane, artisti che hanno realizzato con virtuosismo indimenticabili piani-sequenza. Non è così, poiché il piano-sequenza di Kojima è video ludico, si riferisce allo scorrere senza tagli implicito nella progressione di un videogioco. Così, infine, Kojima nega la dipendenza del videogame dal cinema, esaltando l'immenso e unico potere diegetico, temporale e spaziale del medium più giovane.

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