Speciale La poesia oscura ed il mito di Dark Souls 2

La poesia oscura ed il mito di Dark Souls 2

Speciale La poesia oscura ed il mito di Dark Souls 2
Articolo a cura di
Disponibile per
  • Xbox 360
  • PS3
  • Pc
  • Siamo gli uomini vuoti...”.
    T.S. Eliot

    Uomini e donne morti della Seconda Morte. Non importa se dopo questa di morti ce ne saranno centinaia. Quella che conta in Dark Souls 2, mostruosa Divina Commedia interattiva, è la seconda, ovvero la morte dell’anima, la dannazione che ci costringe all’eterna ripetizione infernale in un mondo marcio, decaduto e corrotto dove udiremo “le disperate strida” e vedremo “li antichi spiriti dolenti, che la seconda morte ciascun grida”.
    Chissà se Hidetaka Miyazaki ha letto una traduzione giapponese dell’opera di Dante; non sembra così improbabile, considerando che anni addietro fu proprio la Commedia a ispirare Go Nagai per Devil Man e Mao Dante. E se non l’ha letta c’è comunque un’affinità elettiva tra il game designer giapponese e il poeta fiorentino.
    Da Demon’s Souls al secondo episodio di Dark Souls c’è una corrispondenza profonda con la poesia e la filosofia infernale e purgatoriale dell’Alighieri: per tono, colore, atmosfere e disperazione. Una corrispondenza che va oltre il citazionismo e la retorica del sottovalutato Dante’s Inferno, e che sublima le opere di From Software in qualcosa che non può essere definito solo un videogioco (sebbene queste lo siano in una forma purissima) ma in un’ardua e grave esperienza che mette in crisi chi intraprende il cammino di queste selve oscure, per rivelargli infine le luci e le ombre della sua anima. Nelle terre desolate in cui ci muoviamo in questa magnifica, deprimente e esaltante “trilogia” siamo sempre soli, anche quando giochiamo online, come se fossimo condannati ad un supplizio soggettivo che è doloroso e magnifico insieme, poiché oltre lo struggimento ci lascia intravedere la luce della salvezza. Le regole mistiche del purgatorio sono applicate ai gironi infernali poiché qualsiasi sia la pena, qualsiasi sia l’abominevole delitto di cui ci siamo macchiati per essere trasformati in uomini vuoti c’è la possibilità, tramite il sacrificio e la determinazione, di essere redenti e superare i confini delle fiamme eterne. Possiamo scampare all’inferno anche solo per ritrovarci ancora tra i suoi supplizi, ma è questa speranza di fuga che alimenta la volontà degli uomini vuoti, e tanto basta.
    Tutto ciò è masochistico? No, è un supplizio da intendere nella maniera di quello dei monaci che si flagellavano per trovare dio nel dolore, salvo che siamo in un videogioco e non ci sono sangue e cicatrici, ma solo molta sofferenza e un conseguente eremitaggio forzato dalla realtà, derivato dalle ore trascorse in un mondo che non si vorrebbe lasciare mai per la passione-repulsione che suscita.
    Chi non ha mai giocato a questi videogame può chiedersi dove sia il divertimento, d’altronde si tratta di giochi. Non sono certo spassosi come un platform con Rayman o Super Mario, tuttavia intrattengono il proprio pubblico con qualcosa di più raro di una risata o un sorriso, poiché sono grandiose e esaltanti avventure che hanno il pregio di essere gravi in una maniera che amplifica l’epica a livelli che nessun’altra opera elettronica ha saputo fare. La “gravitas” è un registro inedito nei videogiochi.

    Mitologia infranta

    C’è una mitologia che regola i mondi delle epopee animistiche di From Software. Storie ancestrali frammentate in indizi avvolti da nebbie ermetiche, che si intuiscono nelle parole sfiancate dei personaggi dolenti che percorrono un mondo che, come quello di Roland de La Torre Nera, “è andato avanti” lasciando indietro solo ricordi purulenti. Le tracce di una Storia sono ovunque, soprattutto nelle schermate di caricamento, gioielli di archeologia elettronica in cui sono gli oggetti a narrare il passato. Ma è vero ciò che raccontano? Esiste veramente un passato o solo un presente macilento in cui chi vaga vive le suggestioni provenienti da milioni di universi e i ricordi di milioni di anime?
    Addentrandomi nella mitologia di Demon’s Souls e Dark Souls scopro decine di passati possibili e contradditori (draghi impazziti, guerre contro i giganti, congiure, pandemie) che mi fanno intuire come la terra in cui viaggio possa essere una cloaca cosmica in cui cola l’orrore iperbolico di tutti gli universi. Un orrore che lascia le sue tracce, bramoso di esistere, laddove cade, sussurrandoci di antichi abomini che hanno fatto tremare le stelle. Come nella Torre Nera i confini tra i mondi e le dimensioni sembrano essersi infranti, precipitandomi nello “Scolo” supremo dello spazio-tempo.
    Si tratta quindi di una mitologia chimerica composta da miti diversi che si rispecchia nei panorami, nelle creature, negli oggetti e nelle architetture, con il risultato di restituire un’ambientazione di fantasmagorica potenza davvero disumana.
    Il design dei nemici più ostici da sconfiggere dimostra l’anima chimerica dei “souls”, presentando creature abominevoli composte da corpi diversi o solenni cavalieri le cui armi e armature provengono dalle scuole metallurgiche più lontane nel tempo, forme che vengono miscelate con risultati esteticamente spaventosi.

    Il mito dell’imbattibilità

    Chiunque abbia giocato ai “souls” ha provato almeno una volta, ma credo di più, se non quasi sempre, la sensazione che la minaccia da affrontare sia insormontabile. A me, più recentemente, è capitato con il Demone del Canto, un rospaccio enorme e viscido con una testa che richiama il teschio umano. Si può ferire solo colpendolo al volto, da cui spara getti micidiali d’acqua e talvolta si cala un osceno cappuccio che sembra un preservativo nero che glielo copre, rendendolo intoccabile. Si trova nel bellissimo ma davvero insidioso Tempio di Amana e lo si combatte in una tonda arena allagata.
    Il sonno della ragione genera mostri” e From Software ha trasformato in regola il titolo dell’opera che Goya dipinse nel 1797. L’aspetto terrificante e la potenza del nemico mi precipitano in uno stato di timoroso torpore che mi impedisce di studiare la debolezza del nemico a cui soccombo più volte.
    Solo la logica e un’acuta pazienza ci possono salvare, qui nella realtà in cui scrivo o in Dark Souls II.
    Scopro che l’acqua in cui mi muovo non nasconde abissi traditori. Posso sfuggire agli attacchi della creatura correndo in maniera circolare attorno alla parete tondeggiante della grotta. Non vedo il mostro ma lo sento quando salta con fragore ricadendo in acqua e allora mi giro. Ho giusto il tempo di scagliargli una freccia del fulmine o due. Dopo una decina di minuti il Demone del Canto è solo un ricordo e un mucchio di anime.
    Dark Souls II costruisce ad arte, con sadismo e genio, il mito della sua imbattibilità, atterrendoci. Ma è la distruzione di questo mito lo scopo più alto della saga: che non è solo uno dei “videogiochi” più appassionanti e terrificanti mai realizzati, ma un glorioso e oscuro inno alla ragione umana.

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