Le ragioni dei Remake nel mondo dei Videogiochi

Quali sono i motivi dietro alla realizzazione dei reboot e dei remake nel settore videoludico? Ecco i diversi approcci delle software house.

Le ragioni dei Remake nel mondo dei Videogiochi
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Qual è il parassita più resistente? Un'idea.
Più di un batterio, più di un virus. Può capitare, alle volte, che durante un processo creativo le idee finiscano però per impantanarsi in una stagnazione eccessiva, priva di validi spunti per rimpolpare il mercato con nuove, sostanziose offerte. È in situazioni del genere che l'ispirazione delle software house corre indietro nel tempo, verso un passato illustre, per recuperare tutte quelle IP che hanno fatto storia dell'industria. Il "riciclo delle idee" non è una pratica inusuale in nessun medium audiovisivo, dalla musica (si pensi alle cover dei brani più celebri) al cinema (che oramai pullula di remake di dubbia qualità). Ed il videogioco, ovviamente, non fa alcuna eccezione: riesumare una vecchia gloria, come tentativo (più o meno subdolo) di far leva sull'altisonante nome del brand, diviene una pericolosissima arma a doppio taglio. Da un lato il nuovo prodotto potrebbe "vivere di rendita" sulle spalle del titolo che porta, ma dall'altro rischia di colare irrimediabilmente a picco, a causa di un inevitabile paragone con il modello di riferimento. La politica dei reboot o dei remake in ambito videoludico non segue, tuttavia, sempre le stesse regole per tutte le riproposizioni: di seguito abbiamo quindi provato a riassumere quelle che reputiamo siano le motivazioni principali che si celano dietro la volontà di riportare in auge una saga, facendo riaffiorare, nella memoria dei videogiocatori, un'idea rimasta sopita per troppo tempo.

Tra il grigio e il nero

Iniziamo il nostro discorso prendendo in esame l'esempio di Syndicate, al contempo uno dei casi più banali e più complessi nell'era recente del gaming. Il discreto shooter in prima persona di Starbreeze Studios ha avuto la colpa di presentarsi sulla scena con lo stesso nome dell'intramontabile capolavoro del 1993, uno sparatutto tattico dalla visuale isometrica: il totale cambio di prospettiva ed i pochi collegamenti con la saga principale hanno indotto gran parte dell'utenza ad etichettare il reboot del 2012 come un'appropriazione indebita del franchise, al solo scopo di facile lucro. Eppure quella di Starbreeze non raffigurava una banale "operazione nostalgia" con la quale il team sperava di risalire la china dell'industria, ma il reale obiettivo di ristabilire le fondamenta ludiche e narrative della serie. L'effetto ottenuto, però, si è rivelato diametralmente opposto rispetto alle buone intenzioni, che sono state seppellite sotto una coltre di ambizioni inarrivabili. Vien da chiedersi, allora, quale sia stato il vero errore di Starbreeze, se l'idea iniziale o il risultato finale.
Forse la risposta si situa nel mezzo tra i due estremi, nell'insicurezza di una software house che ha lottato strenuamente per realizzare un difficilissimo reboot pur con la consapevolezza di star giocando una partita persa in partenza. È per questo che reputiamo alquanto "ambiguo" il caso di Syndicate, in equilibrio tra un ingenuo errore di valutazione, la cieca fede nelle proprie capacità, ed il giudizio spietato di un pubblico che non perdona.
Al di fuori di questa "zona grigia" si ergono poi quei prodotti i cui fini spassionatamente commerciali non lasciano adito a dubbi di sorta: vale la pena, su tutti, citare The Legend of Spyro (e sequel annessi), che sfrutta malamente il nome del draghetto Insomniac (il sottoscritto lo pronuncia tuttora "Spiro") per accalappiare, senza il minimo sforzo inventivo, un pubblico giovanissimo attraverso all'appeal di una magica iconografia, le cui basi erano già state erette durante l'epoca PlayStation 1.

L'elenco potrebbe di certo proseguire, ma preferiamo soffermarci in breve su un gioco che, inizialmente, potrebbe dar l'impressione di annaspare nella medesima "grey zone" di Syndicate e che invece, a nostro avviso, oltrepassa leggermente la linea di demarcazione tra il buon senso e l'indiscriminato utilizzo di un marchio blasonato. Ci riferiamo a DmC, "nuovo inizio" in salsa pop delle gesta di Dante: senza mettere in alcun modo in discussione le notevoli qualità dell'action game di Ninja Theory, reputiamo comunque inopportuna la scelta di aver battezzato col nome di Devil May Cry un'opera che, con un po' di coraggio in più, avrebbe potuto camminare soltanto sulle proprie gambe. Al contrario, Ninja Theory ha "reinterpretato" l'immaginario della serie, accaparrandosi le ire dei fan di vecchia data, ed infrangendo, almeno in parte, la fascinosa epica oscura dei capitoli canonici: in questo modo DmC è divenuto "solo" uno degli episodi (e tra i più bistrattati) del franchise di casa Capcom, laddove, in virtù del suo efficace combat system, avrebbe potuto rappresentare l'incipit di un'avventura interamente inedita.

Un atto d'amore?

La pratica del "rebooting" si fonda non soltanto su una logica materialista e becera, che succhia la linfa dei grandi classici per inseguirne il successo economico, ma anche su un'ideologia più "romantica" che - sebbene non prescinda dalle esigenze d'incasso - si configura come una prova d'amore nei confronti delle proprie fonti d'ispirazione. È questa una forma di "produttività" che affonda le radici nella creatività più genuina, la cui passione ci permette, alle volte, di perdonare eventuali falle nel processo di sviluppo.

Shadow of the Beast incarna alla perfezione quanto sostenuto: il remake dell'omonimo action adventure per Amiga non brilla in nessun aspetto della produzione, eppure, nonostante gli evidenti limiti di quest'opera indipendente, da ogni pixel traspare una profondissimo affetto nei confronti del materiale originale. Matt Birch, creative director del piccolo studio Heavy Spectrum, è probabilmente uno dei più grandi esperti del titolo Psygnosis datato 1989, tanto da infarcire il suo Shadow of the Beast con una serie innumerevole di rimandi, citazioni ed omaggi: un prodotto nato col preciso intento di trasformarsi in un tributo digitale (non del tutto riuscito) che avrebbe dovuto condurre di nuovo sotto le luci dello spotlight un "nome" dimenticato molto presto. È in simili circostanze che l'atto del "ricreare" un gioco di culto non viene indicato come un blando tentativo di sopperire alla mancanza di idee innovative, quanto piuttosto come esternazione di un'affezione imperitura. La stessa filosofia, ma con budget (e talento) completamente differente, è perseguita da Bethesda per quanto riguarda i reboot di Wolfenstein e DOOM. Dopo una serie di capitoli che si allontanavano in parte dal mood primordiale delle serie suddette, con virate orrorifiche piacevoli ma non entusiasmanti, i due brand hanno quindi ritrovato di recente la loro atavica, feroce, vibrante e catartica meraviglia: era necessario allora incominciare dal principio, ripartire da zero per "purificarne" le atmosfere ed il gameplay, e per riscoprire la stessa violenta carica delle origini. Si tratta forse di due tra i migliori esempi di "riavvii" videoludici oggigiorno in commercio, sviluppati con la rara capacità di estrapolare e modernizzare la vera essenza delle opere originali.

Inception

Se ti dico: non pensare agli elefanti. A cosa pensi?
In talune occasioni, è il nome di un autore a dare nuovo lustro a quello di una proprietà intellettuale. Con tutto il rispetto per i pur competenti Starbreeze Studios, il loro curriculum associato al valore storico di Syndicate non lasciava certo presagire la conquista di chissà quali traguardi: e questo è uno dei motivi per cui il suddetto fps non è stato accolto con fervore da una community sempre più esigente. E invece quanti di noi, piuttosto che gridare al sacrilegio, hanno acceso la fiamma della curiosità quando è stato annunciato Castlevania: Lords of Shadow?

Alla guida del progetto vi erano, infatti, i ragazzi di MercurySteam, supervisionati nientemeno che dal geniale Hideo Kojima. La personalità del grande autore nipponico ha innestato in noi una convinzione, un'idea: nelle mani di questo Re Mida del videogioco, il nuovo Castlevania avrebbe potuto tenere alto il vessillo della serie. Ed in effetti Lords of Shadow si è dimostrato un prodotto di livello sopraffino, atteso sia dalla fanbase della saga tradizionale, sia dagli estimatori del buon Hideo, con la ferrea certezza che, se il game director ha deciso di associare la sua figura alla promozione del prodotto, ciò implica necessariamente il raggiungimento di un determinato standard qualitativo. Prima di propinarci il reboot di Castlevania, allora, Konami ci ha venduto un concetto, una speranza. Lords of Shadow, anche al netto di qualche piccola manchevolezza, aveva tutte le carte in regola per ridare dignità all'altisonante nome cui si aggrappa: un'opportunità gettata alle ortiche col secondo episodio, dalla cui realizzazione, guarda caso, la Kojima Production ha prontamente preso le distanze.
Ancor più sottile è stata la mossa giocata da Square-Enix con il suo NieR: Automata. Come saprete non si tratta di un Remake, e neppure di una "ripartenza" integrale, ma è comunque un prodotto che si intreccia in maniera molto forte con l'eredità di una grande saga. Anche in questo caso parte della curiosità dei fan è stuzzicata dai nomi tirati in ballo: le redini di questo action-rpg sono strette nell'affidabilissima presa di Platinum Games, la cui eco riverbera con vigore nella mente di qualunque amante del tecnicismo, della raffinatezza e della solidità del gameplay.

Centellinando ogni informazione, dosando con accuratezza ogni rivelazione, Square ha stimolato sin dal profondo l'interesse degli utenti: stando a quanto intravisto nei pochi, estasianti video mostrati fino ad ora, NieR: Automata promette difatti virtuosismi eccezionali, con la maestria che solo i Platinum Games sono in grado di inscenare. Grazie ad una simile strategia ed al talento dei team (che dopo i due Bayonetta si è meritato tutta la nostra fiducia), forse la serie Nier potrà quindi tornare violentemente alla ribalta. Automata, del resto, è uno spin-off ambientato nello stesso mondo dell'omonimo gioco di ruolo del 2010, a sua volta nato da una costola della saga Drakengard: in che modo la trama di questo nuovo capitolo si collegherà ai predecessori, al momento non ci è dato saperlo. Nier è uno di quei titoli che godono di una nomea rispettabile, ma non di una divulgazione famigerata: in molti, presumibilmente, si avvicineranno pertanto all'opera di Taro Yoko anche solo al fine di comprendere al meglio il background di Automata. E perché, a questo punto, non recuperare anche la lunga, intrigante storia di Drakengard? Automata non è un reboot propriamente definibile tale, non è un sequel, non è un remake: è un tassello facente parte di un universo più esteso, che varrebbe la pena esplorare nel dettaglio per non giungere impreparati all'incontro con l'ultimo gioiello firmato Platinum Games. Square-Enix ha quindi "giocato" con il pensiero del pubblico, capovolgendo e sovvertendo l'"effetto nostalgia": si parte dal presente per rinverdire il passato.
L'innesto è compiuto.