Microtransazioni: Sul Piede di Guerra

Le microtransazioni con denaro reale stanno prendendo sempre più piede nei giochi Tripla A: analizziamo attentamente questo fenomeno.

Microtransazioni: Sul Piede di Guerra
Articolo a cura di

Una delle questioni più discusse del momento riguarda l'introduzione, in diversi titoli di spicco della line-up autunnale, di microtransazioni e loot box che possono essere acquistate con soldi reali.
Il problema evidenziato da molti utenti è che in diversi casi questi acquisti non si limitano a ricompensare i giocatori con oggetti puramente estetici (come succede ad esempio in Overwatch), bensì con bonus che hanno un rilievo importante nell'economia o nel bilanciamento di gioco.
Nell'occhio del ciclone sono finiti in particolare quattro prodotti: il recentissimo Shadow of War, il settimo capitolo di Forza Motorsport, l'ultima iterazione annuale di NBA 2K, e l'imminente Star Wars Battlefront II, ampiamente criticato nonostante non sia ancora ufficialmente arrivato sul mercato, a causa del modello economico intravisto nella beta (e quindi, idealmente, ancora provvisorio).
Prima di entrare nel merito delle singole produzioni, bisogna ammettere che la tendenza ad avvicinarsi ad un modello di business finora quasi sempre legato al mercato mobile è, senza ombra di dubbio, ravvisabile. Cerchiamo quindi di capire quali sono le ragioni di questa presa di posizione da parte dei publisher, e quanto è legittima l'indignazione dei giocatori, ma anche quali dovrebbero essere le reazioni della stampa di fronte a quello che possiamo ormai identificare come un fenomeno in corso.

Perché le microtransazioni?

Analizzare in maniera approfondita le strategie, i tempi e i costi di sviluppo dei titoli Tripla A è un compito francamente titanico, che va ben oltre le finalità di questo articolo. Ci limiteremo quindi a dire che, da qualche anno a questa parte, i costi di sviluppo di un blockbuster videoludico sono drasticamente lievitati. Molto spesso, anche a fronte di vendite importanti, quantificate in diverse centinaia di migliaia di unità, non è facile che un titolo arrivi al "break even", ovvero al quantitativo di copie necessario a pareggiare i costi di sviluppo.
Quando Hajime Tabata fu interrogato sul suo Final Fantasy XV, ad esempio, stimò in circa dieci milioni il numero di copie necessarie a rientrare delle spese. Per quanto improvvisato fosse quel calcolo, sappiate che un risultato del genere è ancora fuori portata (e non di poco) per la quindicesima fantasia finale.
Il problema, a dirla tutta, è evidente ai publisher già da diverso tempo, e non mancano esempi di politiche commerciali pensate per arginarlo. Adesso siamo generalmente abituati ai season pass, ma il processo che ha portato ad accettare la loro esistenza è stato lungo e molto travagliato. In alcuni casi, per altro, le feroci reazioni dei giocatori erano più che giustificate: ricordate i tempi cupi dei contenuti brutalmente tagliati dal gioco principale e spacciati come supporto post-lancio?

È importante in ogni caso capire che la scelta di adottare strategie del genere, tra season pass e microtransazioni, non nasce semplicemente dalla voglia di massimizzare i ricavi, bensì dalla necessità di ammortizzare in maniera più efficace i costi di sviluppo.
Soprattutto di questi tempi, postulare che le aziende vogliano in qualche modo "fregare" il consumatore, aumentando i già lauti ricavi ottenuti dalla vendita del software, sembra essere una delle prime reazioni di molti. In verità, di tanto in tanto, basterebbe ricordarsi che la nostra percezione di "successo" non sempre corrisponde ad un trionfo commerciale, soprattutto in tempi in cui il prezzo del software, tra offerte e sconti, tende ad essere molto volatile.

Sia ben chiara una cosa: non stiamo in alcun modo sostenendo che, in nome di questa situazione, si debba sospendere il giudizio. Interrogarsi sulla legittimità delle politiche commerciali di un'azienda, decidere di criticarle aspramente nel caso in cui siano poco rispettose del consumatore, è un sacrosanto diritto del pubblico e un dovere della stampa. È importante però che queste critiche non vengano mosse a priori e senza riscontri.
È bene anche ribadire che il compito di trovare un equilibrio, e un modello di sviluppo sostenibile, non è certo del consumatore, ma del publisher. Ci sono strategie virtuose che possono essere messe in atto, come ad esempio quella che Bethesda e Naughty Dog hanno usato per La Morte dell'Esterno e L'Eredità Perduta: due espansioni autonome dichiaratamente costruite a partire dal materiale ludico e creativo di Uncharted 4 e Dishonored 2, e che proprio per questo motivo sono costate meno (al publisher ed al pubblico), in qualche maniera ammortizzando i costi di produzione dei due capitoli principali.

Ci sono anche produzioni che si trasformano in "piattaforme", come ad esempio Rainbow 6 Siege, il cui supporto continuo viene pagato grazie ai season pass stagionali.
Ma siamo tutti d'accordo che un mercato fatto solo di espansioni, mezzi-sequel e prodotti always online a sviluppo continuo non sarebbe un bel mercato. Cerchiamo quindi di incanalare positivamente i nostri sospetti, sforzandoci di capire quando certe scelte commerciali diventano lesive, e quando invece restano generalmente sopportabili perché, sostanzialmente, innocue e ignorabili, e dedicate solo ad una fetta ben specifica del pubblico.

Valutare caso per caso

Sono rimasto molto colpito dal chiasso che si è generato attorno alle microtransazioni presenti in Shadow of War, lo stesso che poi ha riportato all'attenzione del pubblico le analoghe politiche di NBA, Forza, Battlefront.
Continuo, per mio conto, a trovare generalmente ingiustificata una reazione di questa portata, per diversi ordini di motivi. Avendo giocato per una cinquantina di ore al titolo di Monolith, sono abbastanza convinto che si tratti un prodotto molto completo e, dal punto di vista dei contenuti, più che ricco. Ho portato a termine l'avventura principale in circa trenta ore, e poi mi sono dedicato alle attività secondarie ed alla lunga Guerra delle Ombre: un contenuto dichiaratamente endgame, al termine del quale si sblocca un brevissimo filmato riassuntivo che in molti considerano "la vera conclusione delle vicende". Per mio modo di vedere la storia di Talion e Celebrimbor era già chiusa al termine dell'avventura principale, ma accetto che i completisti possano vederla diversamente.

Quello che mi stranisce è che qualcuno abbia interpretato la necessità di dedicare diverse decine di ore alla Guerra delle Ombre come una precisa scelta di design per "forzare i giocatori a ricorrere alle microtransazioni". Sia chiaro: acquistando le lootbox casuali è effettivamente possibile ridurre il tempo necessario a vedere il filmato segreto, ma pensare che si tratti di una strategia voluta e malevola continua a sembrarmi abbastanza arbitrario. Basta prendere l'ultimo Batman, ad esempio, per capire che un endgame molto iterativo è sempre stato nelle corde di Warner. E, personalmente, mi sono annoiato molto di più a cercare i 400 trofei dell'enigmista che a sviluppare il mio esercito in Shadow of War. Tanto che, alla fine, con Arkham City ho mollato il colpo e mi sono visto il filmato su YouTube, mentre la mia Guerra delle Ombre la sto ancora portando avanti nei ritagli di tempo (e senza sganciare un soldo).
Sono anche convinto che una parte del pubblico stia usando due pesi e due misure: ipotizziamo, ad esempio, che le microtransazioni non fossero state presenti in L'Ombra della Guerra.

Qualcuno si sarebbe magari lamentato di un endgame troppo votato al grinding, ma l'avrebbe considerato un problema di bilanciamento, di certo non sufficiente a giustificare quel 3.1 che si legge nel campo "user score" di Metacritic.Quello che bisognerebbe chiedersi, insomma, è se sia possibile o meno ignorare le microtransazioni. E, nel primo caso, bisognerebbe capire a che tipo di esperienza si va incontro. Con Shadow of War, chi vi scrive si è trovato di fronte ad un titolo completo, duraturo, con un endgame paragonabile, per struttura e ritmi, a quello di tanti altri open world e RPG: lento ma tutto sommato stimolante. Mi chiedo, quindi: è davvero un problema se qualcuno vuole spendere una decina di euro per facilitarsi la vita?

Una questione di bilanciamento

Le critiche più aspre non sono piovute soltanto su Shadow of War, ma anche su alcuni titoli come Battlefront II (in versione Beta) e Forza Motorsport 7, accusati di essersi trasformati in sfrenati Pay to Win, pronti a sacrificare il bilanciamento dell'esperienza di gioco sull'altare delle microtransazioni.

Il caso di NBA 2K18 si posiziona sostanzialmente a metà, dato che le microtransazioni possono influenzare la progressione della carriera offline e online. D'altro canto i riscontri sono abbastanza altalenanti, con alcuni giocatori che lamentano uno sviluppo troppo lento, e altri che invece apprezzano la possibilità di far crescere il proprio atleta con costanza, stagione dopo stagione, in una modalità che li accompagnerà sostanzialmente fino all'uscita del prossimo capitolo annuale.

Quando si arriva al comparto online, tuttavia, in tutti i casi il problema sembra evidente. Utilizzando le mod di Forza Motorsport 7, recuperate nelle lootbox, si possono guadagnare più crediti, e acquistare così auto più performanti, ampliando il proprio garage ad una velocità maggiore rispetto a quella degli utenti che decidono di non spendere un soldo in più rispetto a quanto sbordato per l'acquisto del gioco.
Stesso discorso con Battlefront II: nelle lootbox si trovano carte con cui sostituire le abilità speciali di ogni classe, e ciascuna di queste carte è caratterizzata da un livello di rarità. Più alto è questo livello, più ingenti sono i bonus passivi e attivi garantiti dalla skill che la carta rappresenta. Nel gioco è possibile potenziare le carte (facendole quindi scattare al livello di rarità successivo) sfruttando le Crafting Part, anch'esse recuperate all'interno dei lootbox.

In entrambi i giochi le casse possono essere acquistate con crediti in-game, ed anzi ci sono specifiche attività giornaliere e obiettivi da completare sulla lunga distanza, che garantiscono l'ottenimento di lootbox ad un ritmo piuttosto costante. Ma è chiaro che sì: pagando si può incrementare questo ritmo, senza limiti, fino ad avere idealmente tutte le auto (nel caso di Forza) o tutte le Star Card (nel caso di Battlefront II) poche ore dopo l'uscita del gioco.
Questo crea, idealmente, un problema di bilanciamento. Nei primi giorni, un utente che avrà pagato avrà un vantaggio evidente rispetto ad un utente che acquisterà solo con crediti in-game.
È importante sottolineare, tuttavia, è che la differenza fra i due giocatori avrà, in buona sostanza, una scadenza. Dal momento che le auto restano nel Garage di Forza Motorsport 7 per sempre, e le Carte di Battlefront non vengono consumate, si arriverà prima o poi ad un punto di equilibrio, in cui i due giocatori (pagante e non) avranno gli stessi strumenti.

Nonostante quello che si dica, le microtransazioni garantiscono un vantaggio legato alle tempistiche di accesso all'equipaggiamento, e non un vantaggio assoluto. Nel mio modo di vedere le cose, questo sistema non è minimamente paragonabile a quello che si trova nei titoli Mobile, in cui gli acquisti con soldi reali permettono di acquistare oggetti consumabili.

Certo, resta un sistema non proprio elegante, e soprattutto bisogna valutare quale sia il divario temporale fra le due situazioni: se un utente non pagante dovesse impiegare diversi mesi per ottenere tutte le Starcard, ad esempio, sarebbe una situazione insostenibile. Diversamente, se Battlefront II ci chiedesse di impegnarci per due o tre settimane, non lo troverei un sistema di progressione troppo diverso rispetto a quello di tanti altri sparatutto multiplayer.
Per inciso, nell'esperienza del giocatore medio una certa disparità nelle prime settimane di vita di uno shooter è sempre riscontrabile: perché tanti di noi non hanno certo il tempo, le energie e la voglia degli utenti più giovani, che sui server di gioco passano un numero spropositato di ore.
L'importante è che, sulla lunga distanza, queste disparità vengano appianate.

Cosa deve fare la critica?

Ribadisco una volta di più che, come non trovo giusto criticare a priori la presenza delle microtransazioni, non è neppure giusto difenderla per partito preso. Non posso sapere se l'esperienza di Battlefront II sarà tediosa e frustrante per colpa delle lootbox, ma per contro mi sembra che Forza Motorsport 7 non sia affatto rovinato dalla presenza di un marketplace interno.
Mi sembra di vedere, anche in questo caso, delle reazioni spropositate, compresa quella di chi vorrebbe sostenere che la presenza delle lootbox sia paragonabile al gioco d'azzardo.
Mi permetto di citare qualche nome, per far capire quanto esagerata sia questa reazione. Hearthstone è un titolo fortemente incentrato sulla competizione, con un circuito agonistico che garantisce per altro l'accesso a campionati con ricchi premi. Per essere davvero competitivi l'acquisto di (molte) bustine è incentivato e necessario. Ed è pur vero che si tratta di un titolo gratuito, ma i discorsi e le condanne sul bilanciamento dovrebbero essere indipendenti dal prezzo d'acquisto. Oppure, finché un gioco è gratis, siamo disposti ad accettare il pay-to-win?

Un altro nome che mi viene in mente è FIFA, che con il suo FUT permette di acquistare bustine traboccanti di giocatori rari e meno rari. In FUT c'è persino una modalità (Draft) a cui si accede pagando un gettone: così che sia possibile, idealmente, pagare ancora e ancora, partita dopo partita, senza mai arrivare ad un punto (a differenza di quanto succede negli altri prodotti summenzionati). C'è persino un trofeo che si guadagna giocando questa modalità, e il cui ottenimento viene di fatto reso più semplice se si mette mano alla carta di credito.

FUT esiste dal 2009, e a nessuno è mai venuto in mente di associare FIFA al gioco d'azzardo.
Quello che penso, in ultima analisi, è che buona parte delle reazioni del pubblico sia dovuta al fatto che le microtransazioni stiano tentando di "invadere" territori nuovi, da cui erano rimaste sostanzialmente distanti. Come quando l'avanzata dei "barbari" - delle popolazioni "aliene" - spaventò l'imperatore della Cina, anche i giocatori stanno innalzando una Grande Muraglia: un sistema di difesa preventivo, contro cui si infrange ogni possibilità di dialogo.

Alcune preoccupazioni sono comprensibili, ma finché non ci troveremo davanti tonnellate di consumabili, paywall e giochi irrimediabilmente rotti, potremmo cercare di affrontare questa situazione in maniera più matura, evitando di paragonare i lootbox ai meccanismi di monetizzazione che si trovano su mobile.
Dal canto nostro, capiamo che sia indispensabile informare il pubblico sul funzionamento delle microtransazioni, sulla loro influenza, sulle differenze che determinano nell'esperienza di gioco. Se in qualche caso non l'abbiamo fatto è in buona fede, perché le abbiamo considerate sostanzialmente opzionali, esclusivo appannaggio dei giocatori più frettolosi.
Crediamo anche che sia importante una comunicazione chiara e limpida: i publisher dovrebbero chiaramente informare i consumatori della presenza di microtransazioni. Magari chiedere che questi titoli vengano classificati come giochi d'azzardo è eccessivo, così come è futile rivolgersi al PEGI, che è un ente con ben altre funzioni e finalità. Vedremmo di buon occhio, invece, un'indicazione molto esplicita sulla confezione, anche solo per informare i genitori che attraverso quel gioco è possibile fare acquisti online.

A chi dice che è importante farsi sentire, soprattutto in questo momento storico, rispondiamo insomma che è altrettanto importante scegliere con cura le proprie battaglie, onde evitare di passare per una fanbase arbitrariamente riottosa.
Se la tendenza a sfruttare politiche economiche di questo genere continuerà, siamo pronti insomma ad aggiornare il canone delle nostre analisi, a dedicare spazio anche all'esame di sistemi visti con sospetto dal pubblico. Per cercare di svolgere, in fin dei conti, la funzione della critica: quella di capire, nel maremagno delle opere d'ingegno e dei prodotti d'intrattenimento, cosa funziona, e cosa no.