Speciale Qualcosa sta cambiando

Di Giappone, di crisi e di rivoluzioni. La convergenza delle piattaforme e la (presunta) morte dei Tripla A. Come cambierà il nostro modo di giocare nell'era in cui tutto è connesso?

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C'è una notizia che nelle ultime settimane è passata inosservata e che forse rappresenta al meglio il profondo cambiamento che l'industria dei videogame giapponese sta attraversando. Non è la dipartita di Kojima da Konami, sulla quale comunque aspettiamo ancora un commento ufficiale, né tantomeno la svolta decisa verso l'industria mobile che il presidente della casa di Metal Gear ha recentemente annunciato. Non è nemmeno l'addio di Sega al mercato console, la cui intenzione di concentrarsi quasi unicamente su smartphone e compagnia non è stata poi così sorprendente. La notizia che mi ha più colpito riguarda Nintendo. Il colosso di Kyoto infatti ha siglato un accordo con la Universal per la realizzazione di una serie di attrazioni che avranno per protagonisti i vari personaggi della grande N, da Super Mario a Bowser, nei grandi parchi a tema che la Universal possiede in giro per il mondo.
Non è certo una novità: sono anni, decenni, che più volte si è sparsa la voce che Nintendo avrebbe avuto il suo parco a tema. Del resto, la mossa ha perfettamente senso: la Nintendo ha creato nel corso degli anni un universo fantastico fatto di personaggi che hanno saputo conquistare diverse generazioni, che sono diventate icone e che ben si prestano a un parco giochi. Nintendo è la Walt Disney dei videogame. Pensate a un Mario Kart dal vivo o a una casa degli orrori di Luigi. Funziona, no? Il punto però è che fino ad oggi Nintendo non aveva mai realmente preso in considerazione questa ipotesi semplicemente perché non ne aveva bisogno: faceva già abbastanza soldi con videogame e console tradizionali. La storia recente però racconta una Nintendo diversa e in difficoltà: dopo più di tre anni di conti in rosso, solo nell'ultimo periodo la casa di Super Mario è tornata in attivo.

Colpa delle difficoltà del Wii U, certamente, che nonostante alcune ottime uscite continua a vendere molto poco, ma sarebbe sciocco pensare che il problema sia solo in una console poco fortunata nelle vendite. La realtà è che il mercato sta profondamente cambiando, in Giappone e in tutto il mondo. Nel Sol Levante nel 2013 il mercato dei videogame ha generato vendite per 10,8 miliardi di dollari (qui la fonte). Di questi, 5,4 arrivavano da giochi per smartphone: circa il 50% dei videogiochi giocati in Giappone erano su Android o iOS. Nel 2014, il settore per smartphone è salito a circa 7 miliardi di dollari, mentre quello delle console tradizionali ha subito un ulteriore tracollo di circa il 20% (dati Famitsu), toccando il punto più basso degli ultimi 24 anni. È naturale per Nintendo cercare nuove fonti di guadagno e non deve stupire se anche la casa di Super Mario ha annunciato che realizzerà giochi per piattaforme mobile. Non solo, proprio in questi giorni in Giappone si è sparso un rumor che vede Project NX basata su sistema operativo Android. La nuova console Nintendo utilizzerebbe il sistema operativo di Google, con alcuni che addirittura si sono spinti a sostenere che si tratti non di una console, ma di un tablet o addirittura uno smartphone. E se avessero ragione? Sul serio il futuro dei videogame è sempre più sullo schermo di uno smartphone e sempre meno su quello di un televisore?

Ma quale crisi

Spesso si legge che il Giappone è in crisi, che non è più capace di trainare il mercato come faceva qualche anno fa. La verità è diversa e molto più complessa. C'è un gioco che negli ultimi tempi sta facendo impazzire i giocatori nipponici. Si chiama Neko Atsume e consiste nell'abbellire il più possibile il proprio appartamento, compreso il giardino, per convincere i gatti a venire a passare il tempo con noi. Poi si possono fare delle foto e condividerle sui social. Ecco, in Giappone ci stanno giocando tutti. Il punto è proprio questo: il Giappone non è in crisi, il mercato dei videogame anzi cresce e va a gonfie vele. Ma sempre meno persone giocano a Resident Evil e Metal Gear. E anche se in cima alla classifica dei titoli più attesi dai lettori di Famitsu c'è Final Fantasy XV, è facile immaginare che il nuovo kolossal targato Square non riuscirà a vendere come fecero i suoi predecessori una decina di anni fa.

Non sono carinissimi?

Tokyo e dintorni sono sempre stati l'avanguardia del divertimento elettronico e per anni hanno influenzato e plasmato il mercato globale. Certo, poi sono arrivati gli Stati Uniti che continuano a essere il mercato principale, ma il Giappone era sempre lì, in prima fila, a decidere che noi avevamo tantissima voglia di giocare a Super Mario 64 o Final Fantasy VII. I tripla A, i colossi, le grandi opere: chiamateli come volete, ma buona parte di quelli che giocavamo ogni anno venivano da quelle parti. Oggi è diverso. Di fronte a un cambiamento di gusti così radicale, le compagnie storiche si sono trovate in difficoltà. Delle grandi software house sono rimaste giusto Sony (che comunque sviluppa la stragrande maggioranza dei suoi blockbuster all'estero), Nintendo e Square, che è stata capace di rafforzare la sua posizione nel mercato dei videogame con acquisizioni intelligenti (da Deus Ex a Tomb Raider, passando per esperimenti interessanti come Life is Strange) e nel contempo investendo con grande anticipo nel mercato mobile. Sega è in grande difficoltà, Capcom va avanti con Street Fighter e Resident Evil, a Konami non basta il solo Metal Gear per fare i numeri di un tempo e la vicenda Kojima sicuramente avrà forti ripercussioni. Queste compagnie un tempo si reggevano tranquillamente sulle vendite del mercato interno: oggi non è più così. A tutto questo è poi corrisposta una incapacità di tenere i ritmi di sviluppo occidentali. Negli ultimi anni i costi di sviluppo di un videogioco "tripla A" sono saliti a dismisura. Alcuni anni fa, in una chiacchierata durante la Gamescom, il presidente di Ubisoft Yves Guillemot mi disse che se Assassin's Creed avesse venduto 5 o 6 milioni di copie, sarebbe stato un mezzo fallimento. Bisogna poter gestire team di sviluppo con 500 o 600 persone sparse per il mondo per poter realizzare un Assassin's Creed ogni anno. Questo i giapponesi non sono stati in grado di farlo. E così hanno pagato il dazio: sono rimasti indietro. Ma come sempre accade se lasci uno spazio ci sarà qualcun altro pronto a occuparlo. Pensate a Dark Souls e Bloodborne: non solo sono la dimostrazione che i tripla A in Giappone li sanno ancora fare, ma sono titoli che hanno saputo riaffermare un certo modo di fare videogame, che non guardano al mercato cercando di adeguarsi, ma anzi vogliono dettare una loro strada, venire incontro alle richieste dei giocatori, sempre più stanchi di esser presi per la mano e desiderosi di una sfida che sia davvero tale. Insomma, come sempre è sbagliato generalizzare. Certo, a guardare la lineup di Capcom all'E3 viene quasi da piangere a un giocatore di vecchia data come il sottoscritto: remake, collection e l'unico titolo realmente nuovo che è Street Fighter V. Ma poi penso a Dark Souls III, al nuovo Persona, a Xenoblade Chronicles X e non ho dubbi: il Giappone non è affatto in crisi, è semplicemente cambiato.

Qualcosa di nuovo sul fronte occidentale

Questi venti di cambiamento soffiano molto forte anche dalle nostre parti. I videogiochi stanno cambiando, il mercato sta cambiando, il nostro modo di usufruire dell'intrattenimento sta cambiando. Il punto è che, nel mondo del tutto connesso e del cloud, tutto è diventato dinamico, malleabile. Facciamo un esempio. Se oggi vogliamo ascoltare della musica, abbiamo decine di servizi di streaming che ci consentono di ascoltare quello che vogliamo sul dispositivo che vogliamo quando lo vogliamo. Allo stesso modo, se desideriamo leggere un libro o guardare un film, non c'è mai una sola opzione. Il mercato è mobile: non conta più il contenitore, l'unica cosa importante è il contenuto. Chi produce contenuti vuole portare la propria offerta a più persone possibile. Nei videogame invece assistiamo ancora a un mercato principalmente statico, fatto di console fisiche e di esclusive, di ambienti chiusi, di giochi sviluppati per macchine che hanno venduto solo poche decine di milioni di unità. Un modello di business che è sempre più difficile da sostenere, soprattutto quando dall'altra parte hai dispositivi sempre più potenti e diffusi e costi di sviluppo più abbordabili. Non è un caso se negli ultimi anni abbiamo assistito alla caduta di tanti giganti, come THQ o LucasArts.

Il mercato tradizionale ormai si gioca tutto sui tripla A, su quella decina di titoli che ogni anno vogliono convincerci ad aprire il portafogli con prodotti sempre più grandi e complessi. Ma per ogni Grand Theft Auto, per ogni Assassin's Creed o Call of Duty, ci sono decine di studi che hanno chiuso, semplicemente perché i loro tripla A non hanno venduto abbastanza. La crescita del mercato "indie", l'affermarsi di sviluppatori indipendenti che puntano sulle idee e su un metodo di sviluppo molto meno oneroso, non è casuale. Gli indipendenti hanno preso uno spazio che era rimasto vuoto. E su quello stanno costruendo il futuro dell'industria.
Un futuro che non è detto preveda per forza la presenza di una console sotto al vostro televisore, non nella forma attuale almeno. Del resto, ci saranno circa due miliardi di smartphone entro il 2016: gli investimenti in ricerca e sviluppo che vengono fatti nel settore sono semplicemente inarrivabili per chiunque altro. Oggi usiamo principalmente dispositivi mobili non solo per accedere al web (lo storico sorpasso nei confronti dei computer è avvenuto più di un anno fa), ma anche per giocare: una ricerca Nielsen, uno dei principali istituti di ricerca degli Stati Uniti, parla chiaro. In media, passiamo 37 ore al mese a giocare davanti allo schermo di uno smartphone, contro le circa 24 delle console tradizionali come PS4 e Xbox One o del PC. In pochi anni siamo passati dall'iPhone a dispositivi con schermo 2K (e stanno arrivando i 4K), processore a otto core, chip grafici ormai paragonabili per potenza e caratteristiche alle console da casa (il Tegra X1, il nuovo chip di Nvidia per dispositivi mobili, supporta Unreal Engine 4 ed è capace di operazioni a 1 teraflop, un valore molto vicino all'1,3 teraflop dell'Xbox One). E considerando la velocità con cui escono nuovi modelli, è facile immaginare che in un paio di anni, forse tre, gli smartphone avranno capacità grafiche simili o addirittura superiori a quelle di PlayStation 4.

Ma non si tratta solo di smartphone: il Tegra X1 ad esempio entrerà dentro tablet, computer portatili, persino televisori. La potenza del cloud e dei servizi di streaming arriverà, anzi è già arrivata, nei videogame: nulla ci vieta di pensare che un domani quel gioco che ci piace tanto lo potremo giocare via streaming la mattina in metro sullo smartphone, per poi proseguire sulla tv una volta tornati a casa. È davvero difficile indovinare il futuro, soprattutto in un settore come quello della tecnologia che cambia e muta pelle così rapidamente. Ma è certo che la crescita del web e dei servizi cloud avranno, molto presto, un enorme impatto sul nostro modo di godere i videogame.

I Tripla A moriranno?

Si è spesso detto che Candy Crush o Angry Birds hanno "ucciso" i videogame, dimostrando che i soldi veri si fanno con caramelline e uccelli fiondati, non con mondi complessi ed esperienze di gioco profonde. Di fronte al successo di questi titoli, e assistendo alla crescente difficoltà di molte compagnie di videogame tradizionali, in molti hanno annunciato la morte e celebrato il funerale dei tripla A. Come se nel futuro dei videogame non possa più esserci spazio per produzioni multimilionarie come Destiny o Call of Duty, GTA V o Fallout 4. Certo, negli ultimi due anni l'industria non ha fatto molto per smentirli: con una sequela infinita di remastered e seguiti dei seguiti, questa nuova generazione ha faticato a dire qualcosa di davvero originale. Poi però sono arrivati titoli come Bloodborne o The Witcher 3, e altri ne arriveranno nei prossimi mesi a dimostrare che, state tranquilli, i tripla A ci saranno sempre. Magari saranno di meno, perché meno compagnie potranno permettersi di svilupparli, ma ci saranno. Il punto che mi interessa è come e dove li giocheremo, se ha senso continuare a seguire un modello di business ancorato a sistemi fisici. L'industria tradizionale è stata molto lenta a capire le potenzialità del web, dei dispositivi mobili. Basti pensare all'E3, la fiera di videogame più importante dove la spazio dedicato al gioco mobile è praticamente nullo. Eppure, negli ultimi anni Ubisoft, Electronic Arts, Activision, tutti i big occidentali (quelli nipponici, come detto, si sono trovati costretti a muoversi prima) hanno portato con successo molte delle loro serie su mobile. C'è chi si è spinto oltre: Activision lancerà il nuovo Guitar Hero in contemporanea su console e smartphone, e si tratterà esattamente dello stesso identico gioco, come già avvenuto con Skylanders.

2K ha portato su tablet alcuni dei suoi titoli più famosi come XCOM o Bioshock, mantenendo intatti i contenuti. In altre parole: pensare che i dispositivi mobili vadano bene solo per i "giochini" è la cosa più stupida e presuntuosa che possiamo fare. Il punto è che si verso una convergenza, verso un avvicinamento tra il mondo delle console e quello degli smartphone. Un futuro in cui potremo giocare a Call of Duty o The Witcher sia su console che su uno smartphone collegato alla tv non è poi così lontano. E quando arriverà questo momento, il mercato per come lo conosciamo oggi cambierà per sempre.

Guru Meditation è l'antro di Everyeye dedicato alla storia dei videogame.
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Guru Meditation Il problema di noi giocatori è che siamo convinti che le cose debbano andare esattamente come vogliamo noi. Non ci piace il cambiamento, e non ci piace accettare il fatto che magari ci sono nuove generazioni che hanno gusti e usi diversi dai nostri. Per noi il Giappone è Konami e Square, è Metal Gear e Final Fantasy: non apprezziamo Puzzle vs Dragon, lo guardiamo con diffidenza, come se fosse un nemico. Eppure è un gioco giapponese, che dal 2012, anno della sua prima uscita su smartphone e simili, ha guadagnato soldi a palate conquistando i cuori di milioni di giocatori. Allo stesso modo guardiamo a fenomeni come Angry Birds come se fossero intrusi, lontani dai nostri gusti. Giochi sì, ma i veri videogame sono un’altra cosa. Questo tipo di ragionamento è sbagliato. Il New York Times scrisse un pezzo alcuni anni fa in cui parlava di Angry Birds come il nuovo Super Mario. Gli uccellini di Rovio, secondo il prestigioso quotidiano americano, avrebbero cresciuto nuove generazioni di giocatori esattamente come l’idraulico di Nintendo fece negli anni ’80. Sinceramente credo che i due fenomeni non siano paragonabili, ma c’è una verità di fondo: è possibile che un bambino preferisca Angry Birds, che non conosca Super Mario, e non bisogna scandalizzarsi. Anzi, magari sarà proprio l’aver giocato ad Angry Birds che lo avvicinerà ai videogame, che farà di lui un giocatore che un domani solcherà lo spazio in Elide Dangerous II oppure affronterà le sfide terribili di Bloodborne 4. Il mondo cambia, gli eroi passano e fanno il loro tempo. Non dobbiamo piangere troppo se Konami non farà più Metal Gear come vogliamo noi, perché magari quel posto verrà preso da qualcuno altro e avremo un altro Metal Gear. C’è sempre qualcuno bravo che aspetta il suo turno, e noi dobbiamo essere pronti a dargli una possibilità, sempre.