Tekken: L'evoluzione di una saga, dall'infanzia alla maturità

Un breve viaggio nei ricordi alla riscoperta della saga di Tekken, in attesa dell'uscita del settimo capitolo.

Tekken: L'evoluzione di una saga, dall'infanzia alla maturità
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  • Pc
  • PS4
  • Xbox One
  • Nella mia carriera di videogiocatore ne ho prese di sganasciate sul grugno. Ebbene, tra le numerose batoste incassate (con onore!) dai vari picchiaduro in cui mi sono cimentato, nessuna è stata tanto potente quanto il "pugno di ferro" della serie Tekken. Me lo ricordo ancora: ero giovanissimo (bello!) ed inesperto, e mi divertivo con fare innocente ad utilizzare il mitico Eddy Gordo che, grazie alla classica combinazione ignorante dei tasti X/O, mi permetteva di concatenare una sfilza di combo veloci ed imprevedibili. In realtà non sapevo cosa stessi davvero facendo: col giusto tempismo riuscivo comunque a mettere KO buona parte dei miei contendenti, che con Tekken 3 non avevano molta dimestichezza. E nemmeno io, a quanto pare. Me ne resi conto quando, in un triste pomeriggio, un compagno di scuola venne a trovarmi a casa tutto spavaldo per sfidarmi ad un match all'ultima merenda. Scelse Paul come personaggio: fu una sorta di trauma.
    Conosceva a menadito l'intero moveset di Eddy ed in poco tempo ridusse talmente tanto la mia energia che sarebbe bastato un soffio di vento a decretare il game over. Lui, l'amico malevolo e perfido, non contento di avermi bastonato sonoramente, decise di umiliarmi fino in fondo, dandomi il colpo di grazia con la mossa finale di Paul, quel pugno fiammeggiante che ora è divenuto - a ragion veduta - la finisher move che odio di più. Eppure, è stata un'esperienza formativa. Dopo aver barcollato ed essere caduto, mi sono rialzato ed ho ripreso a combattere: con serietà, questa volta. Ho imparato a parare, a schivare, a rispondere agli attacchi: Tekken ha iniziato così ad addestrarmi, poco a poco, alla nobile arte delle mazzate videoludiche. Prima che il dojo di San Katsuhiro Harada (qui il "San" sta per "Santo", e non per l'onorifico giapponese) apra di nuovo le proprie porte con l'arrivo del settimo capitolo, ho provato quindi a ripercorrere a ritroso le tappe del mio lungo allenamento, che mi ha portato -nel tempo - a sentirmi parte integrante della sgangherata famiglia Mishima.

    Infanzia

    A voler essere sinceri, ho iniziato ad approcciare la serie con il terzo episodio. Avrò avuto all'incirca 7-8 anni e, per me che venivo da Rise of The Robots su Sega Mega Drive, fu una sorta di apparizione: fluidissimo, veloce, variegato e graficamente superlativo, Tekken 3 ha fagocitato intere giornate della mia infanzia.

    Ma non solo: divenne anche un'occasione di "raccoglimento" sociale, l'oggetto che mi dava l'opportunità di invitare gli amici per organizzare piccoli tornei da salotto sulla prima PlayStation. Era quasi un appuntamento fisso: incontrarsi per darsele di santa ragione nei VS Mode o nel Team Battle Mode, improvvisarsi pallavolisti con il Tekken Ball, tentare di surclassare (ancora ed ancora) il record del Time Attack o del Survival. Ma più di tutto, a me e al mio gruppetto di sbarbatelli, impensieriva il Tekken Force, questa modalità stile beat'em up a scorrimento orizzontale ammantata da una sorta di leggenda metropolitana (già, all'epoca internet non c'era): si vociferava, infatti, che completandola quattro volte avremmo potuto sbloccare un personaggio segreto!
    Ed eccoci allora tutti concentrati nel tentare di superare l'impresa (che - dirla tutta - non era poi così facile per dei mocciosi di 8 anni), con la speranza di ottenere l'ambito premio. E che premio! Quel pazzoide del dr. Boskonovitch assurdo ed ingestibile, con uno stile di combattimento davvero fuori di testa. Tekken 3 era - e per certi versi è - uno dei migliori picchiaduro mai realizzati: un concentrato di tecnicismo, immediatezza ed equilibrio con pochi paragoni. Completamente travolto dal suo fascino, decisi di recuperare anche i precedenti episodi della saga: l'impatto, non lo nego, fu un po' straniante. I primi due Tekken mi hanno fatto comprendere quanto il terzo fosse davvero molto evoluto rispetto ai suoi predecessori. C'erano, infatti, meno personaggi giocabili, una legnosità dei movimenti parecchio più accentuata ed un comparto grafico decisamente "cubettoso" (sebbene, a metà degli anni 90 fosse comunque oro colato). Tuttavia, nonostante il considerevole passo indietro, qualcosa di magnetico continuava ad attrarmi: vuoi per il piacere di controllare le versioni più "acerbe" dei miei beniamini (Nina Williams e Lei Wulong su tutti), o per una difficoltà maggiormente preminente, Tekken 1 e 2 riuscirono comunque ad irretirmi nelle loro spine per lungo tempo.

    Ed invece, col senno del poi, il motivo era un altro: grazie ai due episodi d'esordio, infatti, avevo compreso come la saga fosse sorretta da una trama inaspettatamente profonda, un vero dramma famigliare degno delle migliori epopee del Sol Levante. E fu così che, in breve, finii per appassionarmi alle vicende della famiglia Mishima, di quel vegliardo malefico di Heihachi e del tenebroso Kazuya, il quale sarebbe diventato, negli anni, il mio combattente preferito. In un certo qual modo, le ore spese in compagnia di Tekken 1 e 2 mi hanno permesso di valorizzare ancor di più tutta la grandiosità del terzo sequel: dal sistema di combattimento fino alla presenza di personaggi che, sulle prime, non apprezzavo fino in fondo (come Ogre) ma di cui, in seguito, ho compreso tutta l'importanza ai fini narrativi. E così anche Jin (che inizialmente canzonavo per la sua perenne friendzone con Xiaoyu) ha cominciato a ritagliarsi un posticino nel mio cuore quale necessario ripiego per l'assenza di Kazuya all'interno del roster, per lo meno fino al cambiamento radicale avvenuto col quarto capitolo...

    Adolescenza

    C'è una breve fase, nella vita di un ragazzo, che si situa esattamente in una posizione intermedia tra l'infanzia e la pubertà: quando non si è più bambini pur senza essere ancora del tutto entrati nell'adolescenza. Ecco: Tekken Tag Tournament - durante il mio percorso di crescita - si posiziona proprio in questo preciso momento di transizione. Non appena la sua scintillante confezione giunse tra le mie callose mani da dodicenne, credevo di trovarmi dinanzi ad un nuovo "Tekken 3" con grafica da PlayStation 2, né più, né meno. Ed in effetti, almeno in parte, le mie aspettative erano state soddisfatte: il combat system appariva lo stesso del precedente, con finanche qualche piccola rifinitura al gameplay (che all'epoca non credo nemmeno di aver notato), con una pulizia tecnica "spacca mascella" ed un incredibile numero di lottatori disponibili. Stranamente, però, la scintilla non scattò nell'immediato.

    La ragione di questo imprinting mancato risiede nell'assenza di quella storyline che tanto avevo amato, che dava un senso alle battaglie che affrontavo con sudore. È una motivazione alquanto sciocca, me ne rendo conto: ma fu proprio la scomparsa di una narrazione "canonica" ad impedirmi di gridare al capolavoro. A ciò si aggiungeva anche il fatto che avvertivo un certo squilibrio negli incontri a causa dell'aggiunta della modalità Tag, grazie alla quale dar vita a scontri "di coppia", così da cambiare personaggio nel bel mezzo della battaglia e ribaltare le sorti di un duello sfavorevole. Si trattava solo dei capricci di un ragazzetto incontentabile, lo ammetto, che non rendevano certo onore ad uno dei migliori esponenti della saga: ciò non toglie che, tra una maledizione e l'altra indirizzata sia al boss finale Unknown (io l'ho sempre saputo che eri tu, Jun!) sia agli amici più forti di me, buona parte del tempo lo trascorrevo sul Tekken Bowl, eccezionale modalità in cui abbattere i birilli utilizzando i personaggi della serie. Incalcolabile, attualmente, il numero di ore che ho impiegato allo scopo di colpire con la palla il dr. Boskonovitch (sì, io adoro il buon Geppetto) nascosto tra il pubblico, nella vana speranza di riuscire a sbloccarlo. Indovinate, invece, quand'è che ho iniziato ad apprezzare il primo Tag Tournament? Esatto: nell'istante stesso in cui ho poggiato i pollici sul quarto episodio, che a mio avviso ancora oggi si gioca - insieme al sesto - la palma come peggior capitolo del franchise. Se si escludono un reparto tecnico notevole e l'inserimento di qualche new entry piuttosto azzeccata (mi riferisco, ovviamente, a Christie Monteiro), il resto era - e parliamoci senza peli sulla lingua - un mezzo disastro. Un sistema di controllo fin troppo flemmatico e una fluidità nei movimenti abbastanza compromessa facevano il paio con l'introduzione delle arene "interattive", nelle quali comparivano frangibili ostacoli ambientali e persino leggeri dislivelli sul terreno di gioco, sufficienti a fornire un lieve (ma ingiusto) vantaggio ai giocatori posizionati nel modo migliore. La voglia (o l'obbligo?) di sperimentare indusse dunque Namco a "modernizzare" il gameplay storico del brand, ma senza bilanciare a dovere le ultime novità con la rodatissima formula cui tutti noi fan eravamo abituati.

    Ne è nato un capitolo sì bistrattato, ma forse alle volte "odiato" più di quanto realmente avrebbe meritato (e qui mi assumo anch'io le mie responsabilità per tutti gli anatemi che rivolsi a San Harada). Senza l'inciampo di Tekken 4, del resto, forse il team non avrebbe imparato dai propri errori "adolescenziali", né avrebbe ritrovato la tipica verve "primordiale" che, tre anni dopo, tornò a mostrarsi nel quinto Iron Fist Tournament. Tekken 5 non era certo Tekken 3, ma ci andava comunque molto vicino: soprattutto agli occhi di un liceale sedicenne come me, il cui unico desiderio era quello di ritornare ai fasti di un tempo. Bastò poco, del resto, per farmi dimenticare tutti i limiti della scorsa incarnazione, ed il merito andava attribuito non solo ad una rinnovata combriccola di scapestrati con cui trascorrevo i pomeriggi, alleviando le frustrazioni delle malriuscite interrogazioni di greco, ma anche ad un gameplay finalmente in grado di riproporre (più o meno) la stessa purezza delle origini. Inediti lottatori che arricchivano sia il roster sia la storyline (benvenuto, Jinpachi Mishima!), un'offerta paurosamente ricca e una vasta gamma di personalizzazioni estetiche hanno saputo a tratti rammentarmi, in modo un po' sbiadito, il divertimento spensierato dei primi capitoli. Tekken 5 non era Tekken 3, è vero.Ma, in fondo, andava bene anche così.

    Maturità (?)

    Non amo molto parlare di Tekken 6. Forse perché il suo ricordo è ancora fresco e vivido nella mia mente. Non che sia mai stato davvero un brutto gioco, chiariamoci: il suo problema, semmai, consisteva nell'essere un "Tekken" piuttosto debole, incapace di raggiungere il livello dei suoi antenati. Venire immediatamente dopo l'ottimo quinto episodio, d'altronde, non ha certo giovato alla sua reputazione. Quando il sesto capitolo giunse nelle sale nostrane avrò avuto circa vent'anni, e mi trovavo già beatamente immerso nelle meraviglie tecniche di PlayStation 3: lo stacco grafico con le versioni old gen non ha esercitato su di me lo stesso incanto delle passate edizioni e i nuovi arrivi del pur vastissimo roster non mi hanno mai fatto gridare al miracolo (personalmente, Leo proprio non mi va giù, ed Azazel non rientra di certo tra i villain più memorabili). Fortuna che almeno è nata Alisa...

    Al di là di un bilanciamento non impeccabile e di un uso del juggling molto più invasivo rispetto agli scorsi capitoli, ciò che di Tekken 6 meno mi convinceva (e convince tuttora) era la sua terrificante modalità Campagna. Questa specie di versione "apocrifa" del Tekken Force (tutt'altro che opzionale, purtroppo) appariva anacronistica, vetusta, grossolana e noiosissima già nel 2009, figuriamoci oggigiorno.
    Se da un lato la modalità aveva il pregio di ampliare la storia della serie, dall'altro per conoscere i retroscena delle vicende occorreva obbligatoriamente concluderne tutti gli stage: una verta tortura, insomma. Così, mentre la mia maturità come videogiocatore si sviluppava pian piano, quella della serie sembrava invece involversi in maniera inesorabile. Era solo questione di tempo, però, prima che Tekken riprendesse a "crescere" di nuovo.

    Un'altra giovinezza

    Un po' (tanto) rammaricato dalla delusione del sesto capitolo, mi sono avvicinato a Tekken Tag Tournament 2 con molta cautela, per poi capire, già dopo poche partite, che la saga era tornata sul ring in grande stile. C'è da dire che, sul fronte del puro combat system, il secondo "Tag" recupera uno sfruttamento del juggling troppo impetuoso (ereditato dallo sfortunato predecessore) che gli impedisce di entrare in diretta competizione con i più grandi episodi del brand. Ma tutto il resto, il contorno ludico e scenografico, è pura delizia di fanservice. Ed era decisamente ciò che, nel 2012, serviva alla serie per risalire a galla. Tekken Tag Tournament 2 ha il sapore di una riunione con gli amici di vecchia data: ci sono tutti (o quasi) i personaggi che, negli anni, abbiamo imparato ad amare e detestare, un po' cambiati - forse - eppure sempre così riconoscibili.

    Giocare a Tag Tournament 2 è stato come rincontrare quel gruppetto di compagni con cui ammazzavo il tempo dopo la scuola, per una fugace rimpatriata all'insegna di cazzotti ed allegria. Un magnifico "amarcord" videoludico, inestimabile e prezioso, che riporta l'orologio indietro di tanti anni: ed alle volte - mentre li massacravo bellamente - mi è capitato persino di pensare a quello che i miei cari vecchi amici avrebbero potuto fare in futuro, al termine di questa piccola, grande reunion. Ed il "futuro", adesso, è arrivato.
    Sebbene sia ancora troppo presto per trarre conclusioni, da ciò che ho potuto provare con mano fino a questo momento, la serie sembra in procinto di vivere un'altra giovinezza. In soli pochi minuti di gioco, non a caso, Tekken 7 ha saputo trasmettermi un feeling familiare ed innovativo allo stesso tempo, pronto a chiudere le fila di un'epopea decennale con uno Story Mode dalle premesse stupefacenti. Senza abbandonarmi a fervori troppo prematuri, comunque, tra speranze ed aspettative che s'ingigantiscono a dismisura, possiedo una sola ed unica certezza: il 1 giugno, il settimo Iron Fist Tournament non inizierà senza di me.

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