Videogiochi: Critica oggettiva e altre creature fantastiche

È giusto accusare i recensori di "scarsa oggettività"? Nelle recensioni domina solo la soggettività? Discutiamone insieme!

Videogiochi: Critica oggettiva e altre creature fantastiche
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Fa caldo.
Fa così caldo che poco fa, guardando il vibrante orizzonte meridiano, mi sono chiesto come fosse possibile l'apparizione di una stella cadente a metà giornata, col sole a picco sul mio malessere endocrino.
E niente, era un piccione in fiamme.
Dopo una breve corsa semiparabolica, genere lapillo piumato, il volatile autocombusto si è poi schiantato tra i membri della locale tribù felina che, ignorando bellamente il manicaretto croccante, hanno continuato a sorseggiare orzata e a insultare Donnarumma.
I gatti sono gente invidiosa.
Non che io sia migliore, badate, specialmente di questi tempi. Da quando è iniziato questo antipasto del giorno del giudizio, infatti, passo le giornate appostato alla finestra con una fionda caricata a pane vecchio, sparando bordate verso chiunque senta dire cose del tipo "Amore, ricordiamoci la crema solare" oppure "Dai che stasera ci facciamo uno spritzettino sul mare".
Questo costante senso di impastellamento dei lobi cognitivi, tra l'altro, si traduce in una scarsa, scarsissima tolleranza verso una certo tipo di polemica internettiana. Quella basata sulla fuffa acrobatica, per intenderci.
Tipo le guerre trincerali tra i fedelissimi di questa o quella piattaforma, o le accuse di "scarsa oggettività" che, di tanto in tanto, appaiono in coda a qualche recensione spinosa.
Che poi, detto tra noi, ha senso parlare di oggettività in ambito critico o, a dirla tutta, in qualsiasi ambito? È veramente qualcosa cui aspirare?
La risposta dopo le solite farneticazioni pseudo-divulgative. Fate partire la musichetta di Quark.

La supercazzola dell'oggettività

Partiamo da un presupposto: la verità è un concetto relativo. Mentre io sto qui a scolpire cubetti di pane vecchio in uno stato di parziale decomposizione neurologica, alla mia età il buon Protagora, padre della sofistica greca, faceva il bullo con i filosofi ateniesi motteggiando: "L'uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono". Questo, in soldoni, vuol dire che la realtà per come la percepiamo non ha proprio nulla di oggettivo, perché ogni suo aspetto viene filtrato attraverso i sensi prima, e i processi cognitivi poi.
"Eh, ma il sole è caldo, l'acqua è bagnata, la Terra è sferica".
Beh, sì e no. A parte che c'è ancora chi si batte per riportare in auge l'idea che la Terra sia piatta (e non scherzo), ma se c'è una cosa che la storia ci insegna è che perfino le verità scientifiche possono rivelarsi pericolosamente inoggettive. Basti pensare a come, il secolo scorso, un certo impiegato dell'ufficio brevetti di Berna stravolse le fondamenta della fisica newtoniana con la sua teoria della relatività.

Rievocazione anacronistica.
Newton: "La mela cade. Eureka, ho capito la fisica".
Einstein: "Sì, bravo, ora torna a fare i castelli di sabbia sulla Salerno-Reggio Calabria".
La cosa meravigliosa - e terrificante - è che non si può neanche ritenere impossibile il raggiungimento di una verità oggettiva, perché anche il solo affermarlo ci porterebbe a tentare di attribuire a questa idea un'aura di assolutismo decisamente fuori luogo.
"Solo gli imbecilli non hanno dubbi. Ne sei sicuro? Non ho alcun dubbio!", ironizza magistralmente il grande Luciano de Crescenzo in un passaggio del suo saggio intitolato, manco a dirlo, Il Dubbio.
Quindi può pure capitare di aver ragione in senso cosmico, ma tentare di attribuirsi l'oggettività rimane sempre e comunque un'idea malsana, un po' come andare a pesca di squali con una bistecca appesa allo stantuffo. Non a caso il filosofo Karl Popper, uno dei migliori pensatori del secolo scorso, teorizza che, se pure esiste la possibilità di approdare - anche per puro caso - a una verità oggettiva, si tratta di un raggiungimento di cui non si può avere certezza assoluta.
Insomma, come diceva Corrado Guzzanti nei panni del tuttologo settario Quelo: "La risposta è dentro di te epperò è sbagliata".

Il paradosso del fruttarolo

Ora, abbiamo quindi stabilito che, per quanto dotato di un pacco intellettivo gloriosamente rigonfio, non esiste qualcuno realmente in grado di aspirare a un'oggettività "cosciente", e che pertanto nessuno ha mai ragione in senso assoluto. Tutto molto bello, ma questo non significa certo che tutte le opinioni hanno lo stesso valore. Voglio dire, supercazzole filosofiche a parte, a quanti di voi è capitato di sentire la bruciante necessità di rispondere all'amabile adagio "questa è la mia opinione, devi rispettarla" con un'altrettanto amabile baionettata sui dondolanti?
"Seee Timbleweed Park, ma l'hai visto il gameplay di Anthem?".
Tac, tanti saluti ai nipoti. Ed ecco che entra in gioco la cugina meno ritrosa, ma comunque altamente "schienabile", dell'oggettività: l'obiettività.

È grazie a questa amabile signorina che un critico - non necessariamente di professione - riesce ad abbandonare, almeno transitoriamente, preferenze e personalismi "ad minchiam", ed emettere così un giudizio che non faccia venir voglia di sciacquarsi gli occhi col vetriolo.
Cosa che, di questi tempi, è già un bel passo avanti.
Ma anche l'obiettività, per quanto più lascivamente generosa dell'irraggiungibile parente, se lasciata da sola può tradire con sfacciata doppiezza. Una cosa è dire, ad esempio, che il comparto tecnico di Undertale, obiettivamente, lascia molto a desiderare, un'altra è considerarlo come una reale discriminante nel formulare un giudizio di valore. Nel quadro generale dell'opera di Toby Fox, infatti, la grafica è importante come il settebello nella caccia al cinghiale. Per arrivare a non sparare castronerie galattiche, e asservire l'obiettività a logiche di contesto, serve però un altro tris di fattori non mutuabili, ovvero l'esperienza, la conoscenza e la sensibilità personale: tre elementi che si rincorrono nella definizione, quasi evanescente, di cultura.

Un critico videoludico non è un reporter, non può limitarsi a trascrivere fatti, ma deve obbligatoriamente commentarli cercando di argomentare in modo approfondito ogni valutazione positiva e negativa, e di trasmettere a chi legge le emozioni legate all'esperienza descritta. Se ci pensate un attimo parliamo di un modus operandi che, di fatto, rappresenta un'incarnazione del soggettivismo "colto", la base di un senso critico pienamente formato.
Ed è per questo che il giudizio videoludico di un redattore barbuto tipo (che chiameremo Alisandro Brunei) vale più di quello del suo fruttarolo di fiducia (che chiameremo Mimmo del Quadraro), ammesso ovviamente che i due non abbiano la stessa preparazione specifica.
Va da sé che, parlando di cicoria ripassata, il giudizio del secondo rimane comunque insindacabile. Tirando le somme di questo spiegone malmostoso, non solo l'oggettività è irraggiungibile ma, parlando della critica, è anche auspicabile come il caldo incontro tra il vostro mignoletto preferito e lo spigolo più infame del soggiorno. Tra l'altro, se l'oggettività fosse veramente possibile, non esisterebbero "recensioni", al plurale, ma solo un singolo giudizio accompagnato da una serie più o meno lunga di articolate corbellerie.
Sì ma quindi, a parità - più o meno - di background culturale, tutti i giudizi critici hanno lo stesso valore?
Beh... dipende.

Ogni recensore è bello a mamma soja

Dato che un critico non esprime un giudizio solo per sentire - metaforicamente parlando - il suono della propria voce (anche moderatamente sgradevole, nel caso dello scrivente), è chiaro che il valore della sua soggettività è determinato, per forza di cose, dal parere di chi rappresenta l'utente di quel giudizio, ovvero... beh, tu.
Ciao, a proposito. Ma che caldo fa oggi?
Per le menate di cui sopra, è giusto, anzi è sacrosanto che un utente legga più di un parere su ciascun prodotto ludico, specialmente quando si tratta di giudizi molto diversi tra loro. E non perché la ragione stia da una parte piuttosto che da un'altra - non necessariamente, almeno - ma perché si tratta di un passaggio che permette al lettore di capire, magari dopo aver testato con mano il gioco in discussione, quale recensore sia più in sintonia con il suo gusto personale, la sua percezione di valore.

Quando in una recensione troviamo sottolineati in positivo tutti i punti che noi stessi, da giocatori, troviamo apprezzabili, e in negativo quelli che invece ci provocano estemporanee esplosioni tergali, ecco che forse abbiamo individuato una critica cui attribuire, seppur impropriamente, un valore oggettivo.
Della serie "se piace a questo, va a finire che piace anche a me", che è un po' il cugino onesto di "se piace a questo e a me, allora è bello".
Anche perché, in fondo, non è che stiamo parlando di fisica quantistica o di immunologia. Stiamo parlando di videogiochi, un ambito in cui, in definitiva, l'unica opinione veramente importante è quella di chi tiene in mano il pad.