Videogiochi: Quando la grafica racconta una storia

Può lo stile grafico di un gioco raccontare una storia? Per scoprirlo seguiteci in questo tour guidato all'interno dell'Everyeye Museum.

Videogiochi: Quando la grafica racconta una storia
Articolo a cura di

Il dipinto è una delle più brevi forme di racconto.
Immaginate di entrare in una pinacoteca. Dinanzi a voi si stanzia una serie di quadri, un compendio di singole immagini che incorniciano un frammento, un'istantanea: realizzate attraverso le più disparate tecniche pittoriche, tutte quelle tele - a loro modo - narrano una piccola, grande storia. Nei volti, nei paesaggi, negli oggetti e persino nelle figure astratte immortalate dalla mano dell'artista si annida un messaggio, un'intenzione: c'è un motivo, del resto, se l'autore ha deciso di adoperare un determinato stile o inquadrare uno specifico soggetto per dar sfoggio della propria maestria. E non è una scelta dettata dal caso: la forma artistica con cui un quadro si manifesta è sempre legata alle sensazioni e alle emozioni che intende veicolare. Se estendete questo banalissimo concetto anche ai videogiochi - che di loro natura sono un'arte onnicomprensiva, capace quindi di fagocitare persino le suggestioni derivanti dalla pittura -, vi renderete conto di come in parecchi titoli, per lo più indipendenti, un particolare tratto grafico sia interamente funzionale al tipo di racconto che un'opera interattiva prova ad inscenare. In molti casi, insomma, si fa di necessità virtù: dinanzi a vincoli economici di un certo peso, gli sviluppatori ingegnano la loro fervida immaginazione, optando non per un comparto tecnico che faccia del semplice computo poligonale il suo punto di forza, bensì per un supporto estetico in grado di distinguersi grazie alle sue particolarità. In questo modo, alcuni prodotti sfruttano la loro veste "grafica" come strumento tramite cui imbastire una storia, al pari di un vero e proprio dipinto. È allo scopo di dare visibilità a simili produzioni che l'Everyeye Museum apre le porte per una mostra privata ed esclusiva: seguiteci dunque in questo breve tour guidato alla (ri)scoperta dell'arte videoludica.

La sindrome di Stendhal

L'ampia sala che si apre dinanzi a noi è bianca, asettica, priva di qualsivoglia elemento d'arredo, volutamente spoglia ed impersonale per non sottrarre l'attenzione dei visitatori dalla bellezza dei capolavori in esposizione. In questo panorama monocromatico, possiamo notare, ai lati di un lungo corridoio, quattro porte, ognuna delle quali conduce ad una specifica galleria. La prima stanza in cui ci incamminiamo è quella che contiene al suo interno i videogiochi in Pixel Art: è questo uno stile parecchio in voga oggigiorno, specialmente tra gli autori emergenti. In essa riecheggia la malinconia del lontano passato e la purezza dell'artigianalità. Ma come tutte le tecniche inflazionate, anche la pixel art rischia di perdere valore, quando la si utilizza senza il giusto criterio. Per fortuna che, nel marasma di sviluppatori con poco carisma, di tanto in tanto fanno capolino artisti capaci di portare ai massimi estremi simili correnti artistiche. Nel Salone della Pixel Art, allora, focalizziamo il nostro sguardo su due opere di un certo rilievo.

To The Moon

2Dark

La prima che si para dinanzi ai nostri occhi è il magnifico To The Moon, felice parto del maestro Kan Gao. In nessun altro videogioco, il tool RPG Maker è mai stato usato con tale competenza e cognizione di causa: l'artista ha dimostrato piena consapevolezza delle potenzialità di questo mezzo espressivo, permettendo ad anonimi pixel di raggiungere ineguagliabili vette di comunicabilità. A ben pensarci, dunque, è difficile riuscire ad immaginare come un altro stile grafico (magari più realistico o più elaborato) avrebbe potuto trasmettere gli stessi sentimenti di To The Moon. La semplicità ingenua e delicata del contorno visivo, la dolcezza innata di quelle "cubettose" animazioni corporee e facciali, il candore estetico e quasi infantile della rappresentazione: sono tutti fattori che compongono un mosaico di grazia e poesia, capace di annodare le fila di un racconto straziante e potente senza scadere nel pietismo. La commozione e l'empatia, che To The Moon è in grado di inculcare anche nel più insensibile dei giocatori, trovano nella pixel art la culla perfetta nella quale nascere e crescere. È per questo che lo sguardo di River e di Johnny riesce ad impregnarsi di quella tenerezza che incarna il vero leitmotiv portante della narrazione.
Quasi per contrasto, accanto a To The Moon troviamo 2Dark, un'altra opera che sfrutta con sapienza i pregi ed i limiti della pixel art per scopi ben diversi: questo secondo lavoro porta la firma nientemeno che di Frédérick Raynal, un nome che i più esperti di voi conosceranno per il pionieristico Alone in The Dark. Strenuo sostenitore del termine "dark" all'interno delle sue creazioni, il buon Raynal sfrutta l"innocenza" del pixel per far vibrare negli occhi dei giocatori/spettatori una violenza inumana. La sua ultima produzione è un concentrato di barbarie ed indicibili atrocità, che sono raffigurate senza alcuno scrupolo né riserbo: lo schizzo dell'autore, spesso, nel disgustoso marasma di efferatezze messe bellamente "in mostra", non riproduce dettagliatamente ogni elemento scenico, lasciando all'utenza il compito di veleggiare con la fantasia. Ma è un compromesso necessario, sintomatico dell'oculatezza di Raynal: la pixel art, infatti, è qui usata come palliativo, come imprescindibile soluzione artistica utile a generare una divergenza straniante tra la materia trattata ed il modo in cui essa viene rappresentata. Il tratto "deformed" e quasi caricaturale, insomma, diviene indispensabile per mostrare feroci nefandezze a danni di minori senza scadere nell'indecenza o oltrepassare i confini del buon gusto.
Lasciamoci dunque alle spalle le meraviglie della Pixel Art e proseguiamo oltre, avventurandoci in un altro salone, quello della cosiddetta "Estetica Poligonale".

Bound

That Dragon, Cancer

In questa sala sono contenute opere che appartengono ad una corrente artistica videoludica che si rifà addirittura al Suprematismo sovietico: è il caso di Bound, ammaliante espressione visiva che gioca con i poligoni nudi, con la rigidità delle sue geometrie, con l'astrattismo delle sue componenti grafiche, con l'inespressività delle forme. In Bound tutto è schematico ed allo stesso tempo frastagliato: la vuotezza apparente dei solidi in tre dimensioni, che s'incastrano a formare ambienti e personaggi, si tramuta in metafora di un racconto criptico e doloroso. È quello di un nucleo famigliare piegato dalla sofferenza, da un dramma celato sottopelle: ecco che il rigoroso minimalismo dei poligoni senza texture e dei volti senz'anima assume l'aspetto di un segreto, di un malessere che non può (o non riesce) ad essere comunicato. E per comprenderlo non potremo far altro che osservare i suoni, i colori, i movimenti armonici e danzanti della protagonista, che si susseguono in netta antitesi con la freddezza marmorea dell'ambiente. Bound non cerca l'empatia, ma la suggerisce, con grazia e delicatezza "geometrica". Allo stesso modo, il nostro occhio si posa su un prodotto posto nelle immediate vicinanze di Bound, con cui condivide - in parte - lo stesso intento artistico. That Dragon, Cancer è un'esperienza dove la dolcezza della disperazione regna sovrana: la storia vera di un bambino, Joel, consumato lentamente dal cancro, viene narrata con una tecnica assai similare a quella dell'"estetica poligonale". L'impossibilità di porre in immagini il terribile dolore causato dalla perdita di un figlio è aggirato con l'utilizzo di volti senza occhi né bocca. Involucri vuoti, manichini privi di identità, i cui visi spigolosi ed assenti divengono un telo bianco su cui proiettare le nostre, personali emozioni. È questa - ancora una volta - la storia di una tragedia famigliare: sembra quasi che, per gli autori di Bound e di That Dragon, Cancer, la commozione ed il coinvolgimento emotivo non debbano essere palesati, ma solo accennati, lasciati all'intuizione. Perché se riusciamo ad empatizzare persino con blocchi di poligoni, allora vuol dire che il triste messaggio delle due opere suddette è stato davvero pienamente interiorizzato.
Asciughiamoci le lacrime ed avanziamo nella nostra galleria di quadri videoludici. La prossima sala che ci attende è quella dell'"Estetismo Culturale".

Okami

The Mooseman

In essa sono racchiusi quei lavori che, nel tocco artistico, si ispirano palesemente alla pittura tipica di un paese, di una civiltà, di una "cultura". Ovviamente, com'era prevedibile, il primo capolavoro con cui entriamo in contatto è proprio Okami. Manifestazione più pura dell'immaginario del Sol Levante, Okami è, forse più tutti gli altri, un vero dipinto in movimento: a rendere interattiva questa magnifica tela è la tecnica del cel-shading ibridata con quella del suibokuga (o sumi-e: ovvero "pittura a inchiostro ed acqua") di matrice squisitamente orientale. "Un esercizio di stile, più che una soluzione ludo-narrativa" - direte voi. Non esattamente. La storia di Okami pesca a piene mani dal folklore nipponico: s'impregna di misticismo, possiede pennellate di shintoismo, esalta il contatto con la natura, il rifiorire della vita e l'armonia dell'esistenza. Raccontarla con uno stile diverso ne avrebbe inevitabilmente sminuito l'impatto, ne avrebbe soffocato le ambizioni: in ogni tratto di Okami si manifesta dunque una poetica ben precisa, una summa di leggende e miti giapponesi che trova in questa forma estetica la sua più vigorosa esternazione. Per farvi comprendere l'importanza di una simile scelta artistica, provate ad immaginare Okami modellato con l'Unreal Engine: pur mantenendo la medesima art design, il gioco non sarebbe riuscito comunque a conservare intatto tutto il suo spirito. Come corrispettivo di Okami, in questo salone troviamo anche The Mooseman, operetta minuscola e sconosciuta ai più, ma che merita lo stesso un posto di rilievo all'interno della nostra mostra in virtù dell'accurata ricercatezza visiva di cui si fregia. "Digitalizzando" la mitologia delle popolazioni degli Urali, The Mooseman fa leva sulla sua direzione artistica per costruire una storia silenziosa ed ermetica, che avanza attraverso simbolismi ed iconografie, le quali richiamano alla mente veri reperti archeologici del popolo Komi. Sono le immagini, gli ambienti, le manifatture indigene a puntellare la narrativa che, con intento quasi documentaristico, ci introduce ad un mondo nuovo, misterioso, primordiale ed affascinante. Anche per The Mooseman, insomma, vale lo stesso concetto già espresso con Okami: senza quel peculiare stile grafico, il titolo non avrebbe potuto esprimere il suo reale valore.
Ci avviciniamo ora all'ultima galleria da visitare: Il Salone della Sinestesia.

Flower

NaissanceE

In questa stanza sono racchiuse quelle opere che sfruttano un connubio di sonorità e potenza visiva per dar vita ad un amalgama travolgente, che trascina il giocatore in un viaggio fino alla corte dell'impero dei sensi. Il primo, e più potente dei nostri esponenti è Flower, l'avventura onirica ed immaginifica di un fiore, che volteggia leggero in simbiosi col vento. Il suo piroettare flebile e spensierato ci pone a stretto contatto con una natura quieta e docile, che ci incanta e ci delizia con la sua armoniosa bellezza. Ma quello di Flower non è un cammino senza meta né ragion d'esistere: muovendoci, insieme ai petali, lungo i ghirigori delle brezze, il paesaggio si risveglia a nuova vita, si rianimano i colori, rinasce la purezza della naturalità. È così che Flower racconta la sua trama: la traversata dei boccioli rappresenta - in miniatura - la sintesi dell'evoluzione di Madre Terra, del suo sviluppo, della sua decadenza, della sopraffazione da parte dell'uomo, della vittoria dell'artificialità. Flower è totale sinestesia: è trasporto emotivo, visivo, acustico, che acquista un significato per merito esclusivamente della sua cornice artistica. Agli antipodi concettuali rispetto a Flower - ma estremamente simile nelle intenzioni - si situa invece NaissanceE, concretizzazione videoludica dell'ispirazione architettonica di Esher: un'esperienza percettiva e destabilizzante, che ci catapulta nei meandri di un incubo contorto e perverso. Città capovolte, proporzioni irrealistiche, voragini di luce intermittenti, corridoi angusti che s'aggrovigliano su se stessi e spazi aperti sormontati da costruzioni di cubi e parallelepipedi: il tutto edifica una dimensione ansiogena ed inquietante, dove i sensi del giocatore/viaggiatore vengono messi fin troppo a dura prova. Anche NaissanceE, come Flower, è un dipinto sinestetico, ma a panorami rigogliosi sostituisce un design glaciale, minimale, distaccato, in cui le sonorità cupe e martellanti riflettono la crudezza di scelte artistiche estreme e inusuali. Esiste un racconto che si nasconde tra gli spigoli di questo mondo geometrico: ma quando riuscirete a svelarne l'arcano, sarete - paradossalmente - tanto invischiati nella rete delle sue macchinazioni da non poterne più uscire.

Ed eccoci giunti alla fine del nostro breve tour all'Everyeye Museum. Prima di congedarci, permettetemi di accompagnarvi verso l'uscita. Oltrepassiamo quindi l'uscio del Salone della Sinestesia, ed imbocchiamo il lungo corridoio totalmente tinteggiato di bianco che abbiamo potuto ammirare subito dopo l'ingresso principale. Questa volta, però, nell'immensa sala che ci ha accolti all'entrata troviamo una piccola tavolozza su cui è spalmato un po' d'inchiostro nero. Ecco: prendete questi pennelli. Come potete vedere, tutto intorno a voi è completamente vuoto: domina solo una bianchezza quasi accecante, tale da farvi perdere l'orientamento. Se intingete le setole nel colore, potete schizzare d'inchiostro le pareti della stanza, dando un contorno al mondo spoglio che vi circonda, e facendo così pian piano apparire delle forme che prima vi erano precluse. A seconda delle parabole che deciderete di tracciare, compariranno nuove figure, inedite architetture, e persino quadri altrimenti sommersi dall'oblio del bianco. Vi accorgerete così che l'intero museo è in realtà un altro Salone, il quinto, quello della "Creatività", dove a dominare è solo la volontà e l'estro del visitatore. Neanche a dirlo, una simile idea è stata chiaramente ispirata da quell'indimenticabile gioiello di The Unfinished Swan: la stupenda opera degli artisti di Giant Sparrow è un sentito omaggio all'essenza stessa della pittura, al senso di meraviglia, alla libertà. Spetta al giocatore, infatti, ricostruire il profilo di un mondo immerso nel nulla, tracciando da sé il proprio percorso, il proprio sentiero, il proprio "spazio". The Unfinished Swan, in questo virtuale giro turistico, è il punto di partenza e quello di arrivo: una tela candida e pulita, una materia vergine da plasmare, sulla quale poco alla volta iniziare a colorare, seguendo poche e semplici linee guida, e dando infine forma ad un dipinto che è soltanto frutto della nostra "arte".