Recensione 127 Ore

Recensione del film di Danny Boyle che ripropone la tragedia dell'alpinista statunitense Aron Ralston

Recensione 127 Ore
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Nell'ormai lontano 1973, lo sconosciuto Thomas S. Alderman diresse un poco celebrato (anche perché poco riuscito) slasher-movie intitolato The severed arm, che, a quanto pare circolato anche dalle nostre parti come La grande paura, vedeva finire mutilati l'uno dopo l'altro alcuni speleologi, rei di aver tagliato inutilmente il braccio di un loro compagno d'avventura quando, anni addietro, rimasero intrappolati sottoterra.
Ma perché parliamo di questo? Semplice, perché la situazione di partenza della storia ricorda in un certo senso la vera tragedia dello spericolato alpinista statunitense Aron Ralston, ingegnere meccanico classe 1975 che, nel 2003, durante un trekking solitario nello Utah, fu costretto ad amputarsi il braccio destro, rimastogli bloccato sotto un masso per cinque giorni trascorsi nell'inutile tentativo di liberarsi.
Tragedia che ha destato non poco interesse nei media, tanto da far finire Ralston - autore anche del libro-resoconto Between a rock and a hard place - ospite in molti talk show e da essere descritta nell'episodio Desperate days in Blue John Canyon della trasmissione Dateline NBC.
Oltre ad essere per la prima volta trasposta sul grande schermo in 127 ore, diretto dall'inglese Danny Boyle che, fattosi conoscere dal pubblico mondiale tramite Trainspotting (1996) e rivelatosi tra i rilanciatori dell'apparentemente defunto filone degli zombie-movie grazie a 28 giorni dopo (2002), è stato capace perfino di conquistarsi l'ambito premio Oscar con - il sopravvalutato, bisogna ammetterlo - The millionaire (2008).

Il braccio violento della legge naturale

Recentemente visto accanto a Julia Roberts in Mangia, prega, ama (2010), ma interprete anche di alcune commedie con lo zampino di Judd Apatow e conosciuto dai fan dei cinecomics per aver concesso anima e corpo all'Harry Osborn dei tre Spider-man raimiani, è James Franco a vestire i panni dello sfortunato Ralston, il quale, fin dai primissimi minuti di visione, si mostra impegnato in scorribande - in bicicletta e a piedi - sulle desolate distese rocciose americane.
Minuti di visione che Boyle racconta con uno stile non distante da quello che caratterizza i videoclip, tra musica ad alto volume e ricorso a split-screen, mentre permette al protagonista di fare conoscenza con le due giovani escursioniste Kristi e Megan, rispettivamente con i volti della Kate Mara di 14 anni vergine (2007) e della Amber Tamblyn vista in The grudge 2 (2006).
Ma il titolo d'apertura della pellicola arriva soltanto nel momento in cui, senza che le due ragazze se ne accorgano, Aron si ritrova intrappolato con l'arto sotto il masso, dando il via ai disperati tentativi di liberazione; mentre apprendiamo anche che nessuno dei suoi familiari è al corrente dell'avventurosa "gita".

5 giorni dopo

Quindi, è a partire da questa situazione che il regista lascia progressivamente emergere dettagli della vita privata del protagonista (tra l'altro vediamo il padre interpretato dal Treat Williams di C'era una volta in America), impegnato anche a riprendersi con la propria videocamera per registrare dei videomessaggi, mentre provvede a generare un crescendo di follia attraverso il continuo sfruttamento di flashback e allucinazioni che, se a volte possono perfino richiamare alla memoria i deliri fantozziani di Luciano Salce, in altri casi ricordano non poco alcuni elementi di The descent-Discesa nelle tenebre (2005) di Neil Marshall, incentrato su un gruppo di amiche speleologhe alle prese con mostruose creature nelle viscere della terra e prodotto, guarda caso, proprio dallo stesso Christian Colson che figura tra i finanziatori di 127 ore.
E, tenendo in considerazione il fatto che ci troviamo dinanzi ad un'unica, disperata circostanza dilatata per l'intera durata del lungometraggio (siamo sui 94 minuti circa), sorge spontaneo effettuare un paragone con il contemporaneo Buried-Sepolto (2010) di Rodrigo Cortés, il quale, pur senza prendere spunto da fatti realmente accaduti, affronta una vicenda dai toni tutt'altro che fantastici mostrando Ryan Reynolds misteriosamente rinchiuso in una bara tre metri sottoterra.
Una circostanza di sicuro più claustrofobica rispetto a quella che ha per vittima Ralston, il cui isolamento viene accentuato dai totali del Blue John Canyon completamente deserto, ma che vede in ogni caso protagonista un individuo intrappolato e in lotta per la salvezza.
Cortés pone quale principale problema il progressivo scarseggiare dell'aria, mentre nella pellicola di Boyle lo spettatore è spinto a soffrire insieme al protagonista a causa della mancanza dell'acqua e di qualsiasi altra sostanza liquida (a parte l'urina) per abbeverarsi.
Però, mentre Buried-Sepolto viene raccontato attraverso uno stile che ben poco ha a che vedere con la spettacolarità cinematografica, favorendo il tratteggiamento di un look generale volto a conferire un clima veritiero all'insieme, 127 ore, al cui interno Franco ci regala una delle sue prove più convincenti, sceglie inaspettatamente una chiave di narrazione tempestata di momenti musicati che tanto ricordano variopinti spot pubblicitari.
Una scelta che rischia di incarnare le fattezze di un'arma a doppio taglio, in quanto, se da un lato, complice anche all'efficace montaggio di Jon Harris (il già citato The descent-Discesa nelle tenebre nel curriculum), provvede a rendere meno sofferta la visione coinvolgendo lo spettatore e senza annoiarlo mai, tanto da riuscire perfino a divertirlo, dall'altro tende non poco a smorzare l'indispensabile sensazione di realismo richiesta dal soggetto in questione.
Ma anche una scelta che non possiamo fare a meno di approvare una volta giunti alla crudissima parte finale che da sola, rivelandosi altamente disturbante grazie oltretutto a un sonoro studiato a dovere, assicura il rischio di svenimento in sala.

127 Ore Vincitore del premio Oscar con The Millionaire (2008), Danny Boyle torna dietro la macchina da presa per raccontare la tragica esperienza dell’escursionista americano Aron Ralston, costretto nel 2003 ad amputarsi da solo il braccio destro dopo essere rimasto incastrato per cinque giorni sotto un masso durante un trekking solitario nello Utah. Il risultato finale è un’operazione che, senza rinunciare ad accenni d’ironia, fa ampio ricorso ad un look generale che sembra porsi a metà strada tra il videoclip e lo spot pubblicitario. Il tutto, al solo fine di coinvolgere lo spettatore distraendolo in parte dal tono generale di dramma, per poi scaraventarlo nell’altamente cruda ed insostenibile (anche se breve) fase finale di un lungometraggio che, efficacemente sostenuto dal protagonista James Franco ed individuando uno dei suoi migliori momenti nella sequenza del temporale, ricorda inoltre di non comprare mai coltellini da quattro soldi fabbricati in Cina.

6.5

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