Speciale Apes Revolution: l'avvento del cinema '(dis)umano'

Tra i Transfomers di Bay e le scimmie di Matt Reeves, uno sguardo al cinema "senza" attori

Speciale Apes Revolution: l'avvento del cinema '(dis)umano'
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Come di consueto anche quest'estate cinematografica scorre via senza particolari emozioni, afflitta dalla solita desertificazione delle uscite che ormai caratterizza il nostro paese. Tuttavia, nonostante l'evidente astio dei distributori italiani per i mesi più caldi dell'anno, nei giorni di luglio sono stati programmati due film indubbiamente grossi, veri e propri blockbuster attesi per motivi diversi ma altrettanto solidi. Parliamo ovviamente di Transformers 4 - L'era dell'estinzione e di Apes Revolution: Il pianeta delle scimmie, due film che in modi differenti testimoniano con forza la crescente dis-umanità di certo cinema spettacolare hollywoodiano, sempre più propenso a ibridare macchina e corpi, pixel e ripresa, verso un superamento della visione antropocentrica del mezzo. Mentre il filone supereroistico riscopre il corpo in piena azione fisica grazie a nuove iniezioni di digitale, i robot di Michael Bay e le scimmie parlanti di Matt Reeves ci riportano invece sulla strada inaugurata dai primi coraggiosi esperimenti computerizzati degli anni Ottanta, dal mondo virtuale di Tron al cavaliere fantasma di Piramide di paura, primo esempio di personaggio tridimensionale e fotorealistico realizzato in CGI (non a caso da un novello John Lasseter per la Industral Light & Magic). 

resurrezione digitale

Dovessimo cercare un eloquente punto di partenza per la nostra storia, la scelta tuttavia non potrebbe che ricadere su un'opera dei pieni anni Novanta, Il corvo di Alex Proyas, e sulla tragica vicenda che lo ha consegnato alla storia del cinema. Brandon Lee, il figlio della leggenda e già grande protagonista del film, muore nel corso delle riprese, ucciso sul set dallo sparo di una pistola malamente caricata a salve. Nonostante mancassero solo poche scene, con la morte del protagonista chiudere il film appariva impossibile. Tuttavia  la produzione decise risolvere il problema ricorrendo ad un mix di stuntmen e tecniche digitali, per ricreare a tutti gli effetti l'attore grazie alla computer grafica. Un corpo umano ormai scomparso viene così sostituito per la prima volta da una sua ricostruzione digitale, che ibridata all'azione delle controfigure permette di riportare in vita il fantasma di Brandon e così concludere il film. Tutto questo accadeva nel 1994, un anno dopo il Jurassic Park di Spielberg e un anno prima di Toy Story, rispettivamente la ricreazione della vita estinta attraverso il digitale e il primo lungometraggio della storia realizzato interamente in computer grafica. Del resto è con il cinema degli anni Novanta che si sancisce definitivamente l'importanza della creazione digitale nel cinema, un nuovo futuro dell'immagine (e della sua fruizione da parte del pubblico) che trova la sua affermazione definitiva con il primo Matrix, che nel 1999 rilancia il nuovo millennio all'insegna della realtà artificiale, della perfetta ricreazione sensibile di ciò che potrebbe essere e sembra reale ma di fatto non lo è (la gustosa bistecca al sangue assaporata da Cypher). 

negli abissi

Procedendo a ritroso troviamo come detto negli anni Ottanta i primi film che coraggiosamente decisero di affidarsi alla computer grafica non solo per generare spazi e mondi altri, ma anche per ricreare (e infine sostituire) il corpo umano. Oltre ai citati Tron e Piramide di paura, pietre miliari della nostra storia, si pensi in particolare ad un film di fine decennio e vera e propria cerniera per l'utilizzo espressivo delle creazioni in CGI. Parliamo di The Abyss, lo splendido film del 1989 in cui James Cameron iniziò a trasportare la disumanizzazione del terminator dai trucchi plastici e meccanici alle selvagge lande del digitale, andando a creare il celebre tentacolo acquatico con l'intento di rappresentare una creatura aliena senziente. Il cinema di Cameron del resto è la vera spina dorsale di questa evoluzione, per il modo in cui da sempre guarda al cinema come al veicolo di sintesi tra lo spirito umano e le nuove tecnologie. Per Cameron l'immagine è il terreno d'elezione in cui concretizzare quell'ibridazione solamente immaginata dalla letteratura cyberpunk, all'insegna di una compenetrazione sempre spettacolare ma prima di tutto filosofica. Non sorprende allora che il tentacolo acquatico di The Abyss sia animato da logiche imitative. In una scena l'acqua che lo compone assume infatti la forma del volto di una delle protagoniste, mimandone l'espressività e i movimenti in un tentativo di comunicazione. Su questa strada Cameron proseguirà passando per il T-9 sintetico di Terminator 2 verso la sintesi di Avatar, in cui grazie alla fondamentale tecnica della motion capture il corpo umano svanisce dallo schermo e dall'occhio restando comunque parte integrante del processo di creazione. Tornando allora ai nostri due film di partenza, possiamo vedere come i due franchise dei Transformers e del reboot de Il pianeta delle scimmie incarnino i due principali aspetti della dis-umanizzazione hollywoodiana: da una parte Bay ridefinisce gli spazi, le geometrie e le loro distruzioni all'insegna del movimento digitale (e degli smembramenti fisici che solo la sua natura finzionale permette), dall'altra il film di Reeves conferma la capacità del suo predecessore di farsi perfetta metafora della conquista del digitale (scimmiesco) sull'analogico mondo umano.

tutto è movimento

Non conoscessimo la risaputa antipatia di Michael Bay per la critica cinematografica, potremmo dire che il quarto capitolo di Transformers segni per lui un'ulteriore conquista. L'era dell'estinzione infatti ha rivelato per la prima volta una forte attenzione critica nei confronti del cinema di Bay, che per la prima volta in più sedi internazionali è stato analizzato in termini teorici e concettuali. In molti hanno avanzato parallelismi con il futurismo, sottolineando l'essenziale dinamismo da cui nasce ogni fotogramma girato dal regista californiano. In realtà ancora una volta sembrano non esserci mezze misure: se prima si odiava a prescindere il suo cinema, adesso lo si deve elevare in termini che non gli appartengono. I Transformers di Bay infatti non hanno nulla di veramente teorico, e non perché debbano essere soltanto blockbuster con cui staccare la spina al cervello, ma perché vivono intenzionalmente nel puro presente, non volendo rimandare a nulla che non sia la loro superficie e il suo movimento. Ed è qui che entra in gioco il digitale post-umano, perché per Bay la tecnologia serve a creare tale movimento, a ridefinire gli spazi delle proprie inquadrature generando l'impossibile, in una continua tensione tra il caos della lotta e l'ordine della trasformazione. Pur presentando sempre cast importanti, i film dei Transformers vivono evidentemente di ciò che va oltre le potenzialità umane e dell'attore, si nutrono del movimento puro e della violenza dello scontro permessi unicamente dal digitale. Ed è per questo che forse il miglior film della saga arriverà quando tutti gli attori saranno definitivamente accantonati, a favore di un cinema all'insegna finalmente della pura macchina.

il futuro del cinema?

In tutt'altra direzione si muove la nuova saga de Il pianeta delle scimmie. Se Bay incentra lo spettacolo dell'azione sulla macchina digitale, prima Rupert Wyatt ed ora Matt Reeves sfruttano invece la computer grafica per trasferire ogni profondità psicologica ai loro personaggi scimmieschi, gli unici tratteggiati a tutto tondo da una sceneggiatura che li considera chiaramente come i veri protagonisti. Oltre all'eloquente discorso politico, l'aspetto più affascinante di questa saga è il modo in cui mette in parallelo la scomparsa per certi versi evoluzionistica degli umani a favore delle scimmie con l'importanza crescente dei personaggi digitali, che relegano la loro controparte umana in ruoli secondari e spesso macchiettisti (il personaggio di Gary Oldman ne è un chiaro esempio). Tutta l'attenzione è ormai dedicata a loro, a Cesare e la sua nuova comunità, che in questo senso testimoniano la nascita di un nuovo mondo e un nuovo cinema, pronto a fare a meno della vista del corpo dell'attore. Tuttavia a differenza dei robot di Bay questa conquista si costruisce sull'apparente contraddizione della motion capture, che pur permettendo queste evoluzioni rimane dipendente dal suo supporto, dall'attore stesso. Quella che avviene allora è una sinergia tra corpo e pixel, ben diversa dalle mutazioni del body horror degli anni '80, in cui il corpo umano si fondeva alla macchina a favore di una nuova carne. Siamo lontani da Cronenberg perché qui il discorso riguarda strettamente l'immagine e la sua fruizione da parte dello spettatore, l'attore svanisce non dal set ma dal frame, dall'inquadratura, in quanto la sua fisicità è soltanto un trampolino di lancio per un'elevazione digitale (o una sua sublimazione, come avviene nel caso estremo di Her, in cui a rimanere è soltanto la voce dell'attrice). In questo senso le scimmie della tribù di Cesare, così come i Na'vi di Avatar, ci indicano forse il futuro di un certo tipo di cinema, sempre più consapevole e disinvolto nel nascondere la fisicità umana a favore di una nuova ibridazione. Del resto è lo stesso incontro tra macchina e sinapsi su cui si basa il movimento di Pacific Rim, che come Bay trasferisce ogni spettacolarità agli esoscheletri post-umani. Il segnale più forte di questa nuova tendenza sarà allora il primo Oscar assegnato ad una performance in motion capture, un premio che se c'è un po' di giustizia a questo mondo sarà vinto un giorno da Andy Serkis.

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