Recensione Avatar - Recensione di un utente di EE

La recensione di Avatar ad opera di una nostra lettrice residente a Londra.

Recensione Avatar - Recensione di un utente di EE
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Vi abbiamo appena portato la prima recensione italiana di Avatar.E, come io stesso vi ho promesso nell'introduzione dell'articolo, le sorprese non finiscono qui.
Una nostra lettrice, Beatrice Fazi, italiana, ma residente a Londra, ha visto la pellicola e ha voluto dire la sua. Beatrice, laureata in filosofia, nella nebbiosa capitale inglese sta portando avanti un dottorato di ricerca in estetica interattiva, scrive di new media e filosofia e lavora nel settore della pubblicità virale in ambito cinematografico e non solo. Quindi, sono convinto che troverete estremamente interessante questo suo contributo che, data la natura di intervento spontaneo, ha uno stile differente da quello solito di Movieye, ma, comunque, di assoluta competenza.Vi lascio ora alle parole della nostra affezionata lettrice.Andrea Bedeschi, direttore editoriale Movieye.It

Recensione di Beatrice Fazi.

Attenzione Spoiler! La recensione rivela alcuni dettagli sulla trama!

Confesso che entro nella sala cinematografica con le peggiori aspettative. Un polpettone ‘eco-friendly' dove dei pupazzoni alieni blu dalle movenze feline ("Assomiglia a The Lion King, ma nello spazio", commenta il mio amico inglese di fronte al gigantesco poster) insegnano agli umani ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ecco cosa mi aspetto. Tutti i trailer e le anteprime degli ultimi mesi sembrano non far altro che rafforzare il mio scetticismo riguardo questa presunta ennesima opposizione manichea - neanche si trattasse di un western d'annata - tra il nativo buon selvaggio e il malvagio invasore che viene da lontano. Mi metto comunque in coda, come tutta Londra in questo polare weekend prenatalizio, per vedere il film dell'anno. E' ora di far ‘parlare' la pellicola stessa perché, si sa, "non si critica un film senza prima averlo visto". Mi calo gli occhialoni 3D sul naso (dimenticatevi le lenti blu e rosse, il glamorous Odeon di Marble Arch distribuisce occhiali che sembrano dei veri e propri Ray-Ban Wayfarer), si spengono le luci e lo spettacolo ha inizio.
Quasi tre ore dopo, gli applausi dall'altrimenti risaputamente composto pubblico britannico vanno a coprire le note dei titoli di chiusura infelicemente cantate da Leona Lewis (Leona come Celine Dion? mi chiedo). Avatar non è solo un gran bel film, ma probabilmente un punto di non ritorno per tutte le produzioni di fantascienza a venire. Come molti, avevo criticato James Cameron per una multimilionaria impresa ai limiti del più ipertrofico iperrealismo, così dissonante rispetto alla science-fiction degli ultimi anni. Dopo aver visto il film riconosco di aver miscreduto. Il perfezionismo dell'uomo che con meno modestia (o ipocrisia) ad Hollywood salì sul podio dell' Academy Awards autoproclamandosi "il re del mondo" (vedi settantesima cerimonia degli Oscars) continua a ridefinire lo standard di ciò che è visivamente possibile e di quello che il cinema come "fabbrica di sogni" può creare. Lo spettacolo di Avatar - perché, credetemi, di un vero e proprio spettacolo si tratta - è una gioia per gli occhi e, sorprendentemente per il mio stesso cinismo, anche per il cuore e la mente. Tenendo fede agli insegnamenti di ogni Asimov o Ballard, la fantascienza di Avatar fa esattamente quello che deve fare: crea mondi. Non mi riferisco unicamente a Pandora, il pianeta in cui tutta l'azione del film si svolge, ma a quel campo di possibilità che ogni appassionato di sci-fi riconosce come tratto distintivo del genere. Ma andiamo con ordine.

In poche righe (il plot del film è ormai di conoscenza comune, soprattutto per i lettori di questo sito), ci troviamo nel 2154. Una spedizione americana sponsorizzata da un'industria mineraria si trova sul rigoglioso e selvaggio pianeta Pandora per procurarsi il pregiato minerale ‘unobtainium'. Il sito principale di estrazione è stato localizzato al di sotto dello smisurato albero sede spirituale della tribù aborigena Na'vi, i sopracitati umanoidi blu dal naso schiacciato e outfit hippie (dreadlocks, perline e body modifications come se piovesse). Mentre la milizia guidata dal machissimo Colonnello Miles Quaritch (Stephen Lang) ha il compito di piegare ogni resistenza che la popolazione locale può opporre, gli scienziati del Dottor Grace Augustine (Sigourney Weaver) sono incaricati di gestire il lato ufficiale e PR della spedizione: studiare gli abitanti attraverso la creazione e il controllo di corpi (o avatars) dal misto DNA Na'vi e umano, che possono essere guidati remotamente da selezionati individui al riparo dai perigli e dalle ostilità di Pandora. Uno di questi piloti è Jake Sully (Sam Worthington), un ex-marine spericolato ma deluso dalla vita, condannato all'infermità in una sedia a rotelle. Come si può già ben immaginare, Jake da semplice ‘infiltrato' diventerà sempre più parte e protagonista della vita Na'vi, imparando ad amarne gli usi e costumi ma soprattutto la bella Neytiri (Zoe Saldaña). Quando giungerà il momento dello scontro decisivo, Jake si troverà costretto a prendere una parte. E noi già sappiamo ovviamente quale.

Uno degli elementi a mio avviso più singolari dello script è l'assoluta mancanza di riferimenti terrestri. La terra non c'e'. Non viene mai vista, mai esplicitamente nominata. Questa situazione ha il pregio di evitare di far cadere l'intero film nel pedante moralismo di un post-disaster movie. Qualcosa non è andato come sarebbe dovuto andare. Possiamo immaginare un cataclisma, o un' autoindotta apocalisse ecologica, ma queste supposizioni sono lasciate per tutto il film al giudizio dello spettatore, liberando così la sceneggiatura dal peso di una peccato originale e garantendo al pubblico una autonomia di opinione. Indirettamente, la mancanza di ogni riferimento al pianeta terra ci porta ad affezionarci all'unica realtà di cui veniamo a contatto per tutta la durata del film. Pandora è un pianeta incredibilmente ostile, dal basso livello di gravità e dall'atmosfera irrespirabile, popolato da mostri a sei zampe e vegetazione fosforescente. Eppure, se non per i brevi intermezzi all'interno della base spaziale militare umana, è l'unica dimensione con cui il pubblico può confrontarsi. Nel bene e nel male, Pandora diventa ‘casa': sia per la prima metà del film, tra mirabolanti voli in groppa a mefistofeliche creature, salti tra liane e opinabili balli di gruppo, sia per la parte finale, durante la vera e propria guerra preventiva tra civiltà (ogni riferimento a situazioni e fatti attuali non è ovviamente puramente casuale).
Anche quando Avatar abbraccia il suo svolgimento più puramente d'azione, l'elemento maggiormente riuscito è proprio la naturalezza e la spontaneità con cui la storia si sviluppa. Come sopra accennato, il mio scetticismo nei confronti della pellicola riguardava la paura di trovarmi di fronte ad una hollywoodiana versione del cliché del ‘politically correct'. Con mia grande sorpresa però, il film usa a suo favore strumenti narrativi relativamente lineari pur tuttavia in grado di dispiegare (e non predicare) una morale che si fa strada silenziosamente ma non meno efficacemente di quanto invece avrebbe potuto fare una paternale esplicita. Non sorprenderà il lettore dire che non ci troviamo certo di fronte ad un'opera brechtiana. I personaggi di Avatar sono semplici. Troppo accade nell'arco dei 156 minuti per permettere una descrizione psicologica più particolareggiata, che sarebbe stata comunque a mio avviso irrilevante ai fini del film stesso. La storia d'amore tra Jake e la bella nativa non è altro che l'eterno racconto di due persone (ok, due ‘pupazzoni blu') che imparano a conoscersi e a piacersi. La rivolta dei Na'vi contro gli umani invasori nasce dall' esasperazione di vedersi portare via senza una ragione ciò che si ama. Il rispetto che il popolo indigeno nutre verso ogni creatura della foresta non cade mai nella parodia di una californiana setta new age, ma è credibile sia istintivamente (attraverso l'espediente narrativo certo un po' semplicistico ma comunque efficace del legame fisico, o ‘bond', che ogni essere condivide nei confronti dell'altro attraverso la propria coda) che teoricamente (tramite la spiegazione dell'interconnessione di ogni sistema all'altro degna delle più recenti scoperte scientifiche in network theory).
Mi spiego meglio. Pur non essendo un' opera di introspezione - e d'altronde, mai volendo neanche esserlo - Avatar e' rimasto ai miei occhi (ma della sua superiorità visiva nessuno aveva dubbi) e sopratutto alle mie orecchie (è qui l'elemento sorpresa) molto più credibile di quanto al contrario abbia potuto essere un District 9, alla cui visione ero invece andata vogliosa di abbracciare la sua sbandierata raffinatezza da fantascienza, perdonatemi l'aggettivo, ‘intellettuale'. Volendo portare avanti un parallelo tra i due film, entrambe le pellicole affidano la parte del cattivo ad un esasperato ed esasperante G.I. duro a morire. Bisogna riconoscere che anche in Avatar questa figura del "cattivo cattivo in modo assurdo" (rubo e parafraso l'espressione da Zoolander) risulta un po' ridicola. Tuttavia questa rimane più digerible rispetto a quanto accadeva in District 9, dove un simile problema di convivenza e assimilazione tra differenze veniva affrontato con mezzi retorici più sofisticati, ma in fin dei conti risolto nel discutibile escamotage dell'antieroe che deve diventare ‘altro' per finalmente ritrovar se stesso ed affrontare il ‘male' (per l'appunto nelle sembianze delle cospirazioni militaristiche e politiche del cattivo di turno). Il paraplegico protagonista di Avatar è, d'altra parte, obbiettivamente un personaggio stilisticamente abbastanza ingenuo, ma tuttavia sembra ‘funzionare' meglio di tanti altri antieroi degli ultimi tempi. La sceneggiatura non ci fa mai sentire pietà per la sua condizione d'infermo. Ogni com-passione (nel senso latino del termine) è affidata ai quasi sinestetici contrasti tra le ristrettezze della condizione umana di Jake e l'infinito senso ‘panico' dello stesso nel suo corpo da avatar. Anche quando ci troviamo di fronte al nemico - abbozzato frettolosamente, come detto, nella figura del militare tutto d'un pezzo dalla insaziabile fame di conquista e secondariamente nell'imperialista ma combattuto capo d'industria (un irriconoscibile Giovanni Ribisi) - lo spettatore viene portato a parteggiare per i ‘buoni' non per la loro superiorità morale in sé, ma principalmente per la naturalità del sentimento di empatia delle migliori tradizioni drammaturgiche. Simbolica, in questo rispetto, è la conclusione del film: nessuna convivenza e riconciliazione è possibile. Gli umani, alieni per Pandora, vengono rispediti da dove sono venuti e il ‘sistema' del pianeta-foresta ristabilito da un ordine che è più grande di ogni volontà del singolo (umani o Na'vi), un equilibrio olistico che considera non solo gli esseri dotati della coscienza, ma ogni componente di un network che può vivere solo nella relazione tra le parti.
Da questo punto di vista, Avatar è davvero la fantascienza della nuova decade che si apre davanti a noi. Non più ‘cervelli in una vasca' alla cyberpunk, dove i cowboy del cyberspazio si connettevano al loro proprio alter ego virtuale disprezzando ogni legame con la propria condizione corporea (un esempio fra tutti, il visionario Il Tagliaerbe, o la trilogia di Matrix, che del cyberpunk letterario degli anni 80 ricopia spudoratamente gli stilemi). Gli avatar di Cameron danno pochissimo o nessun peso all' impasse tra mente e corpo. Nello spirito della pellicola, il termine ‘avatar' si rimpossessa del suo significato originale un po' frikkettone del ‘prendere un corpo', stando appunto ad indicare nella teleologia induista le incarnazioni del dio Vishnu. Il motto ‘il tutto è più della somma delle sue parti' vale anche per questo processo, ponendo dunque in secondo piano uno dei temi cardine del postumanismo della fantascienza degli ultimi venti anni, ovvero l'eterna lotta tra realtà e simulacro, biologia e virtualità. Che la mente di Jake sia in un corpo surrogato alieno non è minimamente questione rilevante per il film. Quel che conta è la relazione di questo ultimo e il ‘sistema', con buona pace di ogni intelligenza artificiale ‘simbolica' (come viene chiamato in computer science ciò che è stato esemplificato magistralmente in letteratura dai robot di Asimov e nel cinema dai replicanti di Blade Runner). In questo Cameron sembra inaugurare un filone cinematografico sci-fi più in linea con le contemporanee teorie sulle reti neurali e ‘biologia della conoscenza', così stabilendo un ‘precedente' per le storie di film che dobbiamo ancora immaginare.

Avatar In conclusione, i miei pollici sono definitivamente alzati. Con tutte le debite premesse, se si accetta la relativa semplicità del film all’interno di un tecnocratico spettacolo di luci, colori e prospettive, Avatar è un vero e proprio intrattenimento col bonus di saper essere intelligente senza risultare pesante. Se si accetta poi anche la componente emotiva di vedere Sigourney Weaver di nuovo alle prese con alieni dietro la regia di Cameron, lo spettatore non potrà davvero fare a meno di sentirsi ‘dentro’ la storia. E non parlo della visione 3D (della cui necessità ancora non riesco davvero a capire l’efficacia e il fine), ma di spettacolo come spesso il cinema ha davvero bisogno di essere.

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