Speciale Berlinale 65: i premi del "Festival Politico"

I maggiori premiati della giuria del 65° Festival di Berlino, che prendono vita grazie ad una giuria coraggiosa

Speciale Berlinale 65: i premi del 'Festival Politico'
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È un lavoro difficile quello del giurato, soprattutto all’interno di un Festival Internazionale: troppe menti da mettere d’accordo, troppi film da vedere - spesso molto buoni - troppa pressione nei confronti del pubblico. Lo sapeva bene Darren Aronofsky, abituato a fare il presidente fin dal non troppo lontano 2011: il festival era Venezia, il premiato Aleksandr Sokurov per il suo Faust, e la scelta coraggiosa quanto inaspettata. Aronofsky è un presidente che non ha paura delle proprie scelte ma che lascia spazio agli altri, e anche quest’anno a Berlino ha confermato la sua tendenza democratica con il resto dei membri (tra i quali Audrey Tautou, Daniel Brühl e l’italiana Marta de Laurentis). Un palmarès estremamente variegato, che lo stesso presidente di giuria ha giustificato spiegando che “molti film ci hanno emozionato, ed era giusto premiarli”. Un paio di ex aequo quindi e nessun doppio premio ad un film ad esclusione degli attori, un modo per accontentare tutti che rispetta quella democrazia di cui il regista di Requiem for a dream aveva parlato nella conferenza stampa d’apertura.

Dal generale al particolare

Ad apparire come evidente è la scelta di voler puntare i riflettori su un altro tipo di cinema rispetto a quello a cui il pubblico è abituato - sfugge infatti dalle mani dei più grandi un qualsiasi premio: fuori Terrence Malick con il suo Knight of Cups, apprezzato dalla critica internazionale e attesissimo dal grande pubblico. Fuori anche i tedeschi Werner Herzog con il suo Queen of the Desert, Andreas Dresden e As we were dreaming, Peter Greenaway con Eisenstein in Guanajuato. Tutti film (o quasi) che puntano ad un messaggio staccato dal film e più alto, tentando di raccontare un cinema che va oltre il soggetto e punta all’universalità delle idee. A vincere sono invece le storie più particolari, locali, piccoli mondi intensi e circoscritti in lontane parti del mondo: ne sono un esempio l’Ixcanul di Jayro Bustamante, che racconta la storia delle tradizioni legate alle donne di un piccolo villaggio in Guatemala, o Aferim! di Radu Jude, che punta tutto sulla situazione passata della Romania per raccontarne lo spettro di una presente. Ma soprattutto, a confermare questa impressione generale sono i due premi principali.

Premiare con coraggio

Nel premiare il cileno Pablo Larraìn con The club e l’iraniano Jafar Panahi con Taxi la giuria non ha solo dimostrato un ottimo gusto (sono infatti due ottimi film), ma ha soprattutto confermato un indubbio slancio di coraggio che i premi minori avevano già preannunciato. Il coraggio di dare spazio ad una voce fin troppo spesso soffocata, la stessa che Larraìn ha cercato di portare alla luce nel suo film: gli spazi angusti e bui del cileno raccontano di realtà soffocanti e soffocate, urlando al mondo attraverso la pellicola la storia di una chiesa cattolica che nel condannare l’omosessualità e la pedofilia non cerca la giustizia, ma piuttosto l’insabbiamento. La stessa voce che Jafar Panahi si ostina a voler ancora usare, nonostante la sua condanna a sei anni a causa della partecipazione ai movimenti di protesta contro il regime iraniano. Nonostante gli sia preclusa la possibilità di fare film, il regista sembra trovare sempre nuovi linguaggi e nuovi modi di esprimersi, dimostrando che la forza delle idee riesce a superare i confini di un regime. Si dice che Berlino sia un “festival politico”. Se per politico si intende, come detto nella cerimonia di chiusura, un festival che si accorge di cosa succede nel mondo, allora lunga vita alla Berlinale e ai suoi premi coraggiosi ma consapevoli.