Recensione Blancanieves

Dopo un’ardua gestazione vede finalmente la luce il nuovo, sofferto film di Pablo Berger

Recensione Blancanieves
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Dopo un’ardua gestazione, vede finalmente la luce il nuovo, sofferto film di Pablo Berger: Blancanieves. Sofferto perché non è dura far accettare al cinema spagnolo una pellicola muta e in bianco e nero. In parte sdoganato da The Artist di Hazanavicius, che con la sua incetta di premi deve aver aperto la strada a Berger, questo film, in realtà molto diverso dal suo lontano parente francese, è per molti di vista superiore. Co-produzione franco-ispanica, frutto della collaborazione tra case di produzione ed enti diversi, il film di Berger non è usuale ma è di sicura presa sul pubblico. Quando lo hanno proiettato allo spettacolo serale al Multisala Massimo di Torino, l’audience era rapita, stregata come se fossero personaggi dei film: accanto a me si protendeva, dalla fila posteriore, una donna che era tutta ipnotizzata dal film e lo ha seguito per tutto il tempo piegata in avanti, appoggiata al sedile di fronte a lei. Perché si parli poco di questo film al festival, e più di Quarter, Session o Anna Karenina, non è dato sapere. Ciò che so per certo è che questo film è frutto di talento ed è uno spettacolo che intrattiene chiunque, adulti e giovani. Pur essendo in bianco e nero. E muto.

SPECCHIO DEL REAME...

Nell’anno della saturazione di mercato per riadattamenti di Biancaneve al cinema, prima col film di Tarsem Singh (Biancaneve, appunto), poi con quello di Rupert Sanders (più fantasy e drammatico, Biancaneve e il cacciatore), anche Pablo Berger arriva al cinema nel 2012 con un riadattamento dell’ormai inflazionata opera dei fratelli Grimm. E la cosa curiosa è il talento con cui questo regista spagnolo ha riadattato in modo unico e originale un materiale che, in pasto ad Hollywood, non ha creato nulla di fondamentalmente nuovo. Audace scelta di prendere una icona delle novelle per ragazzi, Biancaneve, e parafrasarla in un mondo iberico retrò, un po’ oscuro e un po’ mistico, dove si respirano gli odori di Luis Buῆuel e della Balada triste de trompeta di Alex de la Iglesia. Siamo nell’Andalusia degli anni ’20 (e se non bastavano le sensazioni a ricordarlo, la localizzazione conferma esplicitamente un ammiccamento al Buῆuel degli stessi anni, d’altra parte Un chien andalou è del 1929), il film segue le sventure del famoso torero Antonio Villalta (Daniel Giménez Cacho), il quale, quasi ucciso dal toro Lucifer all’apice della sua carriera, rimane paralizzato e perde la moglie durante il parto. Verrà data alla luce una bambina, ma Antonio è in una fase di acuta depressione e non riesce ad accettare la presenza della figlia. Così la piccola Carmencita (Macarena Garcia) cresce con la nonna Doῆa Concha (Angela Molina), senza notizie del padre, che intanto si è sposato con una donna profittatrice e priva di scrupoli, Encarna (Maribel Verdù), capace di manipolarlo e ridurlo a un fantoccio, mentre lei si impossessa di ogni suo avere e del suo sterminato patrimonio. E’ alla morte della nonna che Carmencita viene portata nella villa del padre e comincerà ad affrontare la matrigna. Ma in questo bianco e nero con un muto squarciato solo da ritmi spagnoli e musiche popolari, l’intreccio si fa cupo e cruento, gotico molto più drammatico dell’originale dei Grimm o di ogni altra trasposizione. La matrigna in questo film è orrenda, subdola e spietata come mai prima d’ora, claustrofobica e angosciante come un personaggio di David Lynch. E’ già un cult la scena del pollo e della cena (tra l’altro, tra questo film e Killer Joe, si potrebbe davvero pensare che sia l’anno delle scene cult sui polli).

IL CINEMA ATTRAVERSO 90 MINUTI DI FILM

Non ci sono vincitori in questo film tragico e decadente, solo il franare delle mondanità umane, di cui la corrida diventa macabra metafora. Incornare mantelline rosse, trucidare tori furiosi, sembrano essere gli ingredienti base di tutti i personaggi dei film. Con l’eccezione di Blancanieves, che mantiene una sua purezza ma che in questo caso non è il personaggio di una fiaba, anzi un’emarginata sofferente desiderata da tutti, una sorta di Marilyn Monroe versione andalusa anni ’20, desiderata ma perseguitata. In tutto il film ciò che spicca maggiormente è il talento di Pablo Berger a inscenare 90 minuti di puro intrattenimento, capaci di rapirti e tenerti in sospeso senza sentire il peso del muto, anzi traendone vantaggio. A parere di chi scrive, questo film ha dimostrato un uso molto più raffinato della tecnica rispetto a The Artist, si è confermato di maggiore impatto, sia riguardo alla realizzazione e alla riuscita, quanto per l’aspetto visivo della messa in quadro e l’uso congeniale del muto in rafforzamento della storia. Ciò che contraddistingue notevolmente Berger è la sua straordinaria abilità iconografica: la messa in quadro della sua macchina da presa segue sempre stilemi coerenti lungo il film, ma a modo loro unici e affascinanti, geometricamente perfetti, capaci di rime visive, contrasti ad effetto e un uso quasi pittorico del cinema. Allora tutto il film appare soprattutto un grande omaggio al cinema come storia: non si limita a recuperare il cinema delle origini col b/n e il muto, lo chiama esplicitamente, lo nomina in scena: con lo zootropio, per esempio, che è addirittura pre-cinema. Con l’occhio del toro, nominato continuamente e inquadrato in primissimo piano, che richiama la Lanterna magica di tipo bull’s eye (occhio di bue). Come già anticipato, poi, i riferimenti a Bunuel sono numerosi ed espliciti, dall’Andalusia della stessa decade dei suoi più celebri film surreali allo spirito decadente e grottesco. Si intravedono anche ombre cinesi e fiere itineranti, altri luoghi tipici del pre-cinema. I nani, lungi dal ricordare Brontolo e compagnia bella, sono simili piuttosto ai Freaks di Tod Browning (1932). Se ne potrebbero trovare altri, ma questo dà un’idea dell’operazione di grande cultura che Berger ha operato sul suo efficace impasto barocco. E ad uscirne è stato un film visivamente spettacolare, elettrizzante e teso, che riesce a coinvolgere più di tanti film parlati.

Blancanieves Hazanavicius e Berger forse ci hanno insegnato qualcosa di molto importante: non avere fretta di alzare i toni della voce, interrompersi e intralciarsi. Ma cibarsi con fare sognatore del mondo, prestare i propri sensi al prossimo, perdersi nel turbinio della vittima. E allora anche le labbra senza voce riusciranno a comunicare molto di più. E in questo film di carne al fuoco ce n’è parecchia: dalla vanità all’egoismo alla superbia, fino all’orrido, al grottesco quasi ripugnante, la fiaba è parafrasata nelle aride sterpaglie di terra spagnola, scevra di ogni angolo di luce, priva di speranza o redenzione. L’uomo sa disfarsi anche della sua creatura più pura - e anzi, forse ci prova anche più gusto. Il capolavoro della 30° edizione.

8.5

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