Recensione Disconnect

Tre storie parallele sulle insidie della rete

Recensione Disconnect
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Chi è Henry Alex Rubin?
A molti, probabilmente, il suo nome non dirà affatto nulla, ma, almeno chi, da sempre, segue l’universo delle immagini in movimento, dovrebbe essere al corrente del fatto che la persona di cui stiamo parlando - il cui curriculum include collaborazioni in qualità di regista della seconda unità in Cop land (1997) e Ragazze interrotte (1999) di James Mangold - ha ottenuto una candidatura al premio Oscar con il documentario Murderball (2005), co-diretto da Dana Adam Shapiro e riguardante le olimpiadi dello sport del titolo, simile al rugby e giocato da atleti disabili.
Lo stesso Henry Alex Rubin che, conosciuto, semplicemente, anche come Alex Rubin, firma il suo primo lungometraggio di finzione con questo Disconnect, presentato fuori concorso presso la sessantanovesima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e scritto dall’Andrew Stern sceneggiatore del televisivo Nurses (2007) e di Return to me (2000) con James Belushi; oltre che impreziosito da un cast pullulante più o meno note star appartenenti al piccolo e grande schermo. A partire dall’Alexander Skarsgård del serial True blood e dalla bella Paula Patton, vista, tra l’altro, negli action-movie Déjà vu-Corsa contro il tempo (2006) e Mission: impossible-Protocollo fantasma (2011).

Intrappolati dalla rete

I due, infatti, vestono i panni di Derek e Cindy, coppia di sposi in crisi che, dopo aver scoperto di essere stati derubati via internet, s’imbarcano nella disperata ricerca del misterioso ladro d’identità.
Mentre facciamo anche conoscenza con il poliziotto vedovo Mike, il quale, con le fattezze del Frank Grillo di Pride and glory (2008), fatica a crescere il difficile figlio Jason alias ColinLa mia vita è uno zooFord che, a sua insaputa, fa il bullo in rete con il compagno di classe Ben Boyd, interpretato dal Jonah Bobo di Crazy, stupid, love (2011) e il cui amorevole padre è incarnato dal Jason Bateman di Come ammazzare il capo... e vivere felici (2011).
Tutti alle prese con inaspettati risvolti, come pure l’ambiziosa reporter televisiva Nina, che, con il volto della Andrea Riseborough di W.E. - Edward e Wallis (2011), convince il teenager Kyle, attrazione di una video chat per adulti cui concede anima e (soprattutto) corpo il Max Thieriot di My soul to take-Il cacciatore di anime (2010), a diventare il protagonista di una sua storia... senza immaginare, però, di mettere a rischio la propria carriera e la vita del ragazzo.

Contatto fisico?

Quindi, con una conversazione in chat già posta durante i titoli di testa, quelli che prendono progressivamente forma altro non sono che circa centodieci minuti di visione atti a esporre un campionario di comuni mortali inaspettatamente (o, forse, sarebbe più giusto dire incoscientemente) travolti dalla pericolosità del web, tanto indispensabile per il mondo del terzo millennio quanto portatore di sciagure.
Tre storie drammatiche che, come la trama stessa lascia intuire, finiscono per trasformarsi di fotogramma in fotogramma in coinvolgenti vicende basate sulle indagini; mentre gli attori svolgono in maniera superba il loro dovere e Rubin costruisce l’agglomerato attraverso lenti ritmi di narrazione tutt’altro che portatori di noia.
E, per quanto riguarda la tipologia d’intreccio e la varietà di personaggi coinvolti, è impossibile non pensare sia al vincitore del premio Oscar Crash-Contatto fisico (2004) di Paul Haggis che ai lavori del messicano Alejandro González Iñárritu - autore di 21 grammi-Il peso dell’anima (2003) e Babel (2006) - man mano che l’insieme prende forma e non manca di essere denunciato neppure l’irrefrenabile desiderio di diventare famosi nella società d’inizio XXI secolo, a quanto pare destinata a vivere affetta dalla discutibilissima febbre da reality.
Un insieme che funziona benissimo e che non lascia affatto delusi, ma che, allo stesso tempo, ci spinge a chiederci come sarebbe stato se Rubin avesse manifestato maggiore coraggio nello spingere sul pedale del pessimismo nella sua parte finale; almeno al fine di rendere ancora più efficace il forte attacco nei confronti della perdita del senso della realtà e del deterioramento dei rapporti umani conseguiti alla diffusione del web.

Disconnect Oggi che siamo così vicini, siamo più distanti che mai. E’ ciò che vuole testimoniare il primo lungometraggio di finzione diretto da Henry Alex Rubin, candidato al premio Oscar per il documentario Murderball (2005), co-diretto da Dana Adam Shapiro. Intrecciate tra loro, tre storie di comuni mortali alle prese con la pericolosità portata da internet, in seguito alla cui esplosione i rapporti umani sembrano essersi trasformati sempre più in veri e propri miraggi. Con un cast in ottima forma, tre storie che appassionano, coinvolgono e non annoiano, sfoggiando il grande pregio di non risultare l’una più riuscita dell’altra; pur approdando a un epilogo che, sebbene non del tutto lieto, avrebbe probabilmente funzionato ancora di più se avesse avuto il coraggio di rimanere del tutto pessimista. In ogni caso, un film da vedere, per riflettere.

6.5

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