Frankenweenie, recensione del ritorno di Tim Burton alla stop motion

Tim Burton fa un salto nel passato e trasforma un vecchio cortometraggio in un lungometraggio in stop motion, la recensione.

Frankenweenie, recensione del ritorno di Tim Burton alla stop motion
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Negli anni Ottanta il cervello di Tim Burton era strapieno di folli idee, personaggi contorti e ambientazioni ricurve affondate nella nebbia spessa: tutte cose che, con il passare degli anni, sono diventate le caratteristiche fondamentali di quello che è divento ufficialmente lo stile burtoniano. E così il ragazzino strambo cresciuto nei sobborghi di Burbank si è trasformato in un simbolo, una corrente di pensiero, un personaggio cult, creatore di mode e tendenze e fonte di ispirazione per una miriade di artisti e disadattati generazionali. Proprio in quegli anni nella mente di Burton, che durante tutta l'infanzia si era fatto coccolare dai più famosi monster movie, si disegnava la storia di un ragazzo e del suo cane, morto a causa di un incidente. Che cosa avrebbe fatto un bambino come lui per salvare il suo unico vero amico? Probabilmente avrebbe tentato gli esperimenti visti nei film, come in Frankenstein. Così è nato Frankenweenie, cortometraggio di poco meno di mezz'ora, in cui Burton racconta la storia di Victor e del suo adorato Sparky e di come questo sia riportato in vita dal ragazzo dopo la sua morte. Il regista fin dall'inizio aveva pensato di sviluppare questa storia in un lungometraggio in stop-motion, ma problemi legati al budget lo costrinsero a restringere i tempi e adattarsi a una più pratica live action. Poco meno di trent'anni dopo Tim Burton è finalmente riuscito a realizzare il suo vecchio progetto, riportando in vita tutti i personaggi di Frankenweenie in un film d'animazione stop-motion omonimo che integra la storia originale con nuovi passaggi e sfumature.
Visti gli esiti dei precedenti due progetti girati, è normale che l'arrivo di Frankenweenie sugli schermi cinematografici sia avvolto da un alone di genuina paura e preoccupazione.

Frankenweenie 2.0

Approfittando delle proiezioni del film che si sono svolte durante il Lucca Movie Comics and Games 2012 e durante la notte di Halloween negli UCI Cinemas di Roma e Milano, siamo andati a dare un'occhiata alla pellicola, non ancora disponibile nella versione definitiva italiana. Ma sapendo quanta curiosità e aspettativa ci sia su questo progetto, abbiamo ritenuto fosse il caso di parlarne lo stesso, in attesa poi, nel momento in cui ci sarà la possibilità di vederlo doppiato in italiano e, soprattutto, in 3D, di commentare a pieno le sue possibilità.
La storia di Frankenweenie ormai è nota. Victor Frankenstein (voce: Charlie Tahan) è un ragazzo solitario, patito di scienza e con pochi amici. L'unico di cui non può davvero fare a meno e che è sempre con se è il suo cane Sparky, con il quale si diverte a girare brevi monster movie, anche in 3D, che proietta poi in salotto davanti agli occhi orgogliosi e divertiti della sua famiglia. Quando un giorno il suo cane viene investito da una macchina, il cervello di Victor si riempie di tutte le nozioni imparate durante le ultime lezioni di scienze del professor Rzykruski (voce: Martin Landau), su come una forte scarica elettrica genera delle reazioni biologiche negli esseri viventi. E se, sfruttando al meglio i temporali tipici della sua città, potesse applicare questo principio anche al suo cane? Basta ricucirlo un po' qui, risistemare qualche pezzo di là e applicare due bulloni che permettano il passaggio dell'elettricità e il gioco è fatto. Un po' ammaccato, ma Sparky è di nuovo al suo fianco. Tutto il paese è però a conoscenza della sua morte, quindi Victor deve tenere nascosto il suo piccolo prodigio scientifico: il diverso, si sa, non sempre viene preso nel modo giusto, che si tratti delle percezioni degli adulti o dei suoi, smaniosi di vincere il concorso di scienza, compagni di scuola.

Ritorno al passato

Impossibile pensare a Burton eliminando completamente dalla mente le reazioni molto tiepide che i suoi ultimi progetti hanno suscitato in pubblico e critica. Alice in Wonderland e Dark Shadows non sono certo progetti di mediocre qualità, ma nulla in confronto a quello che da un regista come lui ci si aspetta. Per questo ci si avvicina a Frankenweenie con un misto di curiosità e scetticismo, dopotutto la storia di Victor e Sparky era già stata realizzata, come trasformarla in un lungometraggio senza alterarla troppo?
I dubbi sulla produzione spariscono però appena il famigliare castello Disney si tinge delle luci e le ombre del bianco e nero e su di lui si abbattono le più classiche tonalità acustiche da film dell'horrore, rimaneggiate con cura dal fidato Danny Elfman. Tim Burton racconta una storia semplice, priva di grandi colpi di scena o virtuosismi diegetici, nel più classico dei modi, lasciando le emozioni a ossigenarsi da sole come ferite all'aria aperta, senza nasconderle dietro appariscenti posticci. Il risultato è un film dal sapore squisitamente antico, come un ricordo del passato a cui siamo ancora terribilmente legati, che rassicura e affascina al contempo. I suoi personaggi, quelli vecchi provenienti dal 1984 e quelli nuovi aggiunti per dare maggiore varietà allo sviluppo narrativo, seguono le linee classiche dello stile burtoniano, godendo di verticalismi innaturali e un aspetto a metà strada tra il cadavere e lo stramboide. Sono i suoi disegni di sempre che prendono vita sullo schermo, grazie alla tecnica che più è congeniale al regista. I piccoli personaggi realizzati per Frankenweenie si ricongiungono con le sue vecchie produzioni e allo stesso tempo si staccano da esse: Tim Burton e il suo team hanno già dimostrato, specie con La Sposa Cadavere, di essere in grado di fare miracoli con la stop-motion, costruendo complicati meccanismi che rendevano i movimenti più articolati ed evanescenti molto naturali. Questa volta il regista fa quasi un passo indietro, assaporando la materialità dei suoi protagonisti, palesemente imperfetti, quasi finti da un punto di vista di resa digitale, che sembrano provenire dalla vecchia casa delle bambole (o un suo corrispondente maschile) con cui tutti da piccoli inventavamo le nostre storie. La luce che si rifrange vivida sulla superficie dei capelli, le modellazioni statiche e vintage dei tessuti degli abiti, i movimenti perfettamente fluidi e sincronizzati, ma sempre un po' pupazzosi: tutto dimostra come Burton abbia regalato a Frankenweenie tutto il suo amore per la stop-motion mostrandola a tutti per quella che è, senza nasconderla dietro la perfezione della realtà. Tutto è volutamente irreale, con richiami grotteschi e ironici, eppure straordinariamente tattile: non serve la stereoscopia per avere l'impressione di poter toccare i personaggi sullo schermo, interagendo con Sparky e la sua palla, nascondendosi dietro le lapidi del cimitero, inserendo la mano nella boccia dell'acqua che contiene il pesce invisibile di cui tutti parlano. Burton gioca con la sospensione di credibilità tipica del processo cinematografico, attivandola e disattivandola a suo piacimento, tenendo così l'attenzione dello spettatore costantemente attiva, sfidandola.

Frankenweenie Ultimamente si può dire che Tim Burton aveva smarrito la strada di casa, vagando per la sua personale Oz. Con Frankenweenie sembra, se non proprio essere tornato alle origini, aver almeno ritrovato la strada di mattoni gialli (saranno anche in bianco e nero, ma siamo sicuri siano gialli!) che potrebbe riportarlo nella giusta direzione. Il film è lugubre, sentimentale, ironico e ricco di continui richiami ai monster movie del passato (e a tratti anche alla propria filmografia) sia nell’iconografia che nei nomi dei protagonisti. Grazie alla colonna sonora di Elfman e a una scelta fotografica dai fasci taglienti, Frankenweenie prende vita davanti agli occhi di uno spettatore trasportato temporaneamente in un mondo parallelo in cui tutto è possibile, irreale ed estremizzato ma anche per questo morbosamente affascinante e squisito.

8

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