Come intuibile sin dalla palese assonanza del titolo al capolavoro di Gustave Flaubert, Gemma Bovery della francese Anne Fontaine (Coco Avant Chanel - L'amore prima del mito, Il mio migliore incubo!, Two mothers) ha come fuoco narrativo proprio quella derivazione flaubertiana cui fa apertamente riferimento. La storia è quella di Martin Joubert (un sempre magistrale Fabrice Luchini) che sette anni prima ha lasciato Parigi per la Normandia con la volontà di riaprire la panetteria paterna e condurre una vita in "equilibrio e tranquillità". Un obiettivo che pare raggiunto, almeno fino a quando non fa ingresso nella sua esistenza la nuova coppia di vicini di casa, Charles e Gemma Bovery, appena trasferitisi da Londra. Restauratore lui, sensuale arredatrice d'interni lei, la coppia aprirà nella vita di Martin quell'inatteso squilibrio che passa attraverso il parallelo della vita della giovane Gemma con il romanzo (adorato da Martin) Madame Bovary. Sarà infatti proprio nella bellezza seducente della ragazza, nella sua capacità di attirare l'attenzione maschile e soprattutto nella sua manifesta inadattabilità alla ‘polverosa' vita di provincia (leggasi noia) a indurre nella mente di Martin un confronto sempre più incalzante tra la vita della sua conturbante vicina e le vicende narrate nel romanzo dello scrittore francese (che scrisse e ambientò Madame Bovary proprio in quella stessa Normandia in cui si muove il film). Sedotto dalla vicina e follemente incuriosito dall'aderenza della vita della donna al suo amato testo letterario, l'uomo sarà dunque spinto a seguire con sempre maggiore interesse le vicende della ragazza, pur di constatare fino a che punto vita e romanzo tenderanno - realmente - a sovrapporsi.
La vita non dev'essere un romanzo impostoci, bensì un romanzo fatto da noi
Film d'apertura del Torino Film Festival 2014 e prossimamente anche nelle nostre sale distribuito da Officine UBU, Gemma Bovery è una commedia leggera e godibile che gioca con la letteratura e con la sua primaria fonte d'ispirazione (Flaubert) per riflettere sulla capacità delle passioni/ossessioni di travisare quando non addirittura modificare la fisonomia della realtà. Costruito tutto sulla oramai consolidata bravura di Fabrice Luchini nel portare in scena personaggi ostili alla vita, ossessivi, misantropi, pieni di tic e nevrosi, l'opera di Anne Fontaine parte subito bene, attraversa un momento di ‘stanca' nella fase centrale ma chiude poi magistralmente con un finale che riscatta l'intera parabola narrativa da quell'idea di mediocrità/vacuità di cui si fa sostanzialmente portavoce. In prossimità dell'epilogo interviene infatti quel guizzo narrativo che permette al film di chiudere in bellezza quello che è il sottile gioco di rimandi tra realtà e letteratura che lo anima, conservando allo stesso tempo la sua precisa identità filmica di matrice letteraria. Adattando per il cinema la graphic novel omonima di Posy Simmonds, Anne Fontaine torna dunque a riflettere, anche attraverso la fisicità provocante della brava Gemma Arterton, su una condizione femminile ancora in qualche modo subordinata alla condizione maschile e destinata inesorabilmente a viverne il riflesso, nell'attesa di un'emancipazione (mentale più che pratica) che sembra ancora oggi un po' troppo lontana. Il volteggiare estatico e malinconico di Gemma attraverso la splendida luce della campagna francese e (soprattutto) tra le false promesse di un mondo maschile per lo più inafferrabile, riconducono il film attraverso quello stesso quadro di desolante disarmonia femminile narrato da Flaubert e qui riletto, con notevole senso del ritmo e un apprezzabile tocco di originalità, dalla regista francese Anne Fontaine.
Rileggendo in chiave ironica e satirica la Madame Bovary di Flaubert, e adattando per il cinema la graphic novel omonima di Posy Simmonds, Anne Fontaine realizza con Gemma Bovery un’opera fortemente legata alla sua matrice letteraria ma che poi se ne distacca trovando una sua identità filmica grazie a un epilogo originale che in qualche modo riscatta l’autorialità dell’opera. Un’opera che in ogni caso non può fare a meno di poggiare sull’oramai notoria bravura di Luchini, sempre perfetto soprattutto nella trasposizione di quei personaggi dalla misantropia congenita (non è di fatti un caso il recente accostamento di Luchini all’opera di Moliere nella commedia Molière in bicicletta) che osservano il mondo con senso di sfida e un sottile, inafferrabile livore.