Spike Jonze (nome d’arte di Adam Spiegel) è uno dei registi più poliedrici ed eclettici del panorama cinematografico contemporaneo. La sua esperienza spazia tra i generi più diversi, dagli spot pubblicitari ai videoclip ai lungometraggi, senza dimenticare il suo lavoro come attore, sceneggiatore e produttore cinematografico. Ma soprattutto Spike Jonze è uno che da sempre ha dimostrato di avere un particolare interesse verso le reazioni umane, le metodologie con le quali l’essere umano reagisce a determinate circostanze, le costanti domande che non possiamo fare a meno di porci ma alle quali non troviamo ancora una risposta. Sono dilemmi semplici ma esistenziali i suoi, che si palesano in modo più o meno esplicito in ogni suo progetto e trovano il culmine in Her, il film che ha presentato al Festival Internazionale del Film di Roma e di cui ci ha parlato con tanto entusiasmo e genuinità.
Una storia d’amore ma anche un film sulle contaminazioni: si vedono i videogames e si vede internet. Che cosa l’ha affascinata in questo tipo di esplorazione? Sai, questo film non l’ho fatto da solo. E con tutta la mia crew abbiamo cercato di fare un film che raccontasse cosa si prova a essere vivi oggi, di cosa si prova nel cercare di creare un legame con gli altri e di come la tecnologia ci può aiutare o ostacolare. Ho provato a scrivere di cose che sto provando a capire, per le quali sono confuso, in termini di come creiamo le relazioni, di come non ci riusciamo o aspiriamo a farlo.
La cosa affascinante del film è che non c’è una posizione tra il fascino della virtualità e il grido d’allarme di tutto ciò. Probabilmente è perché provo sentimenti contraddittori su questo e volevo rappresentarli tutti. In più di natura provo sempre a non giudicare, a essere aperto alle possibilità. Nella vita come nel lavoro. La tecnologia è complicata: ci sono cose positive e negative proprio come in ogni cosa.
È un film sul presente, con un occhio al futuro, ma molto radicato nel passato, in questo bisogno di relazionarsi con qualcuno, di amore, di essere riconosciuti... Non ho mai pensato a questo film come radicato nel passato, ma come una cosa di eternamente presente. Questo bisogno lo proviamo fin da quando abbiamo madri e padri, probabilmente anche gli uomini delle caverne già provavano questi sentimenti. Credo che questo bisogno di legami e intimità sia più complesso oggi, perché le nostre vite si muovono molto velocemente grazie alla tecnologia, che ci permette di avere un afflusso di informazioni enorme, una comunicazione rapida e veloce. Riceviamo tantissime mail e ci si aspetta una reazione, una risposta in tempi rapidissimi. Le aspettative che noi poniamo nei nostri confronti sono elevate e questo rappresenta una sfida per la nostra vita. Siamo duri con noi stessi. Forse lo siamo sempre stati, ma oggi, vista la situazione attuale, lo siamo ancora di più e questo ci impedisce di creare legami.
Cosa è una relazione secondo lei? Non era di tecnologia che volevo parlare quando mi sono messo a scrivere questo film. Volevo parlare di un rapporto, di una relazione. La domanda che mi sono posto è: che cosa è un rapporto? Cosa è l’amore? Come si crea l’intimità e come si impedisce che questa si crei? È una domanda antica, su cosa c’è dentro di noi che crea o impedisce che si venga a creare un rapporto con le altre persone. In realtà che cosa è una relazione non lo so. Ho cercato di capire che cosa c’è dentro di me che mi impedisce di creare una connessione di intimità nei confronti di un’altra persona. Alla base di tutto ciò credo ci sia la volontà di essere vulnerabili: è in questo modo che puoi creare una relazione. Quello che conta è l’essere conosciuto, che sia tramite la tecnologia o a livello interpersonale. Ma è necessario che tu voglia essere conosciuto, che tu sia disposto a toglierti la maschera che tutti indossiamo. Io so di indossare una maschera ogni volta che scrivo una mail, per esempio. Ma cosa sia una relazione, proprio non lo so.
Ma siamo ancora al punto in cui si pensa che più va avanti la tecnologia, più ci sentiamo soli? Penso che la solitudine sia un sentimento senza tempo. Oggi le circostanze sono tali per cui è possibile che si crei la solitudine. Ma non credo sia solo la tecnologia: viviamo in maniera diversa, siamo sempre molto presi, molto impegnati. Tendiamo a vivere in maniera isolata. A volte mi chiedo com’era vivere 200 anni fa, quando si viveva in un piccolo paesino, con le persone anziane, i genitori, i nonni. Magari c’era qualcuno con cui parlare e che viveva nella tua stessa casa... e se era diverso da oggi.
Parliamo del finale del film. È sempre stata quella l’idea finale? Perché sembra quasi che il protagonista sia un po’ deluso verso il rapporto che ha avuto con la tecnologia. Quasi da non augurarsi un’evoluzione del sistema operativo... Pensi che sia deluso quando va sul tetto? Credo che quello che c’è di interessante su questo film è che ogni persona con cui parlo ha una reazione diversa, ma tutti pensano che quella sia la reazione giusta. E credo che tutti abbiano ragione. Non c’è una risposta sbagliata. L’obiettivo che volevo raggiungere è esattamente quello. Ho fatto un film personale nel quale ho cercato di rappresentare le varie contraddizioni che io vivo, che io sento. Cerco di capire il mondo in cui viviamo, le relazioni, me stesso. La mia speranza è che ciascuno abbia una sua propria reazione. È un film personale e la reazione deve essere personale, non importa che sia positiva o negativa.
Theodore a me sembra un uomo come tanti che non riesce a stare al passo con le donne. Dopotutto viene abbandonato costantemente abbandonato. È così che vedi l’uomo moderno? Vedo gli uomini così? Sono tempi complicati: credo che il mondo stia cambiando a una velocità tale... i ruoli tradizionalmente attribuiti ai due sessi sono sconvolti rispetto a quello che erano 50 anni fa. Stiamo cercando di recuperare, di guadagnare strada. Milioni di anni di biologia ci hanno detto una cosa, poi la società ci dice altro. Stiamo cercando in un certo senso di trovare la strada.
Alla fine del film lui sembra essere diventato un uomo migliore rispetto all’inizio... Lo spero! Theodore attraverso tutto ciò in un certo senso è guarito. È un messaggio di speranza anche verso tutti noi.
Lei è mai uscito con qualcuno online? Mmm... forse. Ok, si!
Dopo i videoclip e la pubblicità, ha intenzione di lavorare nel settore dei videogame? Mi piacerebbe. Nel film abbiamo creato due videogiochi. Per il primo avevamo una storia molto complicata. Quello che mi piace dei videogame è che sono una nuova frontiera della narrazione, mi fa pensare al cinema ai suoi albori, quando avevamo appena iniziato a grattare la superficie della narrazione. Secondo me il videogioco ha del potenziale enorme.
Intervista Her: Spike Jonze
Il poliedrico regista di Essere John Malkovich si racconta e ci racconta il suo nuovo film
Spike Jonze (nome d’arte di Adam Spiegel) è uno dei registi più poliedrici ed eclettici del panorama cinematografico contemporaneo. La sua esperienza spazia tra i generi più diversi, dagli spot pubblicitari ai videoclip ai lungometraggi, senza dimenticare il suo lavoro come attore, sceneggiatore e produttore cinematografico. Ma soprattutto Spike Jonze è uno che da sempre ha dimostrato di avere un particolare interesse verso le reazioni umane, le metodologie con le quali l’essere umano reagisce a determinate circostanze, le costanti domande che non possiamo fare a meno di porci ma alle quali non troviamo ancora una risposta. Sono dilemmi semplici ma esistenziali i suoi, che si palesano in modo più o meno esplicito in ogni suo progetto e trovano il culmine in Her, il film che ha presentato al Festival Internazionale del Film di Roma e di cui ci ha parlato con tanto entusiasmo e genuinità.
Una storia d’amore ma anche un film sulle contaminazioni: si vedono i videogames e si vede internet. Che cosa l’ha affascinata in questo tipo di esplorazione?
Sai, questo film non l’ho fatto da solo. E con tutta la mia crew abbiamo cercato di fare un film che raccontasse cosa si prova a essere vivi oggi, di cosa si prova nel cercare di creare un legame con gli altri e di come la tecnologia ci può aiutare o ostacolare. Ho provato a scrivere di cose che sto provando a capire, per le quali sono confuso, in termini di come creiamo le relazioni, di come non ci riusciamo o aspiriamo a farlo.
La cosa affascinante del film è che non c’è una posizione tra il fascino della virtualità e il grido d’allarme di tutto ciò.
Probabilmente è perché provo sentimenti contraddittori su questo e volevo rappresentarli tutti. In più di natura provo sempre a non giudicare, a essere aperto alle possibilità. Nella vita come nel lavoro. La tecnologia è complicata: ci sono cose positive e negative proprio come in ogni cosa.
È un film sul presente, con un occhio al futuro, ma molto radicato nel passato, in questo bisogno di relazionarsi con qualcuno, di amore, di essere riconosciuti...
Non ho mai pensato a questo film come radicato nel passato, ma come una cosa di eternamente presente. Questo bisogno lo proviamo fin da quando abbiamo madri e padri, probabilmente anche gli uomini delle caverne già provavano questi sentimenti. Credo che questo bisogno di legami e intimità sia più complesso oggi, perché le nostre vite si muovono molto velocemente grazie alla tecnologia, che ci permette di avere un afflusso di informazioni enorme, una comunicazione rapida e veloce. Riceviamo tantissime mail e ci si aspetta una reazione, una risposta in tempi rapidissimi. Le aspettative che noi poniamo nei nostri confronti sono elevate e questo rappresenta una sfida per la nostra vita. Siamo duri con noi stessi. Forse lo siamo sempre stati, ma oggi, vista la situazione attuale, lo siamo ancora di più e questo ci impedisce di creare legami.
Cosa è una relazione secondo lei?
Non era di tecnologia che volevo parlare quando mi sono messo a scrivere questo film. Volevo parlare di un rapporto, di una relazione. La domanda che mi sono posto è: che cosa è un rapporto? Cosa è l’amore? Come si crea l’intimità e come si impedisce che questa si crei? È una domanda antica, su cosa c’è dentro di noi che crea o impedisce che si venga a creare un rapporto con le altre persone. In realtà che cosa è una relazione non lo so. Ho cercato di capire che cosa c’è dentro di me che mi impedisce di creare una connessione di intimità nei confronti di un’altra persona. Alla base di tutto ciò credo ci sia la volontà di essere vulnerabili: è in questo modo che puoi creare una relazione. Quello che conta è l’essere conosciuto, che sia tramite la tecnologia o a livello interpersonale. Ma è necessario che tu voglia essere conosciuto, che tu sia disposto a toglierti la maschera che tutti indossiamo. Io so di indossare una maschera ogni volta che scrivo una mail, per esempio. Ma cosa sia una relazione, proprio non lo so.
Ma siamo ancora al punto in cui si pensa che più va avanti la tecnologia, più ci sentiamo soli?
Penso che la solitudine sia un sentimento senza tempo. Oggi le circostanze sono tali per cui è possibile che si crei la solitudine. Ma non credo sia solo la tecnologia: viviamo in maniera diversa, siamo sempre molto presi, molto impegnati. Tendiamo a vivere in maniera isolata. A volte mi chiedo com’era vivere 200 anni fa, quando si viveva in un piccolo paesino, con le persone anziane, i genitori, i nonni. Magari c’era qualcuno con cui parlare e che viveva nella tua stessa casa... e se era diverso da oggi.
Parliamo del finale del film. È sempre stata quella l’idea finale? Perché sembra quasi che il protagonista sia un po’ deluso verso il rapporto che ha avuto con la tecnologia. Quasi da non augurarsi un’evoluzione del sistema operativo...
Pensi che sia deluso quando va sul tetto? Credo che quello che c’è di interessante su questo film è che ogni persona con cui parlo ha una reazione diversa, ma tutti pensano che quella sia la reazione giusta. E credo che tutti abbiano ragione. Non c’è una risposta sbagliata. L’obiettivo che volevo raggiungere è esattamente quello. Ho fatto un film personale nel quale ho cercato di rappresentare le varie contraddizioni che io vivo, che io sento. Cerco di capire il mondo in cui viviamo, le relazioni, me stesso. La mia speranza è che ciascuno abbia una sua propria reazione. È un film personale e la reazione deve essere personale, non importa che sia positiva o negativa.
Theodore a me sembra un uomo come tanti che non riesce a stare al passo con le donne. Dopotutto viene abbandonato costantemente abbandonato. È così che vedi l’uomo moderno?
Vedo gli uomini così? Sono tempi complicati: credo che il mondo stia cambiando a una velocità tale... i ruoli tradizionalmente attribuiti ai due sessi sono sconvolti rispetto a quello che erano 50 anni fa. Stiamo cercando di recuperare, di guadagnare strada. Milioni di anni di biologia ci hanno detto una cosa, poi la società ci dice altro. Stiamo cercando in un certo senso di trovare la strada.
Alla fine del film lui sembra essere diventato un uomo migliore rispetto all’inizio...
Lo spero! Theodore attraverso tutto ciò in un certo senso è guarito. È un messaggio di speranza anche verso tutti noi.
Lei è mai uscito con qualcuno online?
Mmm... forse. Ok, si!
Dopo i videoclip e la pubblicità, ha intenzione di lavorare nel settore dei videogame?
Mi piacerebbe. Nel film abbiamo creato due videogiochi. Per il primo avevamo una storia molto complicata. Quello che mi piace dei videogame è che sono una nuova frontiera della narrazione, mi fa pensare al cinema ai suoi albori, quando avevamo appena iniziato a grattare la superficie della narrazione. Secondo me il videogioco ha del potenziale enorme.
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