Recensione La Bocca del Lupo

Miseria e nobiltà nella poetica Genova di Pietro Marcello

Recensione La Bocca del Lupo
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"Vivevano laggiù, in mezzo a stenti e a privazioni indicibili, poveri e laceri, in preda a crudeli infermità, spesso visitati dalle bestie feroci e dai serpenti, sprovvisti talvolta perfino del pane quotidiano, ma felici nella loro miseria...". Questo passo tratto dall'opera letteraria ottocentesca "La Bocca del Lupo" esprime appieno povertà e poesia rievocate nel film di Pietro Marcello. Il titolo del film si rifà infatti all'omonimo romanzo verista dello scrittore Gaspare Invrea, nom de plume Remigio Zena, che seppe così bene rappresentare il mondo dei poveri e della soggiacente indigenza che Montale disse di lui: "Nessuno capì così bene i poveri, i diseredati, come lo Zena; nessuno li lasciò ragionare con tanta indulgenza, con tanta pietà superiore e nascostamente sorridente." L'idea alla base della pellicola, vincitrice peraltro della 27a edizione del Torino Film Festival, nasce dall'attività che da molti anni la Fondazione San Marcellino, gesuiti di Genova, svolge in favore della comunità genovese di senza tetto, emarginati e indigenti di ogni sorta. L'intento era appunto quello di dedicare l'intero spazio di un'opera filmica a quelle persone che sono in genere costrette a vivere dei soli avanzi della società. Il progetto è stato poi preso in carico dalla struttura produttiva della Indigo Film, da sempre attenta a promuovere il cinema indipendente di qualità, e affidato al trentenne regista casertano Pietro Marcello, già autore dell'apprezzato Il passaggio della linea, che ha dato voce nel suo docu-film a due aspetti preminenti: la volontà di restaurare il ricordo di una Genova in cui il Novecento sembra essersi arenato e l'urgenza di dedicare una sentita riflessione a quelle vite spesso ignorate ma che restano nondimeno il cuore pulsante e l'anima di una città, testimoni viventi del mutevole corso degli eventi. Ma l'opera ha anche un terzo proposito, quello di rendere omaggio ai cineamatori genovesi che hanno saputo, negli anni, riprendere lo scorrere della storia, fermando con l'occhio della camera la loro città in un eterno divenire. Infine la storia di cui si narra, vera e tristemente nota di gente invisibile, destinata a un'esistenza raminga in quel viavai bolso dei carruggi e sospinta d'ogni intorno nella bocca del lupo, è qui raccontata in modo magnificamente inconsueto.


Enzo, Mary e uno scorcio di vita

Dopo tanti anni di imposta lontananza, Enzo (Vincenzo Motta), omone dai grandi baffi e un passato da detenuto, torna silenziosamente a casa dalla sua Mary (Mary Monaco), trans ex tossicodipendente conosciuta ai tempi in cui condividevano ore d'aria e fugaci momenti d'amore. Difficile dopo una vita nata e maturata nel grigiore della miseria e nell'amarezza delle celle, ritrovare la luce e spingersi fino a inseguire un sogno. Difficile ma non impossibile. Non per Enzo e Mary. Entrambi fuggiaschi dal loro passato, galeotto per lui e di dolorosa emancipazione sessuale per lei, troveranno l'uno nel calore dell'altro la forza per guardare al futuro, affrancandosi da un mondo ostile che trita le vite ai margini come carne da macello. Dopo essersi conosciuti, amati e aspettati, giunge dunque per loro il tempo di rendere giustizia a quel lieve desiderio di una piccola casetta che dall'alto guarda verso l'increspato ed eroico mare ligure. E mentre la città è ancora tenacemente aggrappata al suo passato, glorioso e sbiadito di celebri imprese e storiche distruzioni, i due tenaci amanti possono finalmente volgere lo sguardo all'orizzonte.

Tra realismo e poesia

Lavoro molto innovativo e ardito quello di Pietro Marcello che realizza un film dall'animo elegiaco e d'impronta documentaristica, avvalendosi di riprese amatoriali e storiche immagini di repertorio della capitale ligure, mischiate a frammenti di un vero amore tanto osteggiato quanto sorprendentemente sincero. Originali incastri di stile che danno alla narrazione un incedere elegante e poetico, sofferente e lirico, mentre a fare da cantastorie interviene una pungente voce fuori campo, che rievoca toni e tempi di una storia remota eppure così reale. Insomma un documentario sospeso tra dramma e poesia, antico e moderno, in cui lo sguardo del regista è a un tempo partecipe, nell'affresco di una città che sente vicina, e sofferente, per quei ricordi sbiaditi che stentano a venire a galla nelle torbide acque della memoria e per le raminghe esistenze che egli si ripropone di raccontare. Ritagli di vita incollati insieme al fine di restaurare l'antico splendore di una città e nel contempo tratteggiare il disagio esistenziale di gente nata e abbandonata nei lugubri anfratti del mondo, gente intimidita dalla famelica bocca del lupo e dalle fauci della miseria. Le memorie della pregnante storia d'amore si mescolano al ritratto di una Genova livida, nel colore e nell'anima, una città stretta al suo ‘glorioso' Novecento e che ancora non è riuscita a entrare con piglio partecipe nel presente, al quale guarda con occhio distante. Quarto dei Mille, il centro storico, i carruggi di Franco Fortini e De Andrè, l'operoso porto e il ribelle mare, tutti attraversati dai fasti corruschi e dalla distruzione del vecchio secolo, sono i tasselli di un unico puzzle in cui la regia diventa mezzo creativo per trascinare la tacita sofferenza fuori dallo schermo: fotografia in controluce, riverberi giallognoli, giochi di ombre, e lo sguardo insistentemente rivolto al mondo esterno che poi finisce immancabilmente per chiudersi su se stesso, nel calore di una piccola casetta, riscaldata da un focolare, due persone a loro modo felici e i loro allegri cagnolini.

Naufragar m'è dolce in questo mare

Il giudizio è come sospeso per lasciare la parola a istantanee di vita, specchio di paure e dolori remoti, un continuo vibrare di sensazioni e condizioni estreme. Un lavoro di cui non possiamo non apprezzare l'elevato intento morale e la raffinata temperie poetica senza ravvisare però, in alcuni frangenti, un leggero scollamento tra le riprese storiche, di forte impatto visivo ma non sempre funzionali, e l'efficace realismo del girato attuale che ci trascina con grande pathos nella vita di Enzo e Mary e poi di peso verso l'ultima scena, quella clou, in cui apprendiamo dai loro racconti venati di sofferta felicità dell'inusuale storia d'amore, nata nella miseria del carcere e ancora teneramente viva dopo vent'anni, prima sbattuta e poi cullata dalle onde di quello stesso mare. Un esempio d'amore integro in cui la società bene raramente s'imbatte. "Questo è stato, una volta, in una città. Ricordi proibiti di un mondo scomparso. Piccole grandi storie".

La Bocca del Lupo Un’opera filmica di indubbio pregio artistico che si imprime nella mente per la sua forza evocativa: immagini di storie, una pubblica e l’altra privata, inserite nel contesto di una città in transizione, imprigionata tra presente e passato. Un docu-film che è anche e soprattutto poesia, rievocata attraverso i versi di Fortini, la fotografia crepuscolare e il candore della narrazione, funzionale soprattutto nella sua parte più attuale. Uno di quei film che non si vedono ma si sentono, e che vanno rielaborati in una riflessione intima, svincolata dai binari classici in cui il cinema solitamente ci instrada e che è invece tipica delle opere filmiche fuori dagli schemi, in grado di parlare senza filtri attraverso il linguaggio universale dell’amore: quello scevro da preconcetti e discriminazioni.

8

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