Recensione Reality

Torna il cinema grottesco e surreale di Quentin Dupieux con la strana vicenda del cameraman Jason

Recensione Reality
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Figura decisamente poliedrica del mondo dello spettacolo francese, Quentin Dupieux, classe 1971, è conosciuto soprattutto come Mr. Oizo, pseudonimo dietro il quale ha intrapreso una carriera discografica nell'ambito della musica elettronica. Nel frattempo, nel 2007 Dupieux ha realizzato, in qualità di regista, il suo primo lungometraggio cinematografico, Streak, al quale hanno fatto seguito Rubber (2010), Wrong (2012) e Wrong Cops (2013), caratterizzati da un umorismo grottesco e surreale. Reality, girato a Los Angeles e proiettato alla 71° edizione della Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti, è l’ultimo film in ordine di tempo di Quentin Dupieux, sempre sotto il segno di un nonsense elevato a chiave di lettura (forse l’unica possibile) di una “realtà”, per l’appunto, che sconfina nei territori dell’assurdo e dell’incomprensibile.

L’urlo perfetto

Reality si presenta difatti allo spettatore come un insieme di scatole cinesi: un curioso esperimento di metacinema che pare strizzare l’occhio al David Lynch più ardito (quello di Mulholland Drive ed Inland Empire), rovesciando però la medesima dimensione di “incubo” dell’opera lynchiana in un’irridente versione farsesca. Jason è il cameraman di uno show culinario presentato da un uomo mascherato con un costume da gigantesco ratto (e con un insopportabile prurito che lo spinge a grattarsi anche davanti alle telecamere). La grande ambizione di Jason è quella di dirigere un innovativo film horror; l'uomo propone così il proprio soggetto al produttore hollywoodiano Bob Marshal, il quale accetta di finanziarlo ma ad un’imprescindibile condizione: entro le successive quarantotto ore, Jason dovrà trovare “l’urlo perfetto”, quello in grado di rendere la sua futura pellicola davvero memorabile. Nel frattempo, nel bosco, un cacciatore spara a un cinghiale, all’interno del cui stomaco la figlia dell’uomo rinviene una misteriosa VHS: si tratta del nastro contenente l’horror di Jason. Eppure anche la bambina, in qualche modo, sembra far parte del film... e all’improvviso Reality pare avvolgersi su se stesso, in una spirale labirintica in cui diversi piani narrativi (o addirittura i piani temporali) si intrecciano e si sovrappongono, fino a provocare lo sdoppiamento di una realtà che, con tutta probabilità, non esiste affatto.

Mise en abyme

Reality, a partire dalla scelta antifrastica del titolo, costituisce la totale negazione di una logica costantemente contraddetta e messa in aperta opposizione con la sfera onirica. Nell’arco di 87 minuti di durata, Quentin Dupieux mette in scena un gioco di specchi in cui la mise en abyme diventa il fondamentale elemento drammaturgico di un film da rincorrere, da scomporre e da ricostruire, perdendosi fra inganni e paradossi dagli effetti talvolta sorprendenti (la telefonata fra il produttore isterico e il personaggio del film che il produttore sta visionando in quel medesimo istante). Dupieux, tuttavia, si limita a far scorrere il suo meccanismo perfettamente oliato, senza l’ambizione di condurre il racconto verso l’esplorazione di un’ideale dicotomia fra realtà e sogno; il suo Reality rimane dunque un sostanziale divertissement, magari anche accattivante per l’ironia con la quale si diverte a sbeffeggiare le attese del pubblico, ma riassumibile in fondo come un gradevole esercizio di stile squisitamente fine a se stesso.

Reality Il regista e sceneggiatore francese Quentin Dupieux presenza nella sezione Orizzonti, alla 71° edizione della Mostra del Cinema di Venezia, il suo nuovo lungometraggio, Reality, un fascinoso “gioco di specchi” in cui le logiche narrative sono incrinate dall'irrompere del surreale e dell’assurdo: ne risulta una parossistica reiterazione della tecnica della mise en abyme, che al di là del suo suggestivo meccanismo non travalica però i limiti del puro esercizio di stile.

6.5

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