Recensione St. Vincent

Bill Murray protagonista di una delle sorprese indie più piacevoli del 2014

Recensione St. Vincent
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Vincent McKenna (Bill Murray), veterano del Vietnam, è un uomo solitario e scorbutico, il quale vive in un quartiere suburbano con l’unica compagnia del suo gatto ed ha l’abitudine di alzare il gomito fino a stordirsi e cadere addormentato sul pavimento della cucina. Gli unici esseri umani con i quali Vincent intrattiene un qualche tipo di relazione sono sua moglie Sandy (Donna Mitchell), affetta da Alzheimer e pertanto degente in una casa di cura, e Daka Paramova (Naomi Watts), una vivace “lady of the night” di cui l’uomo è un cliente abituale. Vincent, insomma, sembrerebbe essere tutto fuorché il babysitter ideale: ma la necessità costringe la sua nuova vicina di casa, Maggie Bronstein (Melissa McCarthy), radiologa neo-divorziata, ad affidargli suo figlio dodicenne, Oliver (Jaeden Lieberher), il quale a suo modo resterà affascinato dalle stranezze del proprio vicino. Fra visite occasionali ai rodei per le corse di cavalli e agli strip-club locali, Vincent e Oliver finiranno per sviluppare un inatteso rapporto d’amicizia...

Grumpy Old Man

Opera d’esordio del regista e sceneggiatore Theodore Melfi, galvanizzata da un generoso secondo posto nelle classifiche di gradimento del pubblico del Festival di Toronto 2014 e accolta da un notevole successo negli Stati Uniti, St. Vincent potrebbe ricordare quasi una rivisitazione buffa ed ironica di uno dei capolavori di Clint Eastwood, Gran Torino. Melfi, in sostanza, si limita a replicare un topos narrativo che del resto è assai ricorrente nel cinema americano: il rapporto fra un grumpy old man, ovvero un “vecchio brontolone” incattivito dagli acciacchi dell’esistenza, e un adolescente che non tarda a risvegliare il suo lato più umano e sensibile. Venti o trent’anni fa un ruolo del genere sarebbe stato affidato di diritto al mitico Walter Matthau, mentre oggi a calarsi in un personaggio quale Vincent McKenna non poteva che essere l’inossidabile Bill Murray (ma sembra piuttosto che sia stato il personaggio ad essere disegnato per calzare a puntino su Murray). E l’interprete di Ricomincio da capo, Lost in translation e Broken flowers non deve fare neppure troppa fatica a vestire i panni di questo sessantenne licenzioso e semi-alcolizzato, ma animato da un’intima generosità di cui neppure egli stesso, forse, è consapevole.

FRA UMORISMO E SENTIMENTO

Theodore Melfi non si distacca minimamente da tale canovaccio di partenza, assecondando in tutto e per tutto la verve ben temperata di Bill Murray, spalleggiato dal piccolo Jaeden Lieberher e da una divertente Naomi Watts, in una parte borderline e alquanto atipica per l’attrice australiana (che in questo stesso periodo si sta distinguendo in uno dei film più applauditi della stagione, Birdman di Alejandro González Iñárritu), mentre la brava caratterista Melissa McCarthy è tenuta a briglia corta. Eppure, il principale limite di St. Vincent è proprio questo: affidarsi interamente al carisma di Murray e puntare su un umorismo lieve e abbastanza innocuo, concedendosi per di più anche degli inserti patetici mai davvero necessari. St. Vincent, insomma, è fin troppo impegnato ad accattivarsi le simpatie del pubblico - e verso l’epilogo, in effetti, regala una scena piuttosto emozionante - per risultare pienamente convincente o profondo, e nei titoli di coda (accompagnati dalle note di Shelter from the storm di Bob Dylan) ci lascia con la sensazione di un film gradevole quanto prevedibile e furbetto.

St. Vincent Lungometraggio d’esordio di Theodore Melfi, St. Vincent ripropone un modello narrativo ben noto, quello dell’improbabile amicizia fra un uomo burbero e solitario ed un giovane comprimario alle prese con i problemi canonici dell’adolescenza, per costruire un veicolo divistico totalmente al servizio di Bill Murray: ne risulta un prodotto tutto sommato piacevole, ma anche abbastanza scontato e privo di una reale profondità emotiva.

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