Recensione The Housemaid

L’amorale ritratto dell’alta borghesia coreana

Recensione The Housemaid
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Il regista coreano Im Sang-soo (The President's last bang, La moglie dell'avvocato) si cimenta nel remake di The Housemaid (Hanyo in originale), film cult e vera pietra miliare della cinematografia coreana diretto da Ki-Young Kim nel 1960. E lo fa (come lui stesso ha dichiarato) con l'intento di sfidare e rivoluzionare la prospettiva sociale e ideologica sulla quale era costruito l'originale. Al processo di modernizzazione filmica si affianca dunque il ritratto di una nuova e ricca classe sociale esecrabile ma comunque vincente, che prende il posto di quella borghesia vittima del proprio sogno di arricchimento che era alla base del film di Ki-Young.

Ostracismo casalingo

Una ricchissima famiglia coreana vive in una maestosa villa (arredata di un lusso che sfiora il pacchiano) la sua indolente quotidianità. Lei è una bambola di porcellana con il solo desiderio di rendere il suo uomo padre di una folta prole (d'altronde "solo i poveri non possono permettersi di avere più di due figli") ed è infatti incinta (per la seconda volta) di due gemelli. La sua giornata trascorre abulica tra cambi d'abito, esercizi corporali e lo sfoglio di patinate riviste di moda. Lui è un uomo d'affari (anche se non è dato sapere quali) che si diletta a suonare il piano (più per status sociale che per vera e propria passione) e ciò che lo distingue dalla massa sono la ricchezza, il potere e la prestanza fisica (nonché sessuale); un uomo che dalla vita "ha sempre ottenuto ciò che voleva" senza il minimo sforzo e non ha la benché minima intenzione di mettere in discussione questa inalienabile verità. I due coniugi hanno una figlia piccola (di una maturità precoce) che sembra ben più saggia e umana dei loro genitori, una specie di grillo parlante che osserva gli arabeschi della vita ridicolmente patinata di cui fa suo malgrado parte con occhio guardingo e giudicante. Infine hanno una governante devota che ha speso l'intera vita a servire e riverire i suoi padroni, tanto da non conoscere nessun altra vita al di fuori di quella. Entrerà a far parte di questo geometrico quadretto anche la giovane e ingenua Euny (una bravissima Jeon Do-youn). Una volta indossate camicia e gonna di servizio, la ragazza diventerà a tutti gli effetti una bambola di pezza nelle mani dei loro padroni, pronti a chiederle qualsiasi servigio senza il minimo scrupolo (si passa dalla preparazione di prelibati manicaretti al disfarsi del figlio che porta in grembo senza rilevanti variazioni di registro). Al servizio della moglie bambola e sotto ‘l'egida' della domestica più anziana, Euny si troverà ben presto anche a dover soddisfare le fantasie sessuali dell'uomo di casa, che vive la relazione extraconiugale con la stessa importanza con cui sorseggia vino rosso e si diletta al pianoforte. Sarà per Euny l'inizio della fine: impigliata suo malgrado nelle trame di gente senza scrupoli, convinta che la quantità di soldi posseduta sia direttamente proporzionale alle ignominie concesse, dovrà spingersi a gesti estremi pur di vendicarsi e riappropriarsi della sua dignità/libertà.

Ki-Young Kim vs. Im Sang-soo

Se nel film in bianco e nero del 1960 Ki-Young Kim sceglieva di affidare la narrazione all'escalation di un thriller da camera e a un'atmosfera di crescente tensione psicologica generata da un afflato nichilista cui tutti i personaggi finivano per soggiacere, braccati da inquadrature sempre più strette, nel film di Im Sang-soo è una contaminazione di generi (si parte con un tono realista, si prosegue con lo pseudo-thriller e si chiude con il tono surrealista e provocatorio dell'epilogo con spruzzate di black comedy) a prevalere, cui si affianca l'uso di una profondità di campo che è metafora di quel senso di libertà infinita cui i ricchi protagonisti anelano, ma dalla quale sono in fin dei conti schiacciati. Più della loro ‘serva' sono essi stessi infatti schiavi della loro immagine, tanto da esser pronti a qualsiasi cosa pur di non scalfirla. Una degenerazione morale che si scontra con la pulita geometria degli spazi, il fulgore dei pavimenti, l'ampio respiro dei lunghi corridoi. Ma le differenze tra i due film non sono solo stilistiche, anzi la vera rivoluzione di questo remake sta nel totale ribaltamento della prospettiva legata alle divisioni di classe, tra ricchi e poveri, menti e braccia. Se nel film di Ki-Young Kim sono solo le donne le uniche satrapesse, che cercano di irretire l'uomo (un talentato pianista), ed è lui a resistere più volte fino poi a cedere alla tentazione, secondo uno schema in cui la corruzione umana annienta qualsiasi pulsione positiva e la ricchezza è portatrice di guai più dell'indigenza, nel film di Im Sang-soo l'origine del male è l'uomo potente e ricco (che si è circondato di donne della sua stessa pasta), al quale nessuno ha mai detto no e che per semplice divertimento gioca a sedurre la domestica, precipitandola in una girandola di eventi tragici che appartengono di diritto alla classe povera, inesorabilmente destinata alla sofferenza e alla mancanza di comprensione altrui.

In conclusione

Due film di diversa matrice ideologica che nel confronto mostrano più differenze che similitudini, ma che sono accomunati da un forte senso estetico e dalle straordinarie interpretazioni delle due attrici protagoniste (la magnetica Lee Eun-shim dell'originale e l'acerba Do-yeon Jeon di questo remake) che sublimano modi e tempi narrativi in una personale catastrofe umana. Nonostante lo sconfinamento di un genere nell'altro e la sensazione di divisioni ideologiche forse fin troppo nette creino qualche confusione, il film di Im Sang-soo non sfigura al confronto con il suo ispiratore, offrendo nuovi e più moderni spunti di riflessione che partendo dalla società coreana si allargano poi alla società tutta in una storia che segna ancora una volta il polveroso confine tra ricchi e poveri, potenti e negletti, ponendo l'accento sul concetto di quell'umiliazione che non appartiene solo ai vinti. Un film che si fa grande nel suo prescindere dalle circostanzialità territoriali e assumere un respiro universale che si spinge oltre i confini della Corea, oltre quelli dell'Asia per arrivare sino a noi e alle nostre note, occidentali divisioni di classe.

The Housemaid Sfidando apertamente il film ispiratore, il regista coreano Im Sang-soo riporta sul grande schermo The Housemaid, rispolverandone lo stile e la matrice ideologica di base. Non più una manciata di donne irrazionalmente proiettate alla distruzione, ma una ricca famiglia raccontata attraverso lo sguardo puro della loro domestica, vittima esemplare del loro amorale modus vivendi. L’espressionismo estetico della messa in scena e l’ottima prova della protagonista esaltano il valore di questa fiaba dark che si dispiega insidiosamentre tra il senso di umiliazione e il concetto di amoralità.

7.5

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