Recensione Milk

Gus Van Sant ci racconta la vita di Harvey Milk

Recensione Milk
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Desideroso di fare "qualcosa per cui essere ricordato", l'ex insegnante ed ex broker finanziario Harvey Milk (Penn) decide di trasferirsi a San Francisco insieme al compagno Scott (Franco). Nella metropoli californiana sarà testimone delle brutalità della polizia e vivrà sulla sua pelle le umiliazioni subite dagli omosessuali, costretti a vivere nel quartiere intorno a Castro Street, in una specie di ghetto quasi autosufficiente. Dopo l'ennesimo pestaggio, Milk deciderà di prendere in mano la situazione, candidandosi come consigliere comunale. Dopo essere stato sconfitto capirà che per aver successo in politica non bastano i grandi ideali e raccoglierà attorno a se una squadra di giovani talenti con cui costruirà la sua ascesa alla City Hall. Una volta eletto (dopo due tentativi andati a vuoto), Milk si renderà promotore di una serie di disegni di legge anti - discriminatori che lo porteranno a scontrarsi con la potente elite repubblicana non solo in California ma anche a livello federale. Quando il senatore John Briggs, spalleggiato dalla cantante Anita Bryant, cercherà di far approvare in tutti gli Stati la famigerata Proposta 6 (che, di fatto, prevedeva di annullare i diritti civili a tutte le persone dichiaratamente omosessuali), Milk si getterà a capofitto nello scontro, promuovendo un grande movimento popolare che culminerà con l'abrogazione della 6 e la definitiva affermazione delle rivendicazioni gay che, nel giro di pochi anni, saranno fatte proprie da tutto l'establishment democratico.

Una poetica alternativa

Erano quindici anni che Gus Van Sant accarezzava l'idea di girare questo film, ispirato alla storia vera di Harvey Milk, il primo omosessuale a ricoprire una carica istituzionale negli Stati Uniti, ma il progetto definitivo, grazie soprattutto al supporto fondamentale di Sean Penn, ha visto la luce solamente negli ultimi anni. Van Sant non si confrontava con il cinema "ad alto budget" dai tempi di Scoprendo Forrester e, come allora, ha abbandonato ogni velleità sperimentale per concentrarsi solo sul messaggio. Milk risponde perfettamente al canone dei bio - pic americani, ci sono le sequenze originali mischiate a quelle con gli attori, la voce fuori campo che guida lo spettatore e la vicenda è pressoché a senso unico rischiando, almeno in un paio di casi di scadere nell'agiografia incondizionata. Ma Van Sant, nonostante la struttura molto manieristica del film, riesce comunque a ritagliarsi alcuni spazi in cui esplorare le psicologie dei protagonisti e a tratteggiare l'universo gay in maniera delicata e per nulla pruriginosa. Al di fuori delle grandi vicende istituzionali che infiammano il film, emerge una consapevolezza dell'ambiente omosessuale difficile da trovare nel cinema americano; la vita privata di Milk è tratteggiata senza nessuna omissione ed il regista ha il coraggio di non chiudere gli occhi su tutte le componenti del Castro's lifestyle, comprese quelle meno concilianti. Per una volta i gay non sono martiri a prescindere ma, anche all'interno della stessa comunità si intravedono divisioni, lotte di potere ed affanni, esattamente come potrebbe accadere in qualsiasi altro movimento organizzato. Ed è proprio questa mancanza di ambiguità a dare aria ad un film che altrimenti avrebbe potuto incanalarsi troppo facilmente sui binari dello stereotipo. Nella tragica vicenda di Milk si legge il ritratto di un'America spaventata da se stessa, che non ha ancora fatto del tutto i conti con il suo passato segregazionista e bigotto. Per usare un'espressione che va di moda in questi giorni possiamo dire che Milk è un film molto "Obamiano", dato che la storia del neo presidente e quella del "gay con il potere" (come si autodefiniva, scherzosamente Milk) sono quasi sovrapponibili. Entrambi, seppur in epoche diverse, incarnano la capacità degli Stati Uniti di reinventarsi in continuazione. Allo steso modo Van Sant, con questo film cerca una cifra estetica alternativa, non migliore o peggiore, ma semplicemente diversa da quella a cui ci aveva abituati. Forse l'operazione non è riuscita del tutto ed alcune sequenze che concedono davvero troppo al pubblico "di genere" (il ragazzo in sedia a rotelle, per esempio) potevano essere evitate. Tutto sommato però Van Sant è riuscito a raccontare un pezzo di storia americana senza troppi moralismi e guardando con occhio cristallino alle passioni profonde che smuovono gli uomini. E non importa se si é gay o etero, repubblicani o democratici, bianchi o neri, quello che conta è cercare di agire sempre con onestà intellettuale. Proprio come ha sempre fatto Milk, proprio come fa Gus Van Sant in ogni suo film.

Fra Amleto ed Ofelia

Sean Penn dimostra per l'ennesima volta, come se ce ne fosse ancora bisogno, il suo straordinario talento artistico, ritraendo Harvey Milk con acuta intelligenza, imitandone le espressioni ed il modo di fare in maniera pressoché perfetta. Ma la parte migliore, per intensità drammatica e pathos è quella di Josh Brolin che carica il suo Dan White con un carisma tragico quasi shakespeariano, accompagnandolo dolcemente verso la follia. In questo personaggio, distrutto dalla vita e ferito nei valori prima ancora che in politica, il film trova, forse la dimensione più intrigante e fa delle riflessioni non banali sulle radici profonde della destra xenofoba americana.

Milk Milk non sarà di certo ricordato come il capolavoro di Van Sant, la sua aderenza al canone biografico ed alcune lungaggini di troppo, faranno storcere il naso agli estimatori del cinema indie; ma al di la di questi piccoli difetti il film ha il pregio di portare sugli schermi una pagina della storia americana troppo spesso lasciata in ombra, nonostante la sua relativa vicinanza temporale. Sean Penn e Josh Brolin, poi, infilano altre due interpretazioni straordinarie che, in ottica Oscar, peseranno di certo.

7.5

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