Recensione Blindness

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Recensione Blindness
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Da Saramago a Meirelles, dal Nobel a Cannes

La 61esima edizione del festival di Cannes ha aperto con questo lavoro di Fernando Meirelles (già autore di City of God e The constant gardner), lacerando subito la manifestazione con interrogativi etici non banali. Si dica subito che gli intendimenti del regista brasiliano sono dei più ardui, trasporre gli squarci umani - o più anti-umani - di "Cecità", uno dei romanzi significativi del premio nobel Josè Saramago. Modulazioni formali, congetture figurative taglienti al limite del sopportabile...ma iniziamo con la voce narrante, quella di Danny Glover, il vecchio dall'occhio bendato, una figura chiaramente medianica che ci introduce, da narratore interno, fra il mondo dei vedenti e quello dei non vedenti. Un uomo guida (Yusuke Iseya) ma subitaneamente la sua vista langue, si volge in un bianco latteo che annebbia ogni cosa. Un pedone (Don McKellar), fingendosi buon filantropo, si appropria della vettura e fugge, esempio foriero di quel che sarà uno dei temi centrali dell'opera: il degrado umano. L'oculista (Mark Ruffalo) al quale si rivolge capisce, ma è troppo tardi, l'epidemia si diffonde, basta un tocco che il germe della cecità attacca in modo permanente e nel giro di poco tempo la gente si ritrova in una sorta di lazzaretto con secondini pronti a far fuoco contro qualsiasi insubordinazione, timorati dal contagio. Parte qui la succosa metafora della dittatura, come anti-apologia del male umano. I ciechi sono quindi costretti ad ordinarsi in camerate per gestire le urgenze fisiologiche, ma la lacerazione, il caos e l'abbandono prendono il sopravvento. Il conflitto alvino lo crea la "moglie" (Julianne Moore), così nominata nel romanzo come nel film, unica immune al morbo, si finge contagiata per rimanere amorevolmente accanto al marito medico. Ma la situazione precipita. Un ex-barista (Gael Garcia Bernal) si introna Re di una delle camerate, minacciando tutti con una pistola, si circonda di fedeli aiutanti potendo così imporre le sue condizioni che prevedono pagamenti in gioielli prima, in prestazioni sessuali poi e di cibo infine. Tutti si prostrano fino a quando una delle donne violentate muore, sobillando la ragion d'etica della moglie che si accollerà quindi ambasciate sediziose, senza però riuscire a trovare sbocchi oltre i muri carcerari dell'ospedaliera prigione. L'impegno sarà quindi quello di affastellare un nucleo di umanità retta quando ormai il mondo intero pare contaminato, affinchè si possa anche solo immaginare un futuro, per concludere con il bilancio etico del vecchio bendato che, come inizia, finisce.

Una sceneggiatura illustrata per un lavoro sulla cecità

Il significato allegorico del film è piuttosto chiaro: la gente vede, ma in verità cosa vede? Solo perdendo la vista, si vede più chiaramente cosa si è. L'oscuramento non fa altro che amplificare la conoscenza di sè stessi che per lo più appare qui deteriore per un'umanità infelice, quale, all'occasione, non si perita di ripiegare su bassezze ferine. Basta poco per capire quanta ferocia animalesca si annidi nell'uomo. Il taglio vuole essere realistico, non già nella forma, quanto nello sguardo antropologico e l'angoscia che Meirelles è capace di gettare sull'aspettatore, come suddetto, non è banale. La possanza tragica è di sicura presa, la vasta gamma di colori sfumati che il regista dispiega fa dello schermo una tela bianca da gonfiare con dei grigi pittorici, taglienti. Spicca sicuramente la prova sofferta della Moore, protagonista della catabasi. Un viaggio nell'ipogeo infernale della brutale fragilità umana: perse di colpo le consuete certezze, si scopre quasi forzatamente angelico elemento di un progetto palingenetico dal gusto biblico, compiere la resurrezione di un'umanità fatiscente, tener viva la sua interiore luce affinchè questa possa rischiare il lattiginoso buio degli altri. Emerge la responsabilità che l'individuo ha nella società di massa, la centralità del singolo e del suo sguardo, consapevole delle proprie debolezze. E' questa reciprocità che si avverte tra schermo e sala, il tenue ma al contempo ferreo filo rosso che lega Uno con Tutto.

La brutalità dell'uomo e la fragilità del suo sguardo

Nonostante la preminenza dei temi trattati ed il ragionamento di valore che quest'opera porta in grembo, vi sono dei problemi. L'azzardo del lavoro alla lunga si fa sentire. Troppe astrazioni gravano sulla consistenza del progetto, arrivando a rischiare talvolta anche lo svuotamento di certe immagini, sempre ben alamanaccate. Quella di Meirelles, come già è stato detto, è una sceneggiatura illustrata, ulteriore arditezza per un progetto già di per sè inturgidito. Ne segue un lavoro estetizzante, ma non di maniera, un uso indotto del fuori-fuoco, giochi di ombre, immagini spesso indistinte sembrano fluttuare sullo schermo esaltando uno stato confusionale che è quello di chi fruisce, esulcerando il tutto con echi di gemiti, parole sbiascicate: ecco lo strumento estetico sapiente per raffigurare la bestialità umana.Ma il fascino del sordido sgomenta e colpisce anche in virtù del lavoro di epurazione estetica che il regista ha consumato, il quale, difatto, elimina tutte quelle retoriche del linguaggio visivo da figure commericiali, da cinema di consumo, da copertine patinate, per creare un cosmo pittorico tutto suo cui i nostri occhi, certo, non sono abituati a vedere, nel tentativo anche di riprodurre immagini cerebrali che Saramago effigiava con la scrittura. Il montaggio tenterebbe poi di trasporre l'interpunzione spesso assente nel romanzo, lavorando sulla visione della mente, industriandosi in messe a fuoco di dettagli, sfocature profonde che smantellano qualsiasi punto di vista predeterminato, bisognose però di un certo lavoro di riguardo che lo spettatore deve accollarsi. Tanta carne al fuoco quindi, talmente abbondante che forse è anche troppa da consumare in una sola abbuffata col rischio di risultare, a spanne, evanescente. Ma, di là dalla pesantezza, rimane un lavoro virtuoso che tenta di trovare contiguità tra etica ed estetica, come antiche lezioni vogliono ed insegnano. Sicuramente un'opera da vedere, da meditare e da rivedere nel tempo per capirne quante più sfumature ed introspezioni possibili.

Blindness “Non penso che siamo diventati ciechi. Lo siamo sempre stati. Ciechi che vedono. Persone che possono vedere ma non vedono“ (dall'incipit del film).

7

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