Rubrica Everyeye After - Contact e No More Heroes

Contact e No More Heroes. Due storie di formazione

Rubrica Everyeye After - Contact e No More Heroes
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L'operazione critica non è mai spoglia da influenze esterne. I facili entusiasmi per un gioco ricevuto in anteprima, la pressione delle aspettative, le opinioni dei colleghi. Le potenziali lamentele dei lettori.
Everyeye ha sempre mantenuto la testa alta e la sua indipendenza, cercando di salvaguardare un'obiettività basta su criteri di giudizio rigorosi. Ma molto spesso è difficile scrutare oltre la scintillante realtà del momento, intravedere in un prodotto potenzialità sopite o caratteristiche sopravvalutate, rispettivamente destinate ad influenzare il mercato del futuro o ad essere dimenticate senza pietà. Ed allora è bello, ogni tanto, guardare al passato e provare a strutturare un'analisi "col Senno di Poi".
In questa rubrica ci preoccuperemo di inquadrare con occhio critico non tanto i prodotti, quanto le nostre recensioni antiche. E vedremo se, "a mente fredda", sarà possibile confermarle o meno. Vedremo se i prodotti che abbiamo glorificato sono davvero quelli che hanno lasciato un segno, se i titoli che abbiamo condannato agli inferi meritavano davvero un trattamento così severo.
Non sarà mai una sorta di elogio funebre, come i "Post Mortem" che popolano i siti d'oltre oceano. Anzi, sarà un percorso vitale, alla ricerca di una traccia lasciata dai videogiochi più importanti; una traccia ancora rigogliosa e florida. Brutta o bella che sia: perchè il ricordo si modifica ed evolve, ed ogni singolo gioco può essere ripensato come una perla rara, come il nuovo revisore di un genere, o come una bruttura spacciata fortunosamente per un grande capolavoro.

Contact

Era il marzo del 2007 quando, finalmente, anche i DS europei poterono ospitare nei loro slot il primo lavoro dei Grasshopper Manufacture destinato al portatile Nintendo. Dando uno sguardo all’accoglienza che gli riservò la critica si può notare un ampio ventaglio di giudizi. Gameplay troppo debole, RPG che tenta senza riuscire, gioco nella media, capolavoro senza precedenti.
Everyeye, al tempo, riconobbe i limiti e difetti del titolo, riuscendo comunque a mettere in luce e apprezzare i suoi indubbi meriti.
Contact proponeva, come il titolo lascia supporre, la storia di un contatto. Per recuperare il prezioso Elemento, il Professore si imbatte in Terry, un ragazzo qualunque, che suo malgrado viene coinvolto nella ricerca di questi misteriosi manufatti. Il famoso contatto di cui si parla tuttavia, non è certamente quello tra i due personaggi appena citati. Era il videogiocatore stesso, infatti il cardine e il motore che azionava e alimentava l’intera avventura. Se da un lato si prende direttamente il controllo di Terry, che a tutti gli effetti diventa il tramite con cui interagire con lo scenario di gioco, dall'altro il Professore sembra a conoscenza dell'effettiva esistenza di una presenza "metafisica", di una realtà oltre lo schermo. L’utente così si trova sospeso in una posizione difficilmente definibile entro canoniche schematizzazioni. L’immedesimazione completa con Terry è impossibile, in quanto è il Professore stesso a infrangere il processo; ma allo stesso tempo tutte le interazioni che il videoplayer ha con il mondo di gioco passano proprio attraverso il giovane ragazzo. Chi gioca dunque si ritrova a ricoprire un ruolo assolutamente inedito: non è padrone di un avatar, visto che questo possiede pensieri e desideri propri, ma non è neanche una sorta di divinità o un generale supremo che si diverte a muovere le sue truppe in un RTS qualunque. Ed è ecco allora il Contatto. L’annoiato picchettamento sul touch-screen che apre l’avventura, è si un nostro gesto di impazienza per un gioco che durante la schermata iniziale “non parte”, ma -nella semiotica del titolo- rappresenta l’apertura di una finestra che collega il nostro mondo con quello del Professore, rigorosamente in 8-bit e asettico, e quello di Terry, graficamente iperrealistico e denso di dettagli.
Si crea così un'avventura meta-videoludica che tende sempre a travalicare il medium stesso. Da una parte Grasshopper Manufacture fa di tutto per attualizzare ogni possibile topos incontrato in mille altri titoli: il mondo desertico, la solita banda intenzionata, apparentemente, a mettere in serio pericolo la terra, la base futuristica, il golem di pietra. Dall’altra parte, il Professore cerca in tutti i modi di persuaderci che il DS non è solo una console, ma una vera e propria finestra sul suo universo alternativo, dove non si gioca, ma si ha a che fare con cose serie, che accadono realmente. Anche a portatile spento, l’anziano professore continua nelle sue faccende e non manca di farcelo presente ogni volta che può.
Ci si trova insomma di fronte a un videogioco-collage, o a un’avventura viva, un po’ come lo era la Storia Infinita? L'incertezza perdurerà sino alla roboante conclusione. Avuta la meglio nello scontro finale, l’idillio irrimediabilmente si rompe, mostrandoci, con inaspettata violenza, la fragilità delle favole. Terry in realtà ha sempre saputo della nostra esistenza, e in uno slancio di emancipazione comincerà a prendere a pugni il touch-screen nel tentativo di ferirci. Allo stesso tempo la banda di cattivi farà sorgere in noi la domanda che serbavamo segreta sin dall’inizio dell’avventura: a cosa servono gli Elementi? Per quale motivo il Professore se ne vuole assicurare il controllo? Abituato com’è il videogiocatore moderno a occupare una posizione tanto netta quanto ideale, Contact scopre un’altissima dose di realismo, ricordandoci che nella vita di tutti i giorni difficilmente le cose sono o bianche o nere. Sicuri come eravamo di agire per il Bene, abbiamo dimenticato di ragionare, di chiederci se realmente il Professore fosse dalla parte giusta. La sua misteriosa e improvvisa sparizione, tra l’altro, non fa che incrementare il cattivo presentimento del videogiocatore.
Più efficace delle scelte morali di tanti altri videogiochi, Contact, all’apparenza così ingenuo e canonico, spinge a una forte riconsiderazione del prodotto. Una seconda apnea nell’avventura principale infatti, è l’unica strada per poter apprezzare appieno la maturità del contenuto.
Oggi come ieri, dopo aver giocato titoli del calibro di Bioshock e Mass Effect, il nostro parere non è cambiato di una virgola. Alla luce di tante spese milionarie e delle roboanti promesse fatteci da tanti sviluppatori, rigiocare ai nostri giorni a Contact significa vedere ancor più chiaramente gli assoluti meriti di un prodotto che nella sua semplicità, tecnica e tematica, sa stimolare considerazioni non comuni. Capaci, anche, di farci maturare interiormente. Proprio perché, grazie a un contatto, siamo stati noi stessi la scintilla generatrice di un indimenticabile viaggio.

No More Heroes

Inaspettatamente, o forse no, un discorso molto simile lo si può fare con No More Heroes, anch’esso sviluppato dai Grasshopper Manufacture e pubblicato in Europa su Wii, nel marzo del 2008.
Agghindato come un perfetto viaggio meta-videoludico fatto di citazioni, cliché e tanta azione, anche questo titolo presentava una trama apparentemente superficiale e avara di introspezione. Solo uccidendo l’ultimo, e misterioso, killer, guadagnando così la prima posizione della speciale classifica dei migliori assassini della nazione, si poteva comprendere ciò che in realtà la scalata di Travis Touchdown nascondeva.
Anche in questo caso la tecnica narrativa è simile: mettere in evidenza il medium di appartenenza di No More Heroes, per poi sorprendere con un finale che, proprio grazie alle peculiarità del videogioco, si faceva tanto più impetuoso in termini emozionali e psicologici. Nell’epoca del videogioco che fa di tutto per eliminare gli HUD dagli schermi, che cerca in tutti i modi di avvicinare le sue forme espressive a quelle del cinema, la creatura di Suda 51 non muove un muscolo per creare l’illusione di trovarsi di fronte a qualcos’altro che non sia un “giochino elettronico”. Spoglia Santa Destroy fino a renderla semplicemente una gigantografia della camera di Travis. Riempie i livelli di nemici tutti uguali tra loro che si materializzano di fronte a noi senza alcuna vergogna, senza alcun tentativo di celare ciò che in realtà sono: carne (o pixel) da macello da eliminare senza troppe preoccupazioni. Addirittura trasforma un sogno del protagonista otaku in uno sparatutto bidimensionale a base di astronavi nello spazio. Come se non bastasse alcuni dialoghi dei personaggi hanno come unico obiettivo quello di smascherare l’artefatto dell’illusione, ammettendo che alla fine ci siete voi, il Wiimote, poligoni, texture e poco altro.
No More Heroes tuttavia fa molto più che affascinare il videogiocatore con la sua semantica, fa molto più che offrire quindici ore di divertimento puro e quasi frenetico, in un vortice assuefacente di musica elettronica, cenere e monete che zampillano da ogni ferita inferta. No More Heroes racconta anche una storia, una storia di maturazione, neppure si trattasse di un romanzo di formazione.
Il titolo di Grasshopper Manufacture racconta di una città dove gli eroi non esistono più. Al loro posto una folta schiera di assassini e ragazzini, più o meno cresciuti, ubriachi di smanie di onnipotenza. Tra questi c’è Travis: otaku in piena tempesta ormonale. Bastano due gambe, labbra ipnotiche, un po’ di biancheria intima in vista ed eccolo in strada in sella alla sua moto alla ricerca del prossimo killer da mandare al creatore. All’affascinante Sylvia Christel non sembra nemmeno vero: è bastato così poco per convincerlo a scalare la classifica dei migliori assassini in circolazione?
Non solo: Travis durante i primi livelli da l’impressione di essere un Super Sayan privo di qualsiasi freno: imbattibile, da prova di tutta la sua retorica uccidendo dopo poche frasi a effetto Death Metal e Dr. Peace. L’idea della morte non lo sfiora, il pericolo è un concetto fuori dalla sua portata e non sa cosa sia la compassione.
Eppure qualcosa cambia. Shinobu è ormai sconfitta e gli chiede persino di finirla. Ma come si fa ad uccidere una ragazzina, per lo più figlia del lottatore di wrestling che Travis adora e che ora è morto per mano di chissà chi? Un suplex termina lo scontro: un gesto che, nel mondo di No More Heroes, vale quanto un schiaffo dato a una figlia.
Tuttavia è con Holy Summers che il titolo mostra uno dei momenti più toccanti e importanti dal punto di vista narrativo. E’ la lotta con questo killer che cambia completamente il senso del viaggio dell’anti-eroe. Una volta atterrata la sfidante, non riesce a finirla. Sarà la ragazza stessa a dirgli di aprire gli occhi: gli assassini devono morire quando perdono. L’unica cosa che Travis può fare è non dimenticarsi mai di lei e, soprattutto, non guardarsi mai indietro. Il breve testamento orale e culturale di Holy Summers cambia il protagonista, che inizia ad intuire che non si tratta solo di sesso, che non è semplicemente una corsa verso un fantomatico quanto immaginario primo posto. La battaglia contro Bad Girl, in questo senso, funge da ottimo esempio. Di fronte alla follia omicida della ragazza, Travis sembra aderire finalmente allo standard dell’eroe purificatore. Non più un killer, ma un salvatore intento a eliminare il marcio dal mondo.
La lotta fratricida lascia pochi dubbi sul senso del viaggio di Travis. Laddove prima non c’erano eroi, ma killer, ora al protagonista viene fornita una rilettura di tutte le tappe che lo hanno portato al passo finale del suo sanguinario, ma determinante rito di passaggio. Da otaku disperato d’amore, si scopre improvvisamente uomo con un preciso compito: vendicare la morte del padre per opera della sorella. Travis si scopre uno di noi, un antieroe non tanto perché è un assassino, quanto per il suo essere umanamente alla ricerca della sua strada, del suo primo posto in classifica. Sylvia Christel, da oggetto sessuale, da premio, si trasforma così in sciamano e iniziatore: grazie a lei, Travis raggiunge la maturità, comprende il motivo del suo viaggio e sé stesso. E così, come ognuno di noi dopo la caduta degli eroi, anche lui trova la sua strada, il suo traguardo.
Ciò che appariva come una semplice scampagnata all’insegna del gore e della violenza fine a sé stessa ha rivelato, in controluce, molto di più.

Everyeye After Con Contact e No More Heroes, Grasshopper Manufacture non solo ci ha donato due giochi estremamente godibili, seppur palesemente minati da alcuni difetti. Con queste due grandi storie la software house, capitana dal geniale Suda 51, ci ha offerto due intelligentissimi spunti filosofici per la vita di tutti i giorni. Non ci capiterà mai di cercare gli Elementi, né di andarcene in giro ad assassinare killer; ma di crescere, quello ci capita in ogni istante. Là dove non c’è la grafica di un Mass Effect, là dove manca un gameplay raffinato come lo era quello di Bioshock, questi due prodotti colpiscono per una semplicità che ha dello spiazzante. Mentre mostrano la natura dell’artefatto videoludico, proprio grazie alle peculiarità del medium che sfruttano, riescono con indiscutibile efficacia a spingerci ad approfondite riflessioni sul nostro agire e sul senso delle nostre scelte. Oggi come allora, rigiocare questi due titoli significa prendere parte a un viaggio da cui si esce profondamente cambiati.