Speciale Evoluzione Horror

Un viaggio nelle declinazioni dell'Horror videoludico, dagli anni '90 ad oggi

Speciale Evoluzione Horror
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  • Xbox 360
  • PS3
  • Pc
  • Spaventare il giocatore. Un compito difficile, soprattutto in un'epoca in cui le immagini tendono a sovrapporsi e moltiplicarsi, perdendo gradualmente la loro forza comunicativa. Instillare un sano terrore nel videoplayer è quindi uno dei crucci che attanaglia da tempo immemore parecchi produttori di videogame che, nell'ultimo decennio, ci hanno provato in tutti i modi, ottenendo risultati molto altalenanti. Volendo dunque fare un sunto di come si è evoluto il genere horror in ambito videoludico, ci sarebbe davvero da guardare a linee di tendenza e filosofie eterogenee e molto distanti fra loro.
    Quello che vi presentiamo è uno speciale che, prendendo spunto da una lista ben precisa (e volutamente accorciata) di produzioni stimate e conosciute, prova a fare il punto di come il genere Horror si sia evoluto nel corso delle generazioni.
    Pubblichiamo questo excursus poche settimane prima dell'uscita del terzo capitolo di una delle saghe in un certo senso più significative degli ultimi anni: quel Dead Space che abbiamo trattato recentemente in un corposo Eye Remember. Una serie che si è eretta in difesa di alcuni ideali o caratteristiche tipiche dell'horror tradizionale, ed ha sentito poi il peso delle logiche di mercato, accettando una deriva sempre meno classica. Un quadro perfetto di un genere idolatrato e controverso, e spesso addirittura incoerente nei confronti della propria tradizione.

    Terror in the Late 90’s

    Senza tornare troppo indietro nel tempo partiamo dai mitici anni '90, durante i quali, almeno per un buon periodo, Resident Evil fu sinonimo di Horror videoludico. O meglio, nella definizione comune, di Survival Horror - genere che prevede solitamente la presenza di un solo o pochi protagonisti intenti, piuttosto che a combattere una minaccia incontrollata ed incontrollabile, a sopravvivere.
    La serie Capcom, sin dagli albori, non cerca raffinatezze psicologiche di sorta, schierando protagonisti abbastanza tipizzati, e si limita -riuscendoci felicemente- a destabilizzare il giocatore. Lo fa, ad esempio, proponendo situazioni nelle quali l'apparente tranquillità di un corridoio, magari poco illuminato, viene interrotta bruscamente dall'irruzione di una o più creature, mettendo in grossa difficoltà il protagonista. Ogni espediente è lecito per mettere alla prova la psiche del giocatore: porte che si aprono lentamente durante i caricamenti, lamenti "zombeschi" in lontananza e rumori sospetti in generale. Ma il filone Resident Evil non va sempre per il sottile. Molto spesso è il gore ad attivare gli interruttori sensoriali, ponendo chiaramente sotto ai suoi occhi una forma diversa di terrore: il disgusto. Gli Zombie dilaniano i cadaveri e se ne cibano; i Licker squartano gli uomini tramite gli artigli e li trafiggono con lingue affilate come lame; le piante geneticamente mutate rilasciano potenti acidi che sciolgono la carne. Ognuno di questi elementi caratterizza e caratterizzerà Resident Evil nelle sue fortune e sfortune, dal 1996 ad oggi. Il nemico deve dunque essere ben esposto alla vista, riconoscibile per attivare la reazione del giocatore. C'è tuttavia un limite che Resident Evil e i suoi "cloni" non vogliono superare. Il protagonista non è mai (o quasi) una persona qualunque; non è totalmente inerme. Grazie alla sua condizione (soldato/poliziotto) ed alle sue capacità ha una chance di cavarsela pressoché in tutte le situazioni più disperate. A differenza dei "mostri" può infatti utilizzare le armi, può curarsi ed è quasi sempre il più agile. Anche in questo caso, tuttavia, c'è un punto di rottura che riequilibra le cose, rimettendo il protagonista in posizione svantaggiata. Si tratta della "Nemesi", introdotta proprio da Resident Evil sotto forma di nemico semi-invincibile da re-incontrare più e più volte nel corso dell'avventura. Che si tratti del Tyrant, di Nemesis o chi altro non importa: un essere evoluto rispetto alle altre creature, in grado di metterci in difficoltà non solo per potenza ma anche per resistenza, agilità e a volte astuzia. Un vero e proprio incubo.

    Tale concetto sarà ripreso ed ampliato pochi anni dopo da Silent Hill, sempre nell'ambito di una concezione non integralmente introspettiva del videogioco horror (dove cioè si combatte, i mostri si vedono ed è il gore a fare la differenza). La produzione Konami, tuttavia, ha il grande merito di ribaltare gli equilibri settati da Resident Evil, che dopo ben due episodi (ed un terzo in arrivo) vedeva smorzare la sensazione di paura provata dal giocatore. Se Shinji Mikami non ha mai esasperato la debolezza dei suoi protagonisti, Keiichiro Toyama ne ha fatto il punto chiave delle sue produzioni. Henry Mason, il protagonista, è un individuo qualsiasi, uno di noi. Non è un poliziotto, non è addestrato, non sa combattere e non sa usare le armi. Il videogiocatore sprofonda dunque in un baratro, perdendo molti dei punti di riferimento di quello che sino al 1999 era stato il simbolo dell'Horror videoludico.
    Ma Silent Hill non è del tutto nuovo, dato che prende sotto molti punti di vista spunto da quello che diventerà il suo rivale storico. Anche nella produzione Konami, ad esempio, ritornano i canoni del gore e la nemesi; solo in maniera molto più prepotente. Facendo leva sulle più intime (oseremmo dire "dantesche") paure dell'uomo, il titolo KCET apre letteralmente le porte dell'inferno. Quelli di Resident Evil sono zombie, creature viste e riviste sin dagli anni '60 in ambito cinematografico; in Silent Hill le creature da affrontare sono demoni, esseri corrotti appartenenti ad un'altra dimensione. Qualcosa di ancor più estraneo e viscerale che terrorizza alla sola vista, riprendendo l'elemento del disgusto. Il design dei mostri è infatti quasi intollerabile - un mix di blasfemia e putridume che raggela letteralmente il sangue e rimesta le viscere. E poi, naturalmente, la nemesi: Pyramid Head - forse il "nemico" migliore mai creato in un survival horror. C'è poi il tremendo mutare della realtà e di chi la popola: la cittadina, isolata dal Mondo per sottolineare ancor più il tema della solitudine dell'eroe, muta; quello che all'apparenza sembra normale si tramuta in un vero e proprio incubo, sciogliendosi e marcendo sotto gli occhi del giocatore, avvisato per di più tramite una potente sirena. Ed è qui che s'interseca il gore più brutale e raccapricciante con elementi più profondamente radicati nell'animo umano come l'esoterismo e la religione, tracciando un profilo totalmente straniante.
    Silent Hill porta poi il tutto su un altro livello, quello sensoriale, sfruttando anche e soprattutto la presenza di un protagonista inerme ed in balia degli avvenimenti. Pochi ma assolutamente d'impatto gli espedienti: la nebbia che non permette di vedere i nemici in avvicinamento, il rumore che gli stessi producono e la caratterizzazione visiva della "dimensione oscura" (e dei suoi allucinanti orrori). Si tratta dei primi efficaci esperimenti di più sottile mira verso i remoti anfratti della psiche del giocatore, che verranno poi esplorati -come vedremo- negli anni a venire. Non sapere da dove giungerà il nemico ma sentirlo avvicinare tramite la radio (soluzione ludica incredibile) o sentirne il rumore (indimenticabile lo stridere della gigantesca sega di Pyramid Head) risulta debilitante e Konami lo sa bene.

    Gli anni '90 chiudono a grandi linee così, dato che da sottolineare, nel 1999, c'è "solo" l'ennesima creatura di Shinji Mikami: Dino Crysis. Per Capcom questa è l'occasione di riprendere le dinamiche funzionali ed oramai sdoganate di Resident Evil e portarle ad un livello leggermente differente, tentando dunque di lanciare una nuova ed efficace IP. Dal nostro punto di vista si tratta di un'opera che declina i "canoni horror" della serie zombesca in un ambito diverso, trasformando il terrore derivato dal disgusto del gore ad una più semplice ed ancestrale paura di morire. I Dinosauri di Dino Crysis, infatti, non fanno ribrezzo: uccidono, mutilano e divorano. Una dimensione dunque più "fisica" del terrore, che mette il giocatore nei panni della preda di creature feroci. Tutti caratteri che, nel corso degli anni, verranno ripresi da più d'una produzione.

    Playstation 2 Era

    I primi anni del duemila verranno ricordati come l'era della Playstation 2 che, nonostante la presenza di molte concorrenti più o meno agguerrite (Xbox, Dreamcast, GameCube) non vedrà mai calare il suo assoluto dominio. Un dominio che contribuisce a sancire la superiorità nipponica nello sviluppo dei videogiochi: un aspetto che si fa sentire in questi anni soprattutto nell'ambito che stiamo trattando. I primi anni del secolo sono infatti terreno fertile per diverse produzioni horror di stampo nipponico, che finalmente si affacciano sul Vecchio Continente spinti dalla curiosità e dalla fiducia, ma anche dagli investimenti di publisher ormai consapevoli che il genere possa effettivamente produrre notevoli guadagni.
    Il primo titolo che ci sentiamo di citare riguardo a questo filone è senz'altro Project Zero, conosciuto anche come Fatal Frame. Il titolo Tecmo incarna perfettamente lo stereotipo dell'horror di stampo giapponese, dove la razionalità viene praticamente annullata ed è quasi vietato combattere in maniera canonica mostri e creature di sorta. Nel caso di Project Zero, ad esempio, le entità incorporee vanno evitate o catturate grazie ad una particolare fotocamera (la Camera Obscura) che sostituisce in toto qualsivoglia dotazione bellica. Il protagonista, proprio come in Silent Hill, è sostanzialmente debole - spesso una giovane donna. A tenere unite le fila del racconto, importantissimo in questo particolare genere di produzioni, la sconfinata tradizione letteraria ("mitologica") giapponese, ripresa alla lettera o dalla quale si trae solamente spunto per caratterizzare la vicenda. Una caratterizzazione che aderisce in molti casi (come questo) a determinati e precisi canoni: l'edificio antico, il villaggio disabitato, la ricerca di una persona cara e le implicazioni tremende della leggenda popolare. Il tutto veicolato tramite una struttura ermetica, spesso incomprensibile agli occhi occidentali. Una struttura che si rivela però vincente, donando una costante sensazione di straniamento, che sfocia quasi nell'incomprensione. Detto e non detto si alternano alacremente e non è quasi mai chiaro il punto focale della situazione. Esattamente come non è sempre chiara la natura del "nemico", spesso incorporeo o comunque mai palesemente presente come in un Resident Evil o in un Dino Crysis. Anche il gore, in questa tipologia di produzioni, viene in parte accantonato, servendo più che altro da stimolo momentaneo ed improvviso per risvegliare particolari impulsi ed indurre il videogiocatore in disturbanti stati psicologici. Molta della fortuna di questo particolare sottogenere è fondata infatti sulla psicologia.

    Ne è un esempio ancor più calzante quel Siren (o Forbidden Siren) che vede la luce nel 2004, tre anni dopo Project Zero. L'opera è targata SCE Japan Studio ma tra le menti dietro al progetto c'è persino quel Keiichiro Toyama che abbiamo già citato riguardo a Silent Hill. E infatti, alcune delle caratteristiche di Silent Hill (la radio ad esempio) vengono riprese anche in Siren, che è tutt'oggi probabilmente l'esempio più estremo di survival horror di stampo nipponico esistente. Quella di Siren è un'avventura con tutte le caratteristiche da noi descritte: ci sono diversi protagonisti "comuni", c'è un piccolo villaggio con tanto di leggende e tradizioni popolari e ci sono, ovviamente, misteriose creature. Le atmosfere, spesso molto pesanti, ricalcano lo stereotipo del Sol Levante, che risalta la componente debilitante creando e mantenendo un costante senso d'ansia, quasi soffocante nel giocatore. Ancora una volta, dunque, il fulcro principale è la narrazione, che risulta sì ermetica e complessa come nella tradizione orientale ma anche estremamente affascinante.
    L'orrore e il terrore di essere braccati da zombie, da demoni o da dinosauri si trasforma dunque in ansia ed angoscia, veicolate da produzioni di stampo tipicamente nipponico che mettono al centro atmosfere e narrazione, dando il via ad un processo d'integrazione tra i meccanismi dell'horror che si svilupperà poco più avanti. Questo genere di produzioni, affascinanti quanto estreme, non ha tuttavia vita molto lunga. Al di là dei patrii confini le tante esasperazioni del modello non sempre convincono e da un esempio tra i più lampanti come Silent Hill 4: The Room tutta l'industria trae una bella lezione. Questo quarto episodio, l'ultimo prima di una lunga sosta, esaspera il concetto di allucinazione fino a farlo diventare fastidioso. Il giocatore non ha sostanzialmente mai una vera idea dello sviluppo narrativo, e se ci aggiungiamo un comparto ludico inasprito senza alcun motivo ecco servito il cocktail per una cocente delusione. Un monito recepito in breve tempo, dato che di produzioni del genere non se ne vedranno per molti e molti anni a venire.

    Prima di passare avanti, staccandosi dal panorama Playstation 2, è bene citare un'opera che all'epoca (nel 2002) era già avanguardia. Si tratta di Eternal Darkness: Sanity's Requiem (Nintendo GameCube): un titolo che dimostra come gli stilemi di Silent Hill, Resident Evil, Project Zero e chi più ne ha più ne metta possano anche mescolarsi in maniera originale. Quella Silicon Knights è tutt'oggi una delle migliori esperienze horror in ambito videoludico. Il team riesce nell'impresa di bilanciare quasi tutte le componenti citate sino ad ora: troviamo un pizzico di combattimenti, c'è la mitologia e la maledizione, ci sono i protagonisti "normali" e, soprattutto, c'è il disagio. Proprio quest'ultima è la caratteristica principale del titolo, che mette per la prima volta al centro dell'attenzione le allucinazioni del protagonista, trasformando l'orrore verso il nemico nella tensione di non esser capaci di distinguere reltà ed immaginazione. Sono i protagonisti stessi a rappresentare un pericolo, forte dello squilibrio mentale che li fa agire al di là del raziocinio, declinando in salsa videoludica, pur con tutti i limiti del caso, idee che erano state del grande Stanley Kubrick in Shining.
    Gli espedienti utilizzati all'epoca sono fantastici: il mondo si distorce cambiando aspetto, i controlli si invertono, a schermo vediamo abbassarsi il volume senza toccare il telecomando, e vediamo sparire o bloccarsi l'immagine. L'effetto sulla psiche del giocatore è totale ed ancora oggi, benché non si possa esattamente annoverare tra quelle più "paurose" in senso stretto, l'esperienza di Eternal Darkness è una delle più debilitanti e meglio riuscite di sempre. Senza contare che ci guida, pur con largo anticipo sui tempi, fino al trend intrapreso dal genere all'inizio della tanto agognata Next Generation.

    Next Gen!

    Chiarito oramai che il Survival Horror di stampo troppo classico non ha più il seguito di un tempo, all'alba della Next Gen si tenta di puntare su nuove filosofie. Sfruttando le potenzialità di Xbox 360, la prima a raggiungere gli scaffali, Monolith Productions esordisce con Condemned: Criminal Origins, sin troppo sottovalutato Psychological Horror. La produzione dismette i panni onirici o "mitologici" del filone orientale ma anche la necessità di presentare il nemico in forma mostruosa tipica di quello occidentale. Il setting è per la prima volta attuale e credibile (prendendo forse spunto da Eternal Darkness) ed il protagonista è un'investigatore sulle traccie di un misterioso ed efferato Serial Killer. Non manca la componente gore, radicata soprattutto nelle "scene del crimine", ma il suo utilizzo è limitato alla sfera del plausibile, senza sfociare in esagerazioni atte ad impressionare il videoplayer - che oramai non funzionano più. Ancora una volta dunque la componente "orrorifica" scorre sottile ed apparentemente celata, pronta ad attanagliare la psiche soprattutto per mezzo di scelte registiche all'avanguardia. La sfilza di delinquenti squilibrati che ci si troverà ad affrontare nel corso dell'avventura porta con se tutta una serie di situazioni debilitanti, che diverranno vero manifesto dell'avventura e del suo sequel. Ombre che scivolano da una parte all'altra di palazzi disabitati senza mai farsi avanti, urla tremende nell'oscurità e psicopatici imbottiti di sostanza psicotrope che spuntano da un angolo sono il vero motore di Condemned.
    Un motore che quando ingrana funziona a meraviglia e regala al videoplayer emozioni uniche. Il problema vero è che ci sono troppe falle in Condemned ed il titolo viene dunque presto bollato come "mediocre" e lasciato nel dimenticatoio. La stessa fine che tre anni più tardi farà il suo seguito, Condamned 2: Bloodshot. Un vero peccato (bis) perché anche in questo caso la componente psicologica è magistralmente architettata, nonché affiancata dal progressivo deterioramento caratteriale del protagonista stesso, in un'incontrollabile spirale di violenza che in un certo qual modo influenzerà l'evoluzione futura del genere horror psicologico.

    E' infatti tra Condemned e Condemned 2 che viene annunciata una delle più controverse produzioni targate Xbox 360: Alan Wake. Presentato per la prima volta all'E3 del 2006, il titolo Remedy Studios promette un'esperienza a metà tra survival e psychological horror, di quelle che dovrebbe ridare vita ad un genere in declino. Il progetto si concretizza in realtà solo nel 2010, dopo numerosi tagli e diversi rimaneggiamenti. Ciononostante si tratta di uno degli ultimi esempi di "horror game" puro (se così possiamo dire) che supera le ferree regole della grande distribuzione, arrivando però sul mercato senza ottenere i risultati sperati e non ripagando pienamente il grosso investimento di Microsoft. A livello ludico si tratta dell'ennesimo esempio d'evoluzione dei canoni presentatisi nelle generazioni precedenti ed ora spinti soprattutto dalla componente psicologica. Alan è uno scrittore in blocco totale che si ritira in un'isolata baita montana con la dolce metà. Strani eventi prendono però piede: le ombre si animano ed i tetri racconti dello scrittore, tra poltergeist ed allucinazioni, iniziano a prender vita, scombinandone l'equilibrio mentale. L'ennesimo omaggio "velato" a Shining che, per quanto significativo, non si dimostrerà efficace fino in fondo.

    Un passo indietro, a questo punto, è doveroso. Indietro, in realtà, per modo di dire, dato che quello che rappresenta il vero punto di rottura è un prodotto pensato -se non in contemporanea- dopo Alan Wake, e dal quale il titolo Remedy non può certamente essersi ispirato, appartenendo per giunta ad una branchia leggermente differente dell'horror gaming. Stiamo ovviamente parlando di Dead Space, che nella nostra particolare visione rappresenta l'ultimo vero Survival Horror dei nostri tempi. Visceral Games nella sua opera prima riesce a condensare, proprio come Eternal Darkness prima di lui, tutti gli elementi dell'horror classico e moderno. In Dead Space abbiamo il protagonista isolato (o quasi) in un ambiente ostile, abbiamo la minaccia disgustosa dei necromorfi ed il gore generato dai loro massacri; ed abbiamo anche i fattori debilitanti per la psiche dell'eroe e del videogiocatore. Questi sono rappresentati non solo dalle scelte registiche e dai vari momenti "d'impatto" dell'avventura ma anche da un costante declino (che esplode poi nel secondo capitolo) della sanità mentale di Isaac. Un Survival di stampo moderno, capace di bilanciare tantissimi aspetti in maniera estremamente funzionale. E' auspicabile razionalizzare le munzioni e gestire oculatamente il proprio inventario; è necessario colpire i nemici nei punti giusti per evitare il loro incessante e minaccioso avanzare verso di noi (una componente ansiogena da non sottovalutare); ed è caldamente consigliato infine esplorare l'ambientazione. Ogni scorcio ed ogni dettaglio sembra appositamente costruito per mettere in crisi le certezze del giocatore, sempre sul filo del rasoio e coi nervi a fior di pelle, tanto che Visceral stessa ammette di aver ricevuto svariate lamentele di chi non riusciva a terminare l'avventura per il troppo stress.
    Un centro pressoché perfetto dunque. Invece no, perché Dead Space non alimenterà il volume d'affari sperato, costringendo Electronic Arts e Visceral Games a ripensare e ricalibrare la struttura per i futuri sequel, approntando un prodotto sempre più dimanico e vicino ad un third person shooter, come abbiamo visto nel nostro più recente hands on dell'imminente terzo capitolo. Ma non è tanto questo che ci interessa ora, o se Visceral è riuscita a mantenere comunque coinvolgenti le atmosfere come nella seconda iterazione della serie: tutto questo verrà valutato in fase di recensione (nei primi giorni di Febbraio sulle nostre pagine). A noi interessa Dead Space come esempio di una generazione giocoforza schiava delle leggi di mercato: un publisher che investe una grossa quantità di denaro in un prodotto, ha la necessità di coprire le spese e guadagnare. E' semplice! Tanto semplice da portare quasi alla scomparsa dei survival horror, e più in generale di tutti quei generi "meno massificati".

    ...and Now?

    Tra un Resident Evil 5 (o 6) ed un Operation Raccoon City siamo dunque destinati a veder morire definitivamente uno dei nostri generi preferiti? In realtà no. Se da una parte la grande distribuzione è costretta ad accontentare le masse e piegarsi alle leggi di mercato, grazie all'evolversi dei mezzi di distribuzione e produzione, l'appassionato è riuscito a trovare sempre maggior spazio per la sua piccola nicchia. E stiamo parlando tanto di videogiocatori quanto di sviluppatori, che hanno imparato che l'investimento mirato, oggi, è più funzionale della ricerca del classico prodotto tripla A universale.
    Guardiamo ad esempio ad Amnesia: The Dark Descent, titolo Frictional Games del 2010 partito come lavoro indipendente ed in procinto di ricevere un sequel. Un'avventura in prima persona dove al protagonista non è consigliato entrare in contatto con le entità a lui avverse, da evitare addirittura d'incrociare con lo sguardo per non vedere schizzare alle stelle l'indicatore della Sanità Mentale. Un videogame che basta tutta la sua fortuna sull'aspetto sensoriale, sviluppato in maniera fantastica. Vi ritroverete quindi a poggiare leggere le dita sulla tastiera, tentando di fare meno rumore possibile per riuscire ad ascoltare, magari alzando il volume al massimo, il passare della creatura che non potrete permettervi di guardare. Un vero e proprio supplizio, da un certo punto di vista, considerando la natura curiosa dell'animo umano unita agli innumerevoli pericoli celati da Amnesia.
    Non è da meno Lone Survivor, altra produzione indipendente (questa volta del 2012) che incentra tutto sull'esplorazione attenta di zone buie, dotando il giocatore di una torcia con batterie dalla durata molto bassa, da centellinare come fossero razioni.

    Non a caso abbiamo scelto questo tra i titoli da trattare. Si tratta infatti di esponenti di quello che sta nascendo e si sta sviluppando (da qualche anno) come un "nuovo genere" horror, molto di nicchia ma anche estremamente coinvolgente poiché diverso dalla massa. E' il Survival Game, ben diverso dal Survival Horror da cui prende chiaramente spunto e del quale è a nostro modo di vedere la moderna evoluzione. Col cinema a spiattellarci per anni creature mostruose, abomini, creature aliene mangiauomini e chi più ne ha più ne metta, oramai siamo giunti a saturazione, e la paura della mostruosità è difficilmente stimolabile. Il problema si può risolvere come ha egregiamente tentato di fare -tra gli altri- I Am Alive, distribuito anch'esso a basso costo (e costato a sua volta poco). Si tratta soprattutto di un cambio nel fuocus, nell'obiettivo verso il quale rivolgere le proprie ansie ed i propri timori. Tanto per cominciare questo genere di titoli presenta di solito un'ambientazione devastata (uragani, terremoti, epidemie virali, catastrofi nucleari, apocalissi climatiche...) nella quale la società si è smarrita completamente ed è ora affidata alla legge del più forte. Un contesto dove il saccheggio è la norma e nel quale sono i generi di prima necessità a sostituire le munizioni e i kit medici necessari alla sopravvivenza nei più classici horror game. Qui il più grande e temibile nemico è lo stesso essere umano, votato esclusivamente a sopravvivere ed a proteggere il branco, irrazionale ed impulsivo: in altre parole preda e cacciatore. Non più mostri deformi, potenti ma lenti e per nulla in grado di ragionare; qui si tratta di nostri pari in grado di pensare ed agire alla nostra stessa maniera. Un'evoluzione che, ne siamo certi, potrebbe caratterizzare un nuovo trend di produzioni ed innestare una verve creativa fresca nelle menti di sviluppatori più o meno conosciuti. Diversi esempi e declinazioni sono sotto gli occhi di tutti (in parte anche The Walking Dead ne è un esempio), ed ognuno è caratterizzato dall'elevato tasso di coinvolgimento prodotto e da un lascito in termini emozionali fuori dal comune.
    Non disperate dunque, perché l'horror (in tutte quelle che abbiamo visto essere le sue declinazioni) non è affatto morto come vogliono farvi credere!

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