Speciale I quadri di sangue e carne di Suda 51 - Parte Seconda

Un viaggio attraverso le opere di Goichi Suda. Parte prima: passato prossimo.

Speciale I quadri di sangue e carne di Suda 51 - Parte Seconda
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Le cavallette vivono in tutto il mondo, finché i prati continueranno ad esistere”, mi disse Goichi Suda quando gli chiesi di spiegarmi come mai avesse chiamato il suo studio con il nome di quell’insetto. “Quando ho iniziato a lavorare al mio primo titolo, un gioco di wrestling, la vita era dura: faticavo quasi tutto il giorno e prendevo il primo treno la mattina presto e l’ultimo di notte. Durante l’unica breve pausa in ufficio ero solito fare un pisolino, ascoltando della musica con gli auricolari. Sentivo spesso una canzone intitolata Grasshopper. Il nome del mio studio mi serve quindi per ricordare le mie origini, il mio inizio e rammentarmi com’era allora il mio spirito”.
Confesso di non avere capito di che canzone si tratti ma sono quasi certo, conoscendo la cultura e l’amore di Suda 51 per il rock and roll, che possa essere “Grasshopper” di Sam The Sham and The Pharhos, band americana degli anni ’60. O forse lo spero e voglio continuare ad illudermi che lo sia, perché è un pezzo davvero accattivante.
Mi piacerebbe incontrare di nuovo Suda 51 per risolvere questo mistero che neanche spulciando centinaia di articoli utilizzando una connessione ballerina mentre la gente va in spiaggia perché c’è di nuovo il sole sono riuscito a dissipare. Chissà, magari qualcuno di voi lo sa.
Una cosa è certa: lo spirito a cui fa riferimento l’autore giapponese non è mai mancato nelle sue opere e vi permane, talvolta mutando colore o timbri, rendendole riconoscibili e amabili nella loro unicità. Uno spirito, o meglio un arci-fantasma, che illumina delle sue tinte spettrali anche i lavori meno riusciti del maestro di Killer 7, trasformando videogiochi sul baratro della mediocrità in opere che -se non soddisfano le dita del giocatore iper-critico né lo sguardo esigente del tecnologo- fanno innamorare invece chi si lascia incantare, ebbro di immagini come di una bottiglia di buon vino, dalla bellezza effimera e straziante dell’arte di Suda 51. La beltà di una farfalla che muore dopo avere volato al sole di luglio, dissipando la sua breve vita nel lungo sogno di un giorno.
E, per restare nel regno degli insetti, nello spirito di Suda 51 che trascorre da un videogame all’altro, persino in quelle ridotte meraviglie in cui l’autore è solo marginalmente coinvolto (Black Knight Story, Sine Mora), sono conservati il ricordo del lavorio magnifico di un ape e l’operosità operaia di una formica.

SHADOWS OF THE DAMNED

Uno dei videogame che ho più atteso e infine più amato durante la trascorsa generazione di console. La dimensione grottesca e esasperata, la volgarità ammiccante di simbologie falliche che rimandano a una fase pre-adolescenziale dell’humour sul pene e il flusso abbondante di fiumi di sangue e liquidi orrendi non nega il racconto di una storia d’amore maledetta quanto tenera. Il volto di Garcia Hotspur, il protagonista, mi ricorda quello di Claude Akins, attore grandissimo e quasi dimenticato, ma in versione tossica e punk. E’ un viso molto distante dall’iconografia dei personaggi virili nei videogame e risulta vero e antico, proveniente da un altro immaginario.
Poi c’è Paula, l’amata di Garcia, che si muove languida per gli scenari infernali con il suo bianco completo intimo, trasformandosi da vittima in demone dalla sensualità e malvagità impareggiabili, poiché esaltati dal candore del suo sembiante. Tutto è mostruoso, in Shadow of The Damned, non c’è paura ma ribrezzo, tuttavia, quando compare Paula nella sua accecante lingerie, persino quando è posseduta dal demonio o martirizzata, si intuisce un’aura di tremore erotico e mistico che è quello che emana dalle donne dipinte da Gustave Moreau.
Un seguito è un sogno proibito e impossibile. Non credo che Electronic Arts, improbabile publisher del videogame, sia stata soddisfatta dei risultati ottenuti dal dream team composto da Suda 51, Shinji Mikami, Akira Yamaoka e Massimo Guarini.

LOLLIPOP CHAINSAW

Il titolo è uno dei migliori mai inventati per un videogioco. Pura poesia degli ossimori. La morbidezza zuccherosa, appiccicosa e stucchevole di un lecca-lecca con la tagliente, metallica e assordante qualità meccanica di una motosega. La mia può essere un’affermazione azzardata ma la sceneggiatura di Lollipop Chainsaw è un capolavoro di scrittura che trova il suo apice comico con i dialoghi incessanti tra la bellissima diciottenne Juliet e la testa parlante del fidanzato Nick appeso alla sua cinta. E’ questa ricchezza di composizione letteraria che nobilita alcune meccaniche ludiche che talvolta risultano un po’ insulse. La tempesta di parole distrae dall’azione e nello stesso tempo la redime quando questa diventa troppo ripetitiva andando a comporre, insieme alla musica e ai suoni di AkiraYamaoka, una travolgente ballata rock che possiede il fascino macabro, femminile e sensuale delle canzoni suonate dagli Horror Pops.
Delirante e carismatico è il cast demoniaco che incarna stili differenti di musiche che influenzano anche gli scenari, non mi dimenticherò mai delle fattorie infestate da contadini e galline-zombie dominate da Mariska, regina infernale della psichedelia con i suoi panni da hippy. Del metallaro Vikke armato come un vichingo estrapolato da una copertina dei Saxon. Di Zed, macilento punk in stile Misfits doppiato da Jimmy Urine o di Killabilly, lo zombie degli zombie.
Favolosi pure i “buoni” rappresentati dalla folle e surreale famiglia di Juliet e da Morikawa, cuoco giapponese e mentore ammazza morti viventi.
Chiunque provi a sbirciare sotto la gonnella di Juliet producendosi in inquadrature audaci viene premiato dal pudico gesto della ragazza spiata, che cala la candida manina per coprirsi dallo sguardo del giocatore guardone. Pura grazia.
Un gioco veloce, corretto, generoso e godibile come una “eiaculatio precox” quando si ha fretta.

KILLER IS DEAD

Un’altra gemma imperfetta, ma sempre una gemma. Caleidoscopio di immagini che talvolta sono così caotiche da divenire astrazione, Killer is Dead è il trionfo del taglio e delle ferite traumatiche che diventano produzione di visione scarlatta e stupefacente. Sebbene l’abbia giocato poco meno di anno fa trovo difficile ricordarmi la trama, davvero contorta e squisitamente insensata. Ma non mi dimentico dei panorami e dei loro colori perché ognuno di essi, dai vicoli piovosi di una tetra metropoli a case-labirinto, da una giardino giapponese a un lago onirico, da lande lunari a un treno in corsa tra ghiacci e rocce, possiede uno stile grafico che è pittura elettronica sublime. Mi ricordo anche dei momenti di seduzioni, sinistramente eleganti e comici, con donne dalla sensualità iperbolica. A proposito Suda 51 mi disse che “durante il videogame il giocatore è costretto, attraverso il protagonista Mondo, a vivere momenti molto intensi e violenti, così abbiamo voluto che ci fossero delle pause più ovattate e rilassanti in cui il gioco fosse quello della seduzione e non dell’assassinio.
Un cosa gentile, no?
Mi venne da chiedergli se c’è del maschilismo in questi momenti di Killer is Dead e se il gioco può essere apprezzato da un pubblico femminile e lui rispose che “Quando giocherete vi renderete conto che le donne della modalità Gigolò non sono vuote e superficiali bambole ma hanno una loro spiccata personalità e un carattere molto forte, così come la loro volontà. Sebbene queste missioni amorose siano secondarie rispetto alla storia principale penso che funzionino molto bene, ci rivelano davvero chi è Mondo, svelandoci i suoi sentimenti e le sue pulsioni. Il giocatore inoltre deve sapere comunicare con le donne del gioco con cortesia e savoir-faire, deve imparare a conoscerle. Quando Mondo fa un regalo all’amata egli si inginocchia e credo che sia un gesto nobile anche se desueto, un atteggiamento cavalleresco che a molte donne piacerebbe!
Ha ragione Suda 51, Mondo è un seduttore assai più gentile e meno fisico di un James Bond e le sue donne sono terrificanti e divine donne fatali che mi fanno cantare con Fat Mike dei Nofx: “I don’t believe in God, I believe in Goddes!