Kingdom Hearts: Una Sublime Confusione

In occasione del "secondo mix", torniamo a sondare il peso e le emozioni di una saga storica

Kingdom Hearts: Una Sublime Confusione
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  • PS3
  • Un tempo pensai che Kingdom Hearts fosse una superflua operazione commerciale dalla sciocchezza disarmante, addirittura offensiva per me e tutti coloro che amavano l'opera di Squaresoft.
    Erano i tempi dell'annuncio, quando sulle riviste specializzate furono pubblicate le prime immagini di Sora con quelle enormi scarpe giallognole e una spada improbabile a forma di chiave.
    Il protagonista mi apparve troppo giovane, pacchiano, e l'idea di un'avventura d'azione ambientata tra gli scenari dei più celebri lungometraggi disneyani mi sembrò un'ammissione di sconfitta creativa da parte degli autori di tanti capolavori. Inoltre alcuni leggendari personaggi delle Fantasie Finali sarebbero comparsi durante il videogame, e ritenni che il loro carisma sarebbe stato necessariamente diluito nella tazza di latte parzialmente scremato di un'ingenua e infantile mediocrità.
    Quel senso di appassionata anticipazione che viene definito "hype" era poco sopra lo zero, in una mia personale scala del desiderio videoludico, e per l'imminente Kingdom Hearts provai quindi lo stesso vago e indolente interesse che mi anima quando sto per scoprire quale sia la sorpresa contenuta in un ovetto di cioccolata.
    Sapevo già, ne ero certo, che sarebbe stato un gioco insulso.
    Eppure lo comprai subito, sedotto infine dal disegno sulla copertina e troppo innamorato di Squaresoft per poterlo ignorare. Ricordo che mi pentii subito dopo avere pagato e mi portai la mia copia a casa recriminando contro la pochezza della mia volontà, pensando per consolarmi che avrei potuto riutilizzare Kingdom Hearts come regalo per il prossimo natale ad un nipote di sette anni.
    Tuttavia iniziai a ricredermi subito dopo avere inserito il disco nella console, dapprima annoiato poi attratto dalle note liquide del preludio musicale di Yoko Shimomura che risuonava nella schermata del menù con gli accenti malinconici di una misurata, dolce tristezza. Restai ad ascoltare quei suoni e poi, automaticamente, iniziò un trailer la cui epica e grave potenza mi meravigliò.
    Iniziai a giocare e per qualche giorno non feci altro, annegato felicemente nell'oceano pluridimensionale di una favolosa fusione di sogni.
    Ora mentre rivivo il secondo episodio, nella lucente riedizione per Playstation 3, sono convinto che Kingdom Hearts sia un'invenzione straordinaria che non solo possiede la stessa profondità lirica, ludica e tragica dei migliori Final Fantasy, ma che ha fornito una nuova linfa vitale ai personaggi, ai luoghi e alle storie di Walt Disney, riuscendo a trasformare anche le opere meno ispirate e più fasulle, come Tarzan, in esperienze fantastiche. Chissà quindi che grazie alla contemporanea egemonia di Disney nel terzo episodio di Kingdom Hearts non vedremo audaci rielaborazioni nipponiche degli eroi Marvel e soprattutto di Star Wars. Una keyblade-laser avrebbe un impatto visivo devastante, in una serie dove i vettori dalla lama-chiave compongono impressionanti architetture luminose, geometriche e cromatiche.
    Attraverso la rilettura di Nomura e Nojima rifiorisce quel miracolo originale dei grandi classici disneyani, una magia che non è l'illusionismo del periodo che fu di Eisner, ma un vero incanto che rianima antichi immaginari universali, esaltandone la dimensione storica, narrativa e artistica mentre la rilancia nel futuro.
    Nel momento in cui Sora, Pippo e Paperino uniscono le loro mani in segno di amicizia osserviamo un prodigio che cancella tempo e spazio con la potenza di un big bang, così universi che apparvero inconciliabili e distanti si sovrappongono in una sublime confusione che ancora oggi favorisce l'incedere di una storia ermetica e sempre più nebulosa, perché lascia spazio agli interrogativi di chi la vive e alle sue speculazioni.
    Kingdom Hearts suggerisce impressioni, scatena deliranti ipotesi, scardina la certezza che ci sia un confine tra ciò che è reale o solo immaginato. Nella chimerica fusione tra panorami, racconti, tempi e toni la trama che dovrebbe unire tutti gli episodi si sfilaccia e si perde nello spazio dell'ignoto e del dubbio restando mitica, celata dietro una porta chiusa di cui solo una spada-chiave definitiva potrà infine aprire la serratura.

    GLI OCCHI DI TETSUYA NOMURA

    Il giocatore si perde nelle trame del Reame dei Cuori con la stessa lucida follia con cui ci si può smarrire in alcune paradossali e logicamente caotiche invenzioni di P.K. Dick, come nello straordinario episodio iniziale di Kingdom Hearts 2, simulazione dentro una simulazione durante la quale Roxas si scolla progressivamente e tragicamente dalla "realtà" della propria esistenza.
    L'attimo durante il quale Sora piange senza sapere il motivo di quell'improvvisa lacrima, mentre saluta i fittizi amici immemori di Roxas a cui si è sostituito, proprio prima di prendere quel treno su cui questi non hanno mai potuto salire, è struggente e straniante. Si tratta dell'apice lirico di una lunga introduzione scandita senza pietà attraverso la progressione giornaliera e calcolata dell'ultima estiva settimana festiva di alcuni ragazzi che non sono mai davvero esistiti.
    Un segmento che condiziona tutto lo svolgimento del videogioco, vestendo di una malinconia disperata anche gli attimi più comici e leggeri.
    Poi basta fissare Roxas, Sora, Kairi o Pippo negli occhi: sono gli occhi "dipinti" da Testuya Nomura e hanno lo stesso potere ipnotico, convincente e benignamente ingannevole di quelli di Cloud in Advent Children, di quelli solo intravisibili di Vivi in FFIX, di quelli presaghi di Yuna o di Lightning e Sera.
    C'è l'ombra di un disagio cosmico negli occhi elettronici dei personaggi di Kingdom Hearts, il barlume di una quasi-consapevolezza si scorge nelle loro grandi iridi, tra le cui schegge di colore si agita il fantasma della coscienza di essere solo simulacri numerici. C'è la stessa (in)consapevolezza spettrale e straziante che brilla sulle sfere di vetro poste nelle orbite morte di un animale impagliato, il cui cadavere è stato imbalsamato per illuderci di essere ancora vivo e tenta di levare le ali in un volo che non lo innalzerà mai, o di aprire le fauci in un ruggito che sarà sempre silente.
    Grazie al talento visionario di Nomura l'illusione di una coscienza dietro i pixel è ancora più violenta, la stessa vitalità che colora e anima lo sguardo fisso di una donna dipinta da Leonardo. Tuttavia se la Gioconda ci osserva divertendosi eternamente della nostra immaginazione, non c'è ironia ma una triste sofferenza negli occhi disegnati da Nomura, quella dell'essere che sa di non essere.
    O almeno così mi immagino che sia, e Michael Ende, se non mi ha preso in giro con la sua Storia Infinita o io l'ho del tutto travisato, forse mi potrebbe dare ragione.
    Nella sua abbagliante e iconoclasta bellezza Kingdom Hearts provoca il sorgere di fantasie finali e definitive in chi lo gioca, suggestioni più o meno profonde che germinano nell'inconscio e si radicano dentro sogni radicali. Non è solo un videogioco ma la summa interattiva di una galassia di idee che unisce l'occidente e l'oriente in un'orgiastica, magnifica e allucinante festa a cui partecipiamo, soli nella gradita intimità dell'offline, ebbri di gelati al gusto di mare e mai sazi della fonte dialettica che sgorga dalle parole, dai sentimenti e dalle azioni di tante indimenticabili non-persone che ci chiedono una sola cosa: giocate affinché noi viviamo.

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