Speciale Metro Redux

La letteratura interattiva di Metro

Speciale Metro Redux
Articolo a cura di
Disponibile per
  • Pc
  • PS4
  • Xbox One
  • Switch
  • Ho creato così tante storie per questi personaggi che non ci stanno nemmeno tutte nel gioco. La mia idea personale è che se devi convincere qualcuno che il mondo in cui gioca sia vero allora non si devono trattare questi personaggi solo come modelli in 3d o involucri di nulla dall’aspetto di uomini e donne. Bisogna trasformarli in esseri umani e così gli ho dato speranze, paure, nostalgia, odio e amore. Ho dato loro delle storie, affinché ci si possa dimenticare che non sono veri.
    Così parlò Dmitry Glukhovsky, quando gli chiesi se non pensasse che una delle cose più interessanti per uno scrittore che sta sceneggiando un videogioco fosse quella di scrivere le parole pronunciate dai personaggi secondari. Lo intervistai a Milano per un quotidiano, in occasione del lancio di Metro Last Light, una delle tante ultime, splendenti, luci apocalittiche che hanno arso durante il crepuscolo della trascorsa generazione di console.

    LE STORIE SONO VITA

    Ritengo la risposta del giornalista e scrittore russo illuminante ed è la stessa che avrei voluto sentire anni addietro da Katsushige Nojima, quando lo incontrai a Venezia dopo la proiezione di Final Fantasy Advent Children.
    Tuttavia Nojima, che è un grande autore di soggetti e dialoghi tra i personaggi principali, disse che la maggior parte delle brevi frasi pronunciate dagli NPC nei videogame che ha sceneggiato sono scritte da collaboratori.
    Ecco perché in molti giochi di ruolo giapponesi (Nojima ha scritto la sceneggiatura di capolavori come FFVII, VIII, Kingdom Hearts e altri) i personaggi secondari che appaiono nelle città che esploriamo sembrano quasi sempre “scollati” e senza carattere, simulacri solo funzionali al gameplay, schiavi della storia principale, fantasmi senza memoria e vittime di un relativamente eterno loop che li costringe alla ripetizione sfiancata di tre o quattro frasi utili al giocatore per capire quale sarà il suo prossimo obbiettivo.
    Ma Dmitry Glukhovsky non è solo un abile sceneggiatore, è soprattutto un romanziere e la cifra della sua statura letteraria è percepibile durante tutto lo svolgimento dei due Metro, che sto rigiocando nell’appena uscita e davvero pregevole edizione Redux.
    Anzi il primo episodio lo sto vivendo per la prima volta, perché sebbene avessi letto il libro e possedessi la versione per XBox 360 non sono mai riuscito a portarlo a termine per alcuni difetti che all’epoca trovai insopportabili malgrado il fascino dell’ambientazione e della storia.
    Ogni locale fetido e corridoio fatiscente delle stazioni occupate della metropolitana di Mosca
    palpita di una vita plausibile e quando passiamo davanti alle “persone” disperate che abitano questi oscuri luoghi sotterranei assistiamo al racconto della loro esistenza tramite la messa in scena di micro-storie dalla cifra narrativa di novelle che vale sempre la pena ascoltare. Per questo Metro 2033 e il suo seguito non vanno giocati con frenesia, come se fossero degli sparatutto convenzionali, ma vanno esplorati e vissuti da dentro, o meglio vanno abitati.
    Non ascoltare le parole dei sopravvissuti e assistere alla loro rappresentazione, che è recita di una testimonianza e struggente volontà di essere, significa vivere un’esperienza di gioco drasticamente ridotta nella sua grandezza o come “leggere un romanzo saltandone le pagine per arrivare al finale”.
    La lentezza, quella a passo d’uomo, è la chiave per godere appieno di questi “cupi scrigni di prodigi” che sono la negazione dello sparatutto anche se possono diventarlo, se si corre come forsennati da un obiettivo all’altro, senza pensare, senza esistere, senza percepire quella potente e drammatica illusione di vitalità e mortalità che trascorre attorno a chi gioca. E senza leggere, perché i documenti che si trovano sparsi nel mondo di gioco possiedono un loro sintetico fascino narrativo.
    Quindi se in principio era il Verbo, Metro dimostra che è il Verbo anche alla fine.

    LA MORTE CHE VUOLE VIVERE

    E’ merito invece di 4A, software house ucraina di Kiev che all’inizio del 2014, forse a causa della guerra, si è stabilita a Malta, se anche gli scenari più vuoti e desolati di Metro raccontano una loro storia. Persino nel tunnel più radioattivo, grazie alla sinfonia descrittiva dei dettagli, cogliamo un passato orribile da cui l’esistenza, sia essa quella della mutazione più orribile o del ragno più appiccicoso, vuole redimersi per ritornare a vivere.
    Persino i cadaveri talvolta si esprimono, diventando fantasmi e trasformandosi in motori di allucinazioni che rimandano ai tempi precedenti la loro estinzione.
    Nello stesso modo i luoghi terribilmente desolati di Mosca, diventata rudere ghiacciato, si animano per qualche istante nella mente di Artyom, facendoci percepire quello che erano quando il colore e il calore dell’esistenza non era ancora stato sottratto dalla guerra nucleare.
    Siamo agli antipodi di un gioco immenso come Dark Souls: nell’opera d’arte sull’Omega di From Software e nel suo seguito l’unico anelito che si respira in un mondo già morto è quello alla Seconda Morte, la dannazione definitiva, mentre in Metro ogni cosa, mutazione o persona, sebbene sia sepolta nel veleno della radioattività, vuole sopravvivere o ribadire la sua perduta esistenza.
    Il peccato assoluto di cui si è macchiato l’universo dei “Souls” potrebbe essere paragonabile a quello che ha distrutto la Terra in Metro; non importa se siano stati draghi impazziti, giganti, re folli o bombe nucleari e belligeranti governi scellerati: il risultato è lo stesso. Ma nel mondo post-apocalittico di Glukhovsky brilla una luce catartica, la stessa che luccica negli occhi di Raskol’nikov, o che credo di vedervi scintillare, nel finale di Delitto e Castigo.

    Era inevitabile arrivare a Fëdor Dostoevskij, perché la grande letteratura russa del diciannovesimo secolo ha un peso ancora oggi su chi scrive in quella che è stata la lingua di Tolstoj e Gogol’.
    Sebbene Glukhovsky mi abbia detto che: “la cosa curiosa è che io non ritengo di appartenere alla scuola classica della letteratura russa. Inoltre anche se esiste una fantascienza russa mi sento un po’ estraneo ad essa. Gli scrittori che più mi hanno ispirato e influenzato sono occidentali. Qualcuno è latino-americano. Come Borges o Marquez. Poi ci sono i tedeschi come Remarque. E Kafka”, alla fine concluse così: “La gente che legge i miei libri afferma di percepirvi un sentore “russo”. D’altronde ho studiato in una scuola russa, con un programma dedicato alla letteratura russa: Tolstoj, Dostoevskij, Cechov; questi scrittori fanno parte della mia formazione e quindi sono imprescindibili. Ma la mia ambizione e creare qualcosa di nuovo, che sia d’ispirazione per nuovi scrittori. Questa è la vera sfida”.
    Una sfida che Dmitry Glukhovsky sta vincendo?
    Che sia nei reami cartacei dei suoi libri o in quelli virtuali dei videogiochi, credo di sì.

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