Recensione 1954: Alcatraz

L'ultima fatica di Daedalic Entertainment ci racconta una San Francisco dalle tinte noir.

Recensione 1954: Alcatraz
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  • In appena più d'un lustro, i Daedalic Entertainment sono riusciti ad affermarsi all'attenzione degli appassionati d'avventure grafiche come una delle pochissime software house capaci di rievocare i fasti dell'epoca d'oro di questa antica categoria ludica. Partendo dalle malinconiche atmosfere vagamente esistenziali di The Whispered World, con un approccio eclettico, passando dall'universo fantasy di "The Dark Eye" alla commedia di Deponia, dall'ambientalismo di A New Beginning all'umorismo "nero" e grottesco di Edna & Harvey, la software house tedesca si è guadagnata l'ammirazione di quei nostalgici che sperano ancora in un ritorno, in grande spolvero, del genere divenuto celebre grazie agli inarrivabili classici Lucasarts e Sierra. Perseguendo una strada diametralmente opposta a quella ormai definitivamente intrapresa dai Telltale, i Daedalic hanno sempre rinunciato ad ogni pretesa d'innovare uno dei generi più conservativi del medium videoludico, dimostrandosi, al contempo, uno dei pochi sviluppatori ancora capaci di costruire avventure dall'ampio respiro narrativo. 1954: Alcatraz rappresenta, a tal proposito, un tentativo di sovvertire, almeno in parte, alcuni dei canoni via via consolidatisi attraverso un'ormai cospicua produzione. L'ambientazione (la San Francisco degli anni cinquanta) e le atmosfere vagamente noir dimostrano la volontà di esplorare nuove possibilità narrative attraverso un approccio più maturo al racconto. Le novità introdotte dagli sviluppatori non si limitano però all'inconsueto setting (inusuale soprattutto per i Daedalic che solo di rado hanno osato avventurarsi in contesti "realistici") ma coinvolgono, almeno nelle intenzioni, le meccaniche di gioco, proponendo finali alternativi e molteplici possibilità di risolvere gli enigmi. Beninteso: nulla che non si sia già visto persino in avventure punta e clicca dall'impostazione "classica" come Primordia, ma che lasciano intravedere, per la casa di sviluppo teutonica, la volontà di rinnovare una formula rimasta fossilizzata ai tempi del primo Broken Sword.

    La libertà dell'arte e le catene di Alcatraz

    Attraverso sintetiche vignette dai tratti appena abbozzati, accompagnate dal prezioso commento sonoro di Pedro Macedo Camacho, l'introduzione ci racconta di una rapina andata male, di un'automobile che sbanda inseguita dalla polizia e delle banconote rubate bruciate nel rogo dei veicoli in fiamme. I malviventi riescono a fuggire e chi pagherà per tutti sarà soltanto Joe, un pianista di colore che aveva preso parte al colpo come pilota dell'auto in fuga. La polizia irromperà nell'appartamento del protagonista, trascinandolo fuori sotto gli occhi della moglie Christine. Un tribunale lo giudicherà colpevole e dopo ripetuti tentativi d'evasione dalla prigione di Leavenworth verrà rinchiuso nel famigerato carcere di Alcatraz, da dove, si sa, solo Clint Eastwood è riuscito a fuggire (sì è vero, anche Sean Connery, ma quel film sarebbe meglio dimenticarlo, non trovate?).
    L'approccio narrativo scelto dal game designer Gene Mocsy (il cui nome è noto soprattutto per aver collaborato ad alcune avventure di Bill Tiller come A Vampyre Story e Ghost Pirates of Vooju Island) non mira, come si potrebbe pensare, a rappresentare (soltanto) un dramma carcerario quanto piuttosto a raccontare la storia d'una coppia, ovvero di Jim e Christine, del loro matrimonio, dei malintesi che inevitabilmente si accumulano negli anni e del sogno di fuggire per cominciare una nuova vita, in un luogo lontano e mai visitato: il Messico o le Hawaii. In relazione al gameplay, ciò si traduce nella possibilità di switchare, da un protagonista all'altro, attraverso i due piani del racconto che si sviluppano paralleli, incrociandosi solo sporadicamente. Purtroppo le due linee narrative attraverso cui si dipana l'intreccio, per qualità della scrittura e caratterizzazione dei personaggi, sono tutt'altro che omogenee, con la bilancia del valore narrativo decisamente inclinata a favore della storia di Christine. Merito senza dubbio dell'interessante descrizione degli ambienti attraverso i quali ci muoveremo indossando i panni della co-protagonista femminile.

    "I toni della rappresentazione sono decisamente "adulti", non mostrando alcuna timidezza nel mettere in scena temi importanti e difficili."

    I toni della rappresentazione sono decisamente "adulti", non mostrando alcuna timidezza nel mettere in scena temi come l'omosessualità e l'uso di stupefacenti senza incorrere in banalità o beceri moralismi. Rifuggendo dall'immaginario oleografico che, a proposito degli anni Cinquanta, ci hanno consegnato celebri serial televisivi ed i film con Doris Day, in 1954 Alcatraz non ci sono famiglie felici e sorridenti che paiono uscite da un patinato spot televisivo. Oltre quella degli "Happy Days" esisteva un'altra America, quella vitale e ribelle della "Beat Genaration" che, proprio in quegli anni (assai prima del '68) rompeva gli schemi del conformismo e della dominante cultura materialistica, sperimentando l'uso di allucinogeni e praticando una sessualità priva dei pregiudizi propri della società borghese. La stessa Christine partecipa attivamente alla scena "beat" come curatrice d'una rivista - stampata con mezzi casalinghi e semiclandestini - che raccoglie poesia e racconti di autori "di strada". Tra le vie ed i locali notturni della North Beach, quartiere di San Francisco frequentato da poeti come Allen Ginsberg e Lawrence Ferlinghetti, dovremo accompagnare la giovane donna nel suo proposito di recuperare il bottino che suo marito ha nascosto da qualche parte, costantemente pedinati dalla malavita locale. Faremo numerosissimi incontri con una variegata “fauna” notturna composta da un'affittacamere asiatica che stampa banconote false, poeti ubriachi ed uno scrittore che se ne sta rinchiuso in una camera battendo a macchina decine di caratteri al secondo su un unico lunghissimo rotolo con una sola mano, mentre con l'altra impugna una pistola che non esita ad usare.
    Christine è una giovane donna che ama l'arte. Intuiamo il suo passato turbolento e sappiamo del suo sogno di poter fuggire via e farsi una nuova vita, ma l'amore per il marito, nonostante più d'un ombra aleggi sul suo matrimonio, la tiene prigioniera di muri non meno spessi di quelli che rinchiudono Joe in una gabbia di tre metri per due. Probabilmente perché privo di quei margini d'ambiguità e quegli slanci libertari che caratterizzano la moglie, Joe è certamente un personaggio meno interessante rispetto a Christine. Il pianista finito ad Alcatraz, nonostante sia colpevole d'una rapina della quale la coniuge è stata tenuta completamente all'oscuro, non mostra alcun pentimento né senso di colpa per i guai che le sue azioni hanno procurato alla moglie (tenuta sotto scacco sia dalla mafia che dalla polizia a causa della refurtiva nascosta). Questa mancanza di conflittualità interiore lo fanno apparire un co-protagonista assai scialbo e caratterialmente piatto. La vicenda della sua fuga attraverso il carcere di massima sorveglianza si sviluppa in maniere poco avvincente, attraverso situazioni che sanno di già visto.

    Gli sviluppatori non sono riusciti a sfruttare a pieno il potenziale narrativo che poteva innescarsi nel contrasto tra la libertà sognata da Christine e quella, per Joe, fisicamente negata, sprecando persino la bella ed inconsueta ambientazione immersa nel fervore della vitale cultura "beat". Il plot si avvia così, senza nessuna sorpresa e privo d'un coinvolgente climax, verso un finale assai debole che vanifica le possibilità di creare un autentico noir a tinte fosche e dalle ambizioni "adulte". Altrettanto goffo è il game design del gioco, con enigmi che paiono improvvisati, incapaci di offrire una stimolante sfida. Il consueto tasso di difficoltà delle avventure Daedalic, solitamente impostato su un livello medio/alto, è qui talmente diluito che si fatica a ricondurre 1954 Alcatraz alla stessa software house che ha prodotto titoli dalla notevole complessità come The Night Of The Rabbit. Anche gli utenti meno esperti difficilmente faticheranno a raggiungere la soluzione dei puzzle proposti dal gioco; più della "facilità" (concetto, in verità, soggettivo ed estremamente variabile) è, però, la banalità della loro costruzione a lasciare indispettiti. Ciò nonostante il titolo offre una discreta longevità, garantendo una durata di circa 8 ore di gioco prima di giungere ai titoli di coda.

    "Gli sviluppatori non sono riusciti a sfruttare a pieno il potenziale narrativo che poteva innescarsi nel contrasto tra i due protagonisti."

    I finali multipli dovrebbero garantire un certo grado di rigiocabilità. Purtroppo si fa presto a capire che in 1954 Alcatraz non sono presenti dei veri e propri bivi narrativi alla maniera dei titoli Telltale, dunque i possibili epiloghi saranno per lo più determinati dalla semplice scelta delle battute durante il dialogo conclusivo. Le tanto sbandierate (nei comunicati stampa) possibilità di approcci alternativi alla risoluzione degli enigmi si riducono, a conti fatti, a rare e poco determinanti opzioni che avranno conseguenze decisamente trascurabili. La medesima valutazione si ripropone in merito a qualche puzzle "facoltativo" che modificherà in maniera solo marginale il proseguo dell'avventura.
    Le novità di gameplay offerte da 1954 Alcatraz sono dunque di scarsa portata e, le poche concretamente implementate, risultano trascurabili o non adeguatamente valorizzate.
    L'interfaccia è la medesima di gran parte dei titoli Daedalic: il tasto sinistro del mouse ci permetterà di interagire con gli oggetti, mentre con quello destro potremo osservare alcuni punti d'interesse. La pressione del pulsante "spazio", com'è ormai consuetudine nelle moderne avventure grafiche, ci verrà in aiuto per evidenziare tutti gli hotspot presenti nelle schermate.
    Durante l'esperienza di gioco non è raro imbattersi in alcuni fastidiosi bug, come il blocco improvviso dei personaggi che vi costringerà a ricaricare l'ultima partita salvata: nulla di eclatante ma un più attento lavoro di beta testing avrebbe facilmente ovviato a simili inconvenienti.

    Il fascinoso Jazz dei Daedalic

    La solita cura nella direzione artistica, con cui Daedalic ha sempre confezionato i suoi lavori, la ritroviamo in 1954 Alcatraz nei magnifici sfondi disegnati a mano. Benché il "realismo" della rappresentazione ponga il titolo lontano dalla visionarietà dei suggestivi mondi fiabeschi dei titoli d'ambientazione fantasy, le scenografie su cui si muovono i personaggi sono, in quest'ultima fatica della software house teutonica, ricchi di gustosi dettagli ed impreziositi da scelte cromatiche vibranti pur restando coerenti ad un contesto "noir". La scelta di optare per una rappresentazione tridimensionale dei personaggi ha generato, però, risultati assai inferiori alla tradizionale qualità Daedalic. I modelli poligonali, caricaturali, si integrano pregevolmente con lo stile cartoonesco degli sfondi bidimensionali ma lasciano trasparire un'imperdonabile trascuratezza nella resa dei volti e nella loro texturizzazione. Il character design manca d'incisività ed anche i protagonisti risultano scarsamente espressivi a causa di animazioni approssimative e maldestre.
    La colonna sonora, composta da splendidi brani Jazz e luminosi accompagnamenti orchestrali, rappresenta invece un aspetto d'assoluto valore mentre il doppiaggio, sebbene non raggiunga mai risultati particolarmente brillanti, si assesta su livelli generalmente buoni.

    1954: Alcatraz 1954: AlcatrazVersione Analizzata PC1954 Alcatraz rappresenta sostanzialmente un'occasione sprecata, da parte di Daedalic, di affrontare temi "adulti" con un approccio cosciente della maturità raggiunta dal mezzo videoludico. La qualità della scrittura, specie nei dialoghi, è decisamente buona; ciò nonostante gli autori non sono riusciti a valorizzare le interessanti premesse ed a sfruttare al meglio un'ambientazione suggestiva come quella della San Francisco durante gli anni in cui si afferma la cultura "beat". La banalità degli enigmi dimostra un'innegabile pigrizia in fase di progettazione ed i millantati approcci multipli ai puzzle o i finali alternativi hanno una ricaduta decisamente trascurabile nello sviluppo della vicenda. La direzione artistica (non priva di difetti) risolleva solo in parte le sorti di un titolo annoverabile tra le opere minori di una software house che speriamo possa presto trovare riscatto nel non troppo lontano The Whispered World 2.

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