Recensione Doorways: The Underworld

Un horror scialbo e insipido, pensato per sfruttare Oculus Rift

Recensione Doorways: The Underworld
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  • Il survival horror è un genere che si potrebbe definire “sopravvissuto”. Dopo i fasti iniziali, ha sperimentato una parabola discendente che ha colpito anche i più alti esponenti del terrore videoludico: i meccanismi della paura sono progressivamente cambiati e la tensione è stata sostituita dall'azione. Mentre si attendono con ansia le luci della ribalta dell’horror d’autore, grazie al ritorno di maestri come Mikami (con The Evil Within) e Kojima (quest’ultimo in collaborazione con Guillermo Del Toro, insieme al quale ha promesso faville per il prossimo Silent Hills), nuove frontiere di sperimentazione si aprono in seno al mercato indipendente e grazie alla realtà virtuale. Seguendo l’onda della novità, il team argentino Saibot Studio ha deciso di esordire nel panorama videoludico con la sua personale visione del genere survival, la saga di Doorways, avventura horror in prima persona approdata su Steam nel 2013 con i primi due capitoli, la cui feature più importante consiste nel supporto nativo all’Oculus Rift. Di seguito si prende in esame il terzo capitolo della serie, The Underworld, la cui versione finale è disponibile da poco tempo sullo store di Valve, che rappresenta la summa delle meccaniche di gioco e dell’esperienza maturate dagli sviluppatori, e che è in grado, da solo, di fornirci sufficienti elementi per valutare il concetto di orrore come concepito dai ragazzi di Saibot Studio.

    IO NON HO PAURA

    Il protagonista della saga di Doorways è Thomas Foster, detective dell’occulto con timbro vocale da vero duro, baritono e grottesco, e con abbastanza fegato da mettersi alle calcagna di pericolosi psicopatici assassini. Ma i luoghi in cui li insegue, dove l’onirico si confonde e si mescola col raccapricciante, sono reali oppure l'infelice e malato parto della sua mente? Che siano o meno prodotti della sua psicologia deviata, lungo l’avventura andremo a visitare, senza soluzione di continuità, lugubri miniere e putride fogne, fino ad un fatiscente ospedale, per scoprire il mistero che si cela dietro riprovevoli esperimenti condotti da una dottoressa di origini tedesche (ecco servito il topos del folle chirurgo di razza ariana) che ha trasformato degli innocenti pazienti in abomini indicibili. La storia prende il via al termine del precedente Chapter 2, con il nostro detective dinanzi ad un’inquietante caverna che rappresenta la porta d’ingresso per un nuovo girone infernale. Il continuum narrativo col secondo capitolo della saga non deve scoraggiare chi si approccia alla serie di Saibot Studio iniziando da The Underworld. Le vicende di Doorways si sviluppano, infatti, tramite episodi autoconclusivi, come in una sorta di serial videoludico in cui ad ogni nuova puntata vi è un nuovo incarico e un nuovo “villain” da catturare.
    Inoltre, il breve riassunto iniziale è sufficiente a farci familiarizzare con la personalità del protagonista e con i suoi dilemmi psicologici: è lui stesso, infatti, a farci sorgere il dubbio che tutte le vicende potrebbero essere frutto della sua immaginazione. Ma il tempo delle premesse e delle riflessioni dura pochi secondi, proprio quanto basta per farci comprendere con quanta superficialità venga trattata la componente narrativa. La storia si limita a essere raccontata attraverso rari documenti che possono essere scovato nelle zone da esplorare, per lo più un mero pretesto per mettere in scena e giustificare sommariamente la serie di orrori in cui ci imbatteremo.

    Pur presentandosi come un’avventura horror à la Amnesia, in cui l’unica soluzione difronte alla paura è scappare, The Underworld risulta però ben lontano dalle atmosfere agghiaccianti (e dalla qualità) del titolo di Frictional Games, e gioca con un tipo di terrore fin troppo elementare per suscitare anche un minimo brivido lungo la schiena. Se nei primi due capitoli era il buio l'elemento centrale e la principale causa di angoscia, qui è l’idea del labirinto a provocare un senso di ansia e smarrimento. Ma la sensazione dura un singulto, l’attimo di tensione che accompagna il momento in cui si guarda per la prima volta in un angolo dal quale proveniva un clangore di catene o un gemito di pianto. Poi si capisce che questi semplici stratagemmi da horror di serie B vengono reiterati praticamente in ognuna delle quattro mappe esplorabili, e finiscano per non sortire alcun effetto neanche sul giocatore più impressionabile. Doorways possiede, inoltre, un’anima da avventura grafica, con annotazioni e cartigli da leggere per cogliere qualche indizio utile alla risoluzione di alcuni enigmi ambientali. I puzzle, che dovrebbero essere una parte predominante della struttura ludica, si perdono in una sciarada di banalità e noia: il tutto richiede di recuperare una chiave o premere un interruttore per aprire una determinata porta, grazie alla quale imboccare poi la via d’uscita. Per quanto i cunicoli e le diramazioni di cui si compone ogni stage abbiano un che di labirintico, volto a farci perdere l’orientamento e darci un senso di angoscioso spaesamento, le dimensioni piuttosto contenute delle suddette zone fanno sì che in un paio di tentativi al massimo si sia analizzato ogni singolo anfratto della mappa, rendendo quasi impossibile rimanere bloccati cercando di risolvere un enigma. L’unico ostacolo sarà rappresentato, semmai, dalla sporadica presenza di abomini dai quali fuggire, che in un paio di occasioni ci sbarreranno la strada, costringendoci a trovare riparo in punti prestabiliti, come un angolo di muro o un cunicolo fognario. Non si ha mai la libertà di decidere dove nascondersi, e questa progressione “pilotata” elimina del tutto quel senso di timore che accompagna la ricerca di un luogo sicuro.

    In un'avventura corrosa dal tedio e dalla componente artistica poco ispirata, un piccolo guizzo di originalità si ha solo sul finale, in cui al protagonista sarà data la capacità di alterare il tempo per qualche istante, così da modificare l’ambiente e scovare nell'architettura del passato l’immancabile chiave o levetta da attivare. Azionando il meccanismo di distorsione temporale, però, si riveleranno anche nuove, letali minacce, che solitamente porteranno a morte immediata (ma niente paura: la frequenza dei checkpoint smorza ogni tensione). Al giocatore spetterà dosare questa capacità, quindi, con un po’ di attenzione in più rispetto a quella utilizzata per il resto dell’avventura. Proprio quando alcune soluzioni di gameplay iniziano a maturare un certo interesse, però, The Underworld raggiunge i titoli di coda, lasciandoci un po’ confusi per la fretta con cui si sono svolti gli eventi e, più in generale, per il senso d’insoddisfazione che lungo l’esperienza di gioco si è troppo spesso sostituito all'ansia. Doorways dura, infatti, il tempo di un breve tremore epidermico: non saranno necessarie più di due ore per terminare questo terzo capitolo della saga (il quale comunque garantisce da solo una longevità maggiore dei due episodi precedenti messi insieme), e i pochi segreti sparsi per le piccole mappe, il cui ritrovamento sblocca i relativi achievement di Steam, non impegnerà per più di un’altra ora di gioco i maniaci del completamento. 

    L’ORRORE NEGLI OCCHI

    L’aspetto che suscita vero orrore in Doorways è il comparto tecnico. Tra texture slavate, modelli poligonali incredibilmente datati e un design di mostri e ambienti poco ispirato (senza contare clamorosi cali di frame rate), non c’è davvero nulla da salvare. Vedere comparire d’improvviso l’eterea figura di un fantasma dinanzi ai nostri occhi è già un banale cliché che non suscita di per sé ormai molti sobbalzi, ma se il suddetto spettro ha anche un livello di dettaglio che, fatta eccezione per l’alta definizione, ricorda quello di Project Zero per Ps2, allora è evidente che la desensibilizzazione del giocatore alle sollecitudini “orrorifiche” di The Underworld risulta completa. Fanno da corredo campionature ambientali che pescano a piene mani da tutti gli stereotipi di genere, con urla ingiustificate, lamenti d’infanti, rumori metallici e ansimi di dolore, ai quali si mescolano, in un impeto di originalità, anche gli sbadigli del giocatore.

    Giunti a questo punto della disamina, si potrebbe pensare che un gioco come Doorways non abbia motivo d’esistere, non offrendo davvero nulla che ne giustifichi l’acquisto. In realtà, analizzando le feature del titolo, se ne può scorgere una in particolare sbandierata a caratteri cubitali che si rivela, in fin dei conti, la sua raison d’etre: la compatibilità con l’Oculus Rift.  Rivalutando il gioco con la prospettiva della realtà virtuale, ci si rende conto di come sia stato palesemente pensato sin dall'inizio per essere fruito con la suddetta periferica, a causa di un gameplay ridotto all'osso e di poca attenzione riposta sul fronte artistico, ma con un reiterarsi di classiche meccaniche di spavento che potrebbero sortire un effetto particolarmente violento se sperimentate con l’Oculus Rift. Insomma, una sorta di tech demo per la realtà virtuale spacciata per un gioco horror efficace anche sui nostri desktop.

    Doorways: The Underworld Doorways: The UnderworldVersione Analizzata PCDoorways: The Underworld non riscrive certo le regole del survival horror, pregno com’è di una serie interminabile di cliché di genere, ma non riesce nemmeno a ritagliarsi un piccolo spazio nella nicchia di congeneri, perché incapace di incutere quel pizzico di genuina paura indotta dalla sensazione d’impotenza dinanzi ai pericoli, caratteristica mutuata palesemente dai più riusciti Amnesia e Outlast. L’elementare struttura della progressione, basata unicamente sulla noiosa dicotomia “trova la chiave e apri la porta”, e l’insufficiente ispirazione tecnico-artistica rivelano l’anima di un prodotto pensato per offrire un briciolo di coinvolgimento solo se approcciato con l’Oculus Rift: un breve tour dell’orrore che sfrutta l’acerba novità della realtà virtuale per compensare una certa inconsistenza ludica di fondo.

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