Recensione Hot Tin Roof: The Cat That Wore A Fedora

Come un film con Humphrey Bogart. Ma a cubetti.

Recensione Hot Tin Roof: The Cat That Wore A Fedora
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  • Non sarebbe bastata l’ennesima tazza di caffè nero a dare un senso a una giornata d’inverno come tante, spenta nei colori così come nelle intenzioni. Per fortuna il Capo ha un buon tempismo, e il gioco che ho suggerito per il nuovo pezzo prende d’improvviso forma nella mia casella di posta elettronica. La forma di un codice a quindici caratteri, per l’esattezza, che Steam fagocita voracemente per infine restituirmi un nuovo mondo - o, come preferisco io, una nuova storia - dentro cui immergermi con quel solito misto di curiosità appassionata e distacco analitico che è alla base di questo mestiere.
    Partiamo però dal principio. Nei momenti di tedio il web sa mostrarsi complice, capace com’è di trasmettere quel po’ d’interesse a chiunque decida di spendervi qualche tempo appresso. L’ultima nuova che l’internet ha riservato al sottoscritto porta in dote l’esistenza di una Megan Fox del digital entertainment, game designer da poco genitrice, insieme agli altri sviluppatori del team indipendente Glass Bottom Games, di un titolo dalle fattezze singolari - chi stesse cercando motivazioni sul perché abbia digitato “Megan Fox” nel motore di ricerca, semplicemente, smetta di chiederselo. Nella crescita di progetti piccoli, il passaggio per Kickstarter risulta sempre più spesso tappa obbligata, così come, per le opere distribuite su computer, l’ulteriore transito attraverso il ben noto palcoscenico di Greenlight. L’opera che mi trovo di fronte non rappresenta un’eccezione: Hot Tin Roof ha percorso ognuno di questi step con rigore, approdando di recente sulla piattaforma di Valve con alle spalle una discreta schiera di sostenitori. Persone che non devono averci messo granché a convincersi delle potenzialità di un racconto simile, un giallo interattivo chiazzato di noir. Due colori, questi, che mescolati in una tavolozza convivrebbero come un pugno a contatto con l’occhio, ma che nella mente di un valido gruppo di creativi possono dar vita a universi narrativi davvero penetranti. La curiosità è tanta: pad alla mano, m’immergo nel cuore di Tin Roof, cittadina a spigoli dove col crimine non si scherza. O forse sì.

    LA GATTA SUL TETTO CHE SCOTTA

    Non servono certo grandi ragionamenti per capire che se c’è un telefono in una stanza che squilla, è sempre buona abitudine alzare la cornetta, specie se il lavoro scarseggia. A essere totalmente onesti mi sfugge la dinamica con cui compiere fisicamente l’operazione, in quanto il mio personaggio, la detective privata Emma Jones, è un parallelepipedo sì dotato di due occhietti a stanghetta e trench beige d’ordinanza, ma privo di arto alcuno. Basta uno sguardo fugace all’arredamento circostante, anch’esso completamente squadrato, e alla mia nuova assistente, Francine, una gatta parlante con in testa un borsalino, per giungere alla conclusione che farmi domande del genere sarà d’ora in avanti pratica superflua. La conversazione con il soggetto all’altro capo dell’apparecchio si articola tra le linee di testo di un botta e risposta in formato balloon, durante il quale Emma viene ingaggiata per risolvere il mistero di un omicidio - e di un conseguente furto di testamento - avvenuto presso una suite dell’Ossified Egg, hotel stellato nelle vicinanze della stazione di polizia.

    Esco quindi all’aria aperta, a indagare tra le luci suadenti dei lampioni che illuminano una notte perenne, naturalmente affiancato da Franky - il soprannome di Francine, tutt’altro che ammiccamento isolato all’ambiguità sessuale degli stilizzatissimi personaggi rappresentati. Passano i minuti e comincio a prender maggior coscienza del microcosmo che mi circonda; in questo luogo convivono con reciproco disinteresse gatti furbetti, topolini camorristi, piccioni impiccioni e inespressivi “boxariani”, i cittadini di Tin Roof meno distanti da un essere umano in quanto a fisionomia. Il che, basta guardare qualche screen del gioco, è davvero tutto dire. Sembra che ognuno di questi figuri possegga tasselli d’informazione più o meno rilevanti per la ricostruzione dell’accaduto, ed è proprio nel continuo chiacchiericcio che si palesa metà dell’anima ludica dell’opera Glass Bottom Games. Perché che il titolo sia un sidescroller purosangue - pur totalmente agghindato con scenografie e modelli in tre dimensioni - lo si capisce in pochi secondi di prova, ma è ugualmente vero che dalle avventure grafiche vecchio stampo prenda abbondantemente in prestito alcuni importanti stilemi. Come ci si aspetterebbe da un qualsiasi racconto investigativo, la narrativa rappresenta indiscutibilmente un tassello importante dell’esperienza, insinuandosi con fare divertito tra gli innumerevoli dialoghi a risposta multipla che costellano la produzione. Il tentativo di ricalcare l’irresistibile ironia dei principali capolavori LucasArts è evidente e alle volte fin manifesto - ammetto di aver riso fragorosamente quando, non sapendo cosa ribattere a un quesito del mio interlocutore, il software mi ha fornito l’opzione “How appropriate. You fight like a cow!”. In generale, la qualità della scrittura di Hot Tin Roof non ha il graffio parodistico dei prodotti suoi mentori, ma regala comunque diversi momenti di leggera, demenziale ilarità, a patto che si posseggano sufficienti conoscenze di American English e delle sue principali derive slanghistiche per comprenderne le principali sfumature.

    SENZA META

    Agli adventure game d’alto lignaggio il titolo Glass Bottom Games deve molto anche in termini di spinta all’esplorazione degli scenari e al problem solving. È da ore ormai che vago per le strade, setaccio appartamenti e perlustro quartieri della city in cerca d’indizi, ma avverto prepotente il reiterarsi del medesimo problema di fondo, che mi farebbe consumare nervosamente decine di sigarette se non mi fossi ripromesso proprio oggi di smettere, da bravo lupetto. Che poi, penso, non son mai stato negli scout, quindi al diavolo, me ne accendo una. In buona sostanza, il gioco non fornisce all’utente alcuna mappa da consultare; la questione sarebbe in effetti sormontabile, se non fosse che, per far parte di una produzione tutto sommato modesta, il mondo di Hot Tin Roof appare particolarmente ricco di location. La città prevede una suddivisione in spazi simil-dungeon, comprendenti, tra gli altri, la discarica abbandonata in periferia, il regno sotterraneo della malavita roditrice, il quartiere nobile e una losca fabbrica di caramelle esplosive, tutti setting ben riconoscibili e, neanche a dirlo, perfetti nascondigli per celare informazioni compromettenti. Tuttavia, il non poter beneficiare di uno strumento per orientarsi e, soprattutto, di obiettivi chiari da perseguire porta inevitabilmente a un backtracking imperante, dove sfogliare il block notes - sorta di diario contenente prove e documenti raccolti - non è sempre sufficiente a comprendere quale debba essere la prossima mossa da compiere.

    Per provare a sottrarre chi gioca dal tedio di questo viavai continuo e fin troppo aleatorio interviene un gameplay particolarmente sovraccarico di lessici videoludici, in cui il versante puzzle spicca marcatamente sugli altri in quanto a tentativo di messa in pratica. Buona parte dei rompicapo si basa sul corretto impiego della pistola di Emma, una quattro colpi a ricarica manuale non votata alla violenza verso gli altri NPC, il cui tamburo può ospitare bossoli dai contenuti più bizzarri e variegati. Per fare alcuni esempi, nell’arco dell’avventura la protagonista entra gradatamente in possesso di proiettili di sapone utili a svelare leve e piattaforme invisibili, altri a rampino per aggrapparsi a specifiche pareti, altri ancora a forma di bubblegum incendiari, e così via. Alla propria sponda enigmistica il titolo affianca poi fasi di platforming piuttosto estese, che richiedono perlopiù una corretta commistione di salto e utilizzo del revolver per giungere in prossimità delle superfici più distanti. È soprattutto in questi momenti che la giocabilità dell’opera subisce un duro colpo, poiché combinare le due meccaniche appena citate in maniera efficace è impresa davvero ardua, che mi ha fatto scomodare qualche santo di troppo negli istanti più prossimi al livello di frustrazione. Che già lassù immagino di non avere una grande reputazione, ma tant’è.

    TUTTI QUANTI VOGLION FARE JAZZ

    Franky mi fa notare che in fondo a un viottolo tra i tanti, vicino a un cassonetto della spazzatura, un minuscolo ratto sta suonando un altrettanto minuscolo clarino a bolle di sapone. Mi fermo per fargli qualche domanda e mi sorprendo nel realizzare che, a mo’ di simpatica gag metaludica, è stato proprio quell’amabile musetto ad aver suonato per tutto il tempo la colonna sonora del mio viaggio, ed ora, sorta di juke box vivente, è pure disposto a cambiare pezzo su richiesta. Bella trovata, Glass Bottom, apprezzo sempre un po’ di sana autoreferenzialità. L’occasione mi porta a riflettere su come l’arte musicale che accompagna le ore spese insieme a Hot Tin Roof sia in effetti talmente aderente al tipo di esperienza raccontata che non passa quasi per la testa di metterne in discussione le - comunque innegabili - qualità auditive. I brani jazzati che la compongono non sono numerosissimi, ma tutti in grado di sedurre e creare un’atmosfera calda e avvolgente, tipicamente da film noir anni Quaranta.

    Se il suono concorre ad accentuare il lato dark dell’opera, l’intero comparto visivo mira invece a sottolinearne l’intento parodistico con l’impiego di modelli 3D così basilari e scevri di texture particolareggiate da far quasi tenerezza. La resa grafica complessiva non è spiacevole, peraltro suggellata da un’impronta artistica molto chiara, che potrebbe far storcere il naso agli utenti più attenti al dettaglio, eppur adatta al tenore del progetto portato in scena. Qualche singhiozzo in più, invece, arriva dal versante tecnico, con sporadici cali di frame rate e qualche collisione tra i modelli mal calcolata. Nulla d’insopportabile, in ogni caso.

    Hot Tin Roof: The Cat That Wore A Fedora Hot Tin Roof: The Cat That Wore A FedoraVersione Analizzata PCScocca la decima ora di gioco. Il blocco degli appunti è zeppo di testimonianze e prove, il colpevole è ormai con le spalle al muro e l’investigatrice privata Jones può finalmente mettere la parola “fine” sui misteri che hanno destato la città di Tin Roof dal suo quotidiano torpore. Ma la vita è beffarda, e raggiunto un verdetto bisogna subito sottoporsi a un giudizio successivo. È a questo punto che ragiono su come Hot Tin Roof: The Cat That Wore A Fedora sia a conti fatti un esperimento indie ambizioso, ibrido di adventure e action dal buon potenziale dove, però, non tutto funziona come dovrebbe, per cui le meccaniche del primo genere ispiratore schiacciano ignominiosamente quelle del secondo. L’opera Glass Bottom Games trae linfa soprattutto da una trama articolata, dialoghi ben scritti e un umorismo che, benché non eccessivamente graffiante, riesce a strappare qualche sorriso sincero. Al contrario, la sua natura più propriamente esplorativa si dimostra debole, minata in particolar modo da un backtracking predominante - effetto dell’assoluta mancanza di strumenti per orientarsi tra i numerosi scenari - e da un platforming fragile e un po’ artificioso. Motivi, questi, per cui è difficile assegnare al titolo una valutazione a cifra tonda, nonostante il lavoro meriti una possibilità da parte di chi, capace di sorvolare su un gameplay claudicante, sappia apprezzare un racconto sceneggiato con metodo tra le pieghe delle sue innumerevoli linee di testo. Come si suol dire in queste occasioni, il caso è chiuso.

    6.7

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