Recensione Oceanhorn: Monster of Uncharted Seas

A caccia del mostro marino in uno spudorato clone di Zelda

Recensione Oceanhorn: Monster of Uncharted Seas
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  • iPhone
  • iPad
  • Pc
  • PS4
  • Xbox One
  • Il mercato mobile è una fertile terra di replicanti, in cui cloni di videogiochi ben più famosi e blasonati proliferano senza controllo e si apprestano a dominare, quantomeno per numero, l’intero settore portatile. Con sempre maggior frequenza, infatti, vere e proprie copie d’illustri titoli tripla A affollano gli store virtuali, cercando di brillare della sgargiante luce riflessa dei loro rinomati referenti. E proprio estrapolando una cellula dal DNA ludico della serie Zelda che lo studio di sviluppo indipendente Cornfox & Bros, già autore del racing game arcade Death Rally, ha creato Oceanhorn: Monster of Uncharted Seas, uscito lo scorso anno su sistemi iOS. Nonostante il titolo del gioco affermi il contrario, questo action-rpg esplicitamente ispirato alle avventure di Link (in particolare all'incantevole The Wind Waker), solca mari già troppe volte esplorati, e sbarca sui sovraffollati lidi di Steam portandosi dietro il peso di un paragone che lo fa, partita dopo partita, colare inesorabilmente a picco.

    IL NAUFRAGAR NON È DOLCE IN QUESTO MARE

    Le vicende del gioco ruotano attorno a una creatura leggendaria, l’Oceanhorn, la quale, posseduta da un maleficio antico quanto il tempo, potrebbe condurre il mondo alla rovina. Il nostro protagonista, muto e senza nome come insegna la migliore tradizione di giochi di ruolo, ha dunque il compito sia di mettersi sulle tracce dell’ardimentoso padre, che prima di lui ha cercato di sconfiggere il temibile mostro, sia di recuperare tre sigilli sacri (del Sole, della Terra e dell’Oceano) con i quali liberare le terre emerse della malvagità che le pervade. In linea con le premesse non certo entusiasmanti, la narrazione procede statica e appena abbozzata, con personaggi che sembrano capitare nell'avventura per puro caso, senza essere adeguatamente caratterizzati né presentati: puri manichini senz'anima, quasi fossero semplici pedine in cui il protagonista inciampa lungo il cammino. Persino quello che dovrebbe rappresentare il vero villain del gioco fa la sua repentina apparizione d’improvviso solo sul finire della storia. C’è sicuramente l’apprezzabile tentativo di voler dar vita a un nuovo universo ludico, con le sue regole, le sue razze e i suoi mondi, ma il tutto è imbastito in modo sciatto e superficiale, affidando inoltre ad un elementare “spiegone” conclusivo il compito di rimettere insieme i tasselli di una narrativa confusa e fumosa. Eppure, la volontà di gettare le basi per la creazione di un setting sufficientemente originale rappresenta l’unico guizzo di creatività che contraddistingue la produzione, altrimenti legata a un concept smaccatamente derivativo.
    Oceanhorn, del resto, trae quel poco che ha di buono dalle formule di gameplay proprie di altri esponenti del genere, in particolare della già citata serie della grande N. Le somiglianze con The Legend of Zelda si sprecano: dal look del protagonista alla barra della salute (rappresentata da cuori che perdono pezzi dopo ogni colpo subito), dal design di spada e scudo sino al suono di un flauto che riporta alla mente le indimenticabili, melodiose note dell’ocarina. La progressione è scandita, come in ogni altro rpg, dai punti esperienza che si ottengono dopo aver portato a termine le quest o aver sconfitto i mostri che popolano le varie aree di gioco. In assenza di uno skill tree, non potremo però spendere gli XP e personalizzare le abilità del protagonista, che verranno attivate in automatico al salire di livello, sbloccando poco alla volta nuove capacità (come armi secondarie o poteri elementali) senza che ci sia concessa la possibilità di orientare la crescita del personaggio a nostro piacimento. Una certa ripetitività e limitatezza generale si intravede anche durante le fasi in cui risolvere gli insignificanti enigmi che bloccano il cammino. La curva di difficoltà, che converge pericolosamente verso il basso già durante i semplicistici combattimenti, raggiunge l'apice della banalità nelle sessioni di puzzle solving: i rompicapo non offrono il benché minimo grado di sfida e richiedono tutti, senza nessuna eccezione, di spostare alcuni cubi su certi interruttori per aprire la porta che impedisce l’avanzamento.

    A far da contraltare a una certa povertà d’ispirazione, ci pensa però la discreta varietà delle creature che affronteremo e delle boss fight, le quali, benché non propriamente rimarchevoli, offrono quel pizzico di sfida in più che permette al titolo di innalzarsi qualitativamente rispetto alla generale mediocrità, fatta purtroppo eccezione per la battaglia finale, brevissima e anti climatica nella sua semplicità. È proprio durante gli scontri all'arma bianca che s’intuisce, in ogni caso, come Oceanhorn abbia beneficiato del passaggio dal touch screen all'accoppiata mouse/tastiera: i controlli sono fluidi e responsivi e la giocabilità ne ha guadagnato in immediatezza. Le già poche qualità di questo gameplay eccessivamente derivativo vengono però completamente svilite da un grave problema strutturale legato, come vedremo di seguito, alla traballante impalcatura ludica. Il mondo di gioco è costituito da una serie di isole che il nostro anonimo protagonista può raggiungere solcando i mari con la sua piccola barca a vela. Le sessioni di traversata non sono purtroppo interattive, questo significa che ci limiteremo a segnare sulla world map il luogo da raggiungere e l’imbarcazione si muoverà automaticamente, senza che ci venga data la possibilità di controllarne i remi. Dopo le prime ore di gioco, comunque, riceveremo in dono un fucile con cui colpire alcune mine poste lungo il tragitto, come una sorta di tiro al bersaglio mobile: un blando tentativo di intrattenere il giocatore durante le noiosissime fasi di navigazione. E questo è solo il primo degli elementi del gameplay architettati appositamente per far perdere tempo al giocatore.
    Come la sua natura da action rpg impone, infatti, in Oceanhorn dovremo visitare un buon quantitativo di mondi in cui portare a termine le quest principali e secondarie: tuttavia la mancanza di reali indicazioni su dove recarci e sul prossimo obiettivo da completare, invece di trasmettere un senso di appagante libertà, instilla soltanto un forte e fastidioso spaesamento. Questo perché l’intera avventura è progettata in modo tale da costringerci a percorrere costantemente la via più lunga per raggiungere il luogo richiesto, facendoci fare la spola tra un isolotto e l’altro anche soltanto per capire come progredire nell’avventura. Non mancano momenti in cui, giunti quasi alla fine di un dungeon, saremo impossibilitati a proseguire perché privi di un oggetto fondamentale, la cui esistenza e impellente necessità, però, ci viene rivelata proprio ad un passo dal traguardo: questo ci costringe spesso a tornare sui nostri passi, ripercorrere esattamente a ritroso tutto il cammino fin qui compiuto, attraccare su un’altra isola dove si presume essere celata la reliquia, completare un nuovo dungeon e poi rifare di nuovo l’intero percorso già affrontato precedentemente, solo per sbloccare l’ultimo passaggio.
    Se considerate che tale andamento della progressione si ripete costantemente lungo tutta l’avventura, capirete bene il profondo senso di frustrazione che si può avvertire dinanzi a scelte di design ampiamente discutibili e di certo poco intelligenti. Anche la longevità della sola storyline, dunque, attestabile intorno alle 8-9 ore, si rivela essere uno specchio per le allodole: non dipende tanto dalla lunghezza delle vicende narrate, quanto dalla suddetta, opinabile impostazione ludica, satura com’è di troppi momenti morti. Non manca comunque una gran mole di attività secondarie che ha almeno il merito di variare lo stanco reiterarsi delle solite dinamiche di gameplay, donando non poche ore di gioco aggiuntive. A patto ovviamente di esser armati di tanta buona volontà, o pervasi da uno spasmodico bisogno di completismo, tale da indurvi a sbloccare tutte le isole secondarie e scovare ogni segreto, nonostante l’ottenimento delle abilità fondamentali sia così guidato da non invogliare certo all'esplorazione.

    ATOLLI VIRTUALI

    Dal punto di vista tecnico, Oceanhorn è come una navicella di legno graziosa da ammirare dalla distanza, ma che ad uno sguardo ravvicinato palesa una serie di piccoli fori che, poco alla volta, imbarcano tanta acqua da farla finire sul fondo dell’oceano. Il primo impatto è, infatti, piuttosto piacevole, con il suo stile "cartoonesco" e i suoi colori accesi: tuttavia ogni dettaglio del mondo di gioco denuncia apertamente la natura portatile della produzione. Oltre alla scarna texturizzazione e a un reparto animazioni dell’anteguerra, non manca uno spiazzante riutilizzo dei medesimi asset per qualunque isola che visiteremo o dungeon che esploreremo: serve a poco caratterizzare ogni ambiente secondo un diverso elemento naturale (dall’acqua al fuoco, passando per lande sabbiose), se le uniche differenze tra una zona e l’altra riguardano il rivestimento e il colore delle texture. Simile comparto grafico avrebbe anche avuto ragione d’esistere su piattaforme mobili, ma su PC denota soltanto la svogliatezza e la pigrizia di un team che si è limitato semplicemente ad aumentare la risoluzione e ad aggiungere qualche impercettibile filtro di post processing.

    Tra i limitati pregi può invece annoverarsi l’accompagnamento musicale, lieve e soffuso, mai invasivo né eccessivamente ridondante, purtroppo però compromesso da un doppiaggio in lingua inglese di livello quasi amatoriale. Vale la pena spendere due parole sulla traduzione italiana, per quanto riguarda i soli sottotitoli: la localizzazione, non sempre molto precisa, a tratti si dimentica che non stiamo giocando alla versione per sistemi touch, come quando suggerisce di trascinare il dito sullo schermo per scagliare un oggetto contro un nemico. Al di là dell’effetto comico involontario, è sintomatico di una scarsa attenzione riposta in quasi ogni aspetto di questo dimenticabile port per piattaforma Windows.

    Oceanhorn: Monster of Uncharted Seas Oceanhorn: Monster of Uncharted SeasVersione Analizzata PCIl passaggio dai sistemi handlheld a quelli casalinghi poteva sembrare quasi naturale per un gioco come Oceanhorn, caratterizzato da una struttura forse eccessivamente articolata e da sessioni di gioco piuttosto prolungate per gli stretti schermi di tablet e smartphone. Il titolo Cornfox & Bros finisce purtroppo intrappolato in un limbo d’indefinitezza ludica: troppo grande per la sua natura portatile, troppo piccolo per i nostri destkop. Eppure, Oceanhorn avrebbe potuto sfiorare almeno la sufficienza, in virtù di un concept che, pur rischiando in molti frangenti il plagio, riesce ad estrarre dai mostri sacri del genere (Zelda su tutti) un’oncia di qualità sul fronte del mero gameplay. Peccato che poi tutto si perda tristemente in una progressione confusa, flemmatica e tortuosa, con soluzioni di design che oscillano tra la noia e l’irritazione. Quelli del Pc sono mari troppo impetuosi perché la navicella di Oceanhorn possa domarli senza sprofondare, e forse sarebbe stato meglio se avesse navigato soltanto sulle ben più placide acque del gaming mobile.

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