Speciale Dishonored - Stealth

Come si rapporta Dishonored con il canone dello stealth game moderno?

Speciale Dishonored - Stealth
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Disponibile per
  • Xbox 360
  • PS3
  • Pc
  • PS4
  • Xbox One
  • Erano anni che non si vedeva uno Stealth game così. Dishonored è ormai in dirittura d'arrivo e, ve lo anticipiamo, sconvolgerà parecchi giocatori, riscoprendo (e rinvigorendo) un approccio al genere che si pensava ormai completamente abbandonato. Si avverte, giocando all'ultima fatica di Arkane Studios, un senso avvolgente di spericolata libertà decisionale. E non stiamo parlando di bivi narrativi, o di un'intricata rete di cause e conseguenze: nelle periferie malfamate di Dunwall, nelle case chiuse e all'interno delle ville eleganti, non ci sono regole scritte e schemi. Si può sperimentare, scegliere come e dove muoversi, nascosti nell'ombra di un cantuccio o aggrappati ai tralicci di legno. Che gira per le strade della capitale, sgattaiolando alle spalle delle guardie, penetrando nelle menti semplici dei ratti, insidioso e pungente come il freddo del mattino, c'è un assassino che può dar libero sfogo alla sua bizzosa creatività omicida. Ed il sorriso malevolo del suo successo è anche quello che si allunga sulla faccia del giocatore.
    L'obiettivo di Arkhane era chiaro fin da subito. Il creative director Harvey Smith, i cui trascorsi scopriremo fra breve, lo ha dichiarato a gran voce in tante interviste nelle fiere di settore: “Con Dishonored vogliamo rifondare lo stealth game moderno”. Per scoprire se il team è riuscito nell'intento dovrete aspettare la recensione, che uscirà Lunedì mattina sulle pagine di Everyeye.it. Ma intanto possiamo dare uno sguardo più approfondito a quelle che sono state le modalità d'intendere l'azione furtiva nel corso degli anni, ed a come il genere si è evoluto nelle sue ultime incarnazioni. Giusto per capire quanto fossero smisurate le ambizioni di Dishonored e quanto siano eccelsi i suoi risultati.

    Vecchi tempi

    In principio fu Metal Gear. Nel lontano 1987 il genio visionario di Hideo Kojima decide di riscrivere le regole del'action game, per proporre un titolo scandito dal ritmo di un'infiltrazione ponderata. Evitare gli sguardi degli uomini di pattuglia e delle telecamere, assaltare i soldati restando nascosti dietro gli angoli, mantenere quando possibile un basso profilo: erano queste le conquiste creative del primo titolo di una saga diventata poi storica, che all'epoca fece tremare il canone videoludico proprio per l'eleganza di una progressione molto diversa dagli stilemi dei giochi militareschi. Confinato in una nebulosa oscurità (anche a causa del pessimo porting su NES), Metal Gear è rimasto come il suo sequel un seme infertile in un mercato che nei primi anni '90 ha preferito solcare altre vie.

    Tarlo onnipresente nella mente del suo creatore, il concept non poteva morire. E' stato infatti recuperato e aggiornato al tempo della prima PlayStation, con quel Metal Gear Solid che è entrato di diritto negli annali.
    Pubblicato nel 1998, Metal Gear Solid tornava a proporre con ancora più convinzione le dinamiche Stealth delineate oltre una decade prima sullo sfortunato MSX. Tutto si basava sull'interazione con l'intelligenza artificiale del gioco, che regolava le routine comportamentali delle guardie. A disposizione dell'utente c'erano mille modi per ingannarle: un colpo di nocche sulle superfici metalliche dei container, così da attirarle lontane dal loro percorso di pattuglia; scatole di cartone sotto cui nascondersi; dardi tranquillanti per metterle fuori combattimento. Uno dei motivi per cui Metal Gear Solid fu acclamato all'unanimità come un grande capolavoro fu proprio la discreta libertà interpretativa.
    Si trattava comunque di una libertà con certi confini: c'erano anzitutto quelli di ogni stanza, che restava fondamentalmente indipendente dalle altre. Ogni area era strutturata come una singola prova d'abilità, rigidamente inquadrata dalla visuale che, pur restando molto dinamica, si proponeva con il taglio di una vista isometrica. Questo tipo di approccio, mantenuto anche nel secondo capitolo, si fondava quindi sull'utilizzo di gadget che modificano in vario modo i comportamenti degli avversari, scarificando però la libertà di movimento, per inquadrare la progressione in una struttura molto lineare.
    Sarà la stessa filosofia abbracciata da Splinter Cell, arrivato nel 2002 quasi in risposta agli incredibili risultati della serie di Kojima (che con Sons of Liberty aveva spopolato l'anno precedente.) Anche nel caso di Sam Fisher, al giocatore era richiesto lo studio attento dei tragitti delle guardie, ed una pianificazione delle incursioni molto meticolosa. Rispetto a Metal Gear, Splinter Cell proponeva però un sistema di utilizzo dei coni d'ombra come zona franca, in cui era possibile nascondersi e rimanere invisibili alle guardia. Questa dinamica, chiamata nel settore “pools of shadow”, era stata sperimentata anni prima da un altro prodotto, che ha molto in comunque con il Dishonored che tutti stiamo aspettando: uscito lo stesso anno di Metal Gear Solid,

    Thief: the Dark Project fu un vero e proprio fulmine a ciel sereno. La fama di questa saga non è paragonabile a quella della serie Konami, ma il titolo firmato Looking Glass Studio è stato davvero un prodotto eccezionale per il genere d'appartenenza. Senza ombra di dubbio l'impatto mediatico minore si spiega con il fatto che a Thief mancasse quel focus narrativo che ha reso immortale Solid Snake, ma a livello di gameplay il progetto era ambizioso e riuscitissimo. L'esplorazione libera di un cupo mondo medievale avveniva in totale libertà, dividendosi fra losche arrampicate, tuffi nei canali di scolo, lunghissime incursioni negli enormi manieri. Anche Thief, come si è anticipato, utilizzava un sistema di gioco legato alle zone d'ombra: l'utente giocatore aveva facoltà di interagire con le fonti di luce per oscurare le stanze e muoversi indisturbato.


    In quello che è stato l'anno chiave per la fondazione dello stealth game moderno (il 1998) uscì anche un altro titolo ultimamente rimasto molto in disparte. Parliamo di Tenchu: Stealth Assassin, che si faceva vettore di una filosofia ancora diversa. Nel voler riproporre le spericolate acrobazie di un Ninja letale, Tenchu puntava soprattutto sulla libertà di movimento. Grazie al rampino, era possibile arrampicarsi sui tetti per evitare le guardie ed i cani, neutralizzate poi con ciotole di riso avvelenate, shuriken, stealth kill di ogni tipo. La discreta estensione delle arene era agli antipodi rispetto agli ambienti chiusi di Metal Gear Solid, e la loro verticalità rappresentava il tratto distintivo del prodotto Acquire.

    Nuove strategie

    Nel periodo d'oro di un genere mai completamente “mainstream”, quella formata da Tenchu, Metal Gear Solid e Thief è stata la terna di prodotti che ne ha scolpito i lineamenti. Tutte queste saghe (e persino Splinter Cell) hanno avuto seguiti che hanno ottenuto ottimi successi, accompagnando i fan nel corso di tutta la passata generazione.
    Generazione che ha ospitato, fra l'altro, diversi altri esponenti della categoria, da Hitman a Forbidden Siren (no: non è un classico Survival Horror), divertendosi a declinare le dinamiche dell'infiltrazione silenziosa in molti ambiti.
    Poi sono arrivate le nuove conquiste tecnologiche, le nuove console casalinghe, ed è cambiato il focus dello sviluppo. Esaltati dalla tensione verso il fotorealismo, dal linguaggio cinematografico e dai dogmi della spettacolarità ad ogni costo, i team di sviluppo hanno perso di vista quello che era il tratto caratteristico dello Stealth: proprio quella libertà di azione di cui si è già detto, di volta in volta adattata ai vari contesti, ma imprescindibile per sostenere il brivido dell'avanzamento circospetto. Del resto, se il giocatore ha l'idea di procedere seguendo un copione già scritto, si annulla totalmente quel senso di esaltazione legato ai guizzi d'ingegno che servono per superare le guardie più tenaci.
    Non è un caso che in questa generazione siano mancati per lungo tempo Stealth Game degni di tale nome. Gli ultimi episodi di Splinter Cell hanno compiuto una netta virata verso un'impostazione da Sparatutto, ed anche il BlackList, nonostante prometta un più ampio ventaglio di possibilità per affrontare le missioni, resta ancorato ad una concezione dell'interazione ambientale molto (troppo) simile a quella di Assassin's Creed. E proprio la saga di Altair ed Ezio, nonostante avesse nel suo DNA una vena Stealth ben riconoscibile, non è mai riuscita a farla emergere potentemente, molto imprecisa per quanto riguarda le reazioni e le routine dei nemici e abbastanza superficiale nel punire un approccio più caciarone e meno ragionato.
    A farci tornare la voglia di Stealth Game ci ha pensato il Batman Arkham City di Rocksteady. Grazie alle mille possibilità legate ai gadget, ad un level design eccezionale, e a nemici piuttosto rapidi nel metterci fuori combattimento, il più bel Batman videoludico ha saputo esaltare il senso della caccia, mettendoci nei panni di un predatore letale.
    Adesso a rimpolpare le schiere degli esponenti della categoria sta per arrivare Hitman Absolution, che promette di sfruttare con attenzione le coperture dinamiche alla Gears of War, una discreta complessità del level design (ricco di strade alternative), e la classica possibilità di utilizzare dei travestimenti per passare inosservati.

    l'Onore di Corvo

    Qual è, in questo panorama che ancora si divide fra l'esigenza di proporre un'esperienza guidata (ben diretta e spettacolare) e la volontà di riscoprire il brivido dell'infiltrazione, il posto di Dishonored?
    Diremmo, dopo aver passato molte ore in compagnia del prodotto, che è un posto tutto nuovo. Arkane Studio sembra volersi dimenticare di molte delle tendenze attuali nello sviluppo videoludico, per tornare a pescare gli elementi migliori di quel “tridente” che ha dato i natali allo Stealth Game. Alla base del progetto c'è proprio la direzione creativa di Harvey Smith, che ha lavorato fra gli altri a System Shock ed ai primi due Deus Ex.

    Un caso che questo nome salti fuori proprio mentre ci avviciniamo a Dishonored? Probabilmente no, dal momento che se dovessimo cercare delle invisibili affinità elettive fra il titolo Arkane ed un altro esponente della categoria, andremmo a pescare proprio quello Human Revolution che di recente ha riscoperto, almeno dal punto di vista del rapporto fra giocatore e ambiente, la via tracciata da Warren Spector tanti anni fa.
    Ed è proprio questo che rende Dishonored un titolo unico, nell'ambito di una produzione che -in questa generazione- ha più spesso esaltato confini e costrizioni invece che rimuoverli. Harvey Smith, che con Spector ha lavorato a stretto contatto anche per Invisible War, lo dice chiaramente: “con Dishonored vogliamo creare un'esperienza di gioco altamente interattiva e non dogmatica”.
    Insomma: la chiave di volta su cui si regge il prodotto Arkhane è proprio la possibilità di usare le abilità del protagonista per riscrivere le regole del rapporto con l'ambiente e con gli avversari. In Dishonored non ci sono percorsi già tracciati, corsie preferenziali, scorciatoie: c'è invece un mondo che si piega alla volontà ed alla tenacia del giocatore. Chi ha il tempo, la voglia e la curiosità per elaborare le proprie strategie esplorative, può farlo liberamente, senza costrizioni, misurandosi prima di tutto coi i limiti della sua fantasia di predatore. Nel corso delle presentazioni organizzate questo aspetto non è emerso con l'opportuna precisione: il team di sviluppo ha parlato molto della libertà decisionale, della possibilità di neutralizzare tutti i bersagli primari senza ucciderli, del sistema di Caos che regola l'evoluzione delle zone di Dunwall. E questo resta comunque un elemento importante, in Dishonored: fin dall'inizio il titolo sprona il giocatore a tenersi a freno per non far degenerare la situazione, confermando che i morti attirano topi e paranoie, peste e nuove misure di sicurezza. Ed è ormai celebre la missione nella casa di piacere, mostrata anche su Youtube, in cui i bersagli possono essere eliminati convincendo tutti che si tratti di spiacevoli fatalità.

    Ma il vero punto di forza di Dishonored non è questa pluralità: è invece la possibilità di arrampicarsi negli angoli più impensati, i mille condotti che si possono attraversare solo dopo essersi trasferiti nel corpo di un ratto, ed in generale una struttura dell'ambiente che non tiene a freno le voglie del giocatore. Sviluppando le abilità speciali legate al teletrasporto ed all'agilità nel salto, è possibile tenersi quasi sempre in disparte, schizzare via lontani delle strade, sui tetti acuminati, per evitare non solo gli scontri diretti, ma anche gli sguardi attenti degli uomini di pattuglia.
    Quello che insomma sembra aver capito Arkane Studio, è che il piacere dell'infiltrazione non è quello di agire secondo precise regole che ci permettono di avanzare, ma quello di trovare modi creativi per aggirarle.

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