Provato Dead Space

Provati con mano i primi due livelli di gioco

Provato Dead Space
Articolo a cura di
Disponibile per
  • Xbox 360
  • PS3
  • Pc
  • Zucchero e miele. Dead Space si presenta così. Dondolandoci in un mare di dolcezza. La nave cargo Ishimura galleggia mollemente davanti ai nostri occhi, inghiottita dal nero senza fondo dello spazio. Qualcosa non va, lo sappiamo da mesi, anzi da sempre, dai primi annunci rilasciati da EA lo scorso anno. E’ un survival horror, dannazione: non vorremo certo cedere alle lusinghe di una calma fin troppo apparente? Eppure la ninna nanna in sottofondo ci sussurra di stare sereni. Va tutto bene. L’inquadratura si avvicina, richiamata dal timido luccichio di una stella lontana. La carrellata in avanti ci trascina piano piano, ed entriamo nella nave. I chiaroscuri giocherellano coi nostri nervi, disegnando ombre -forse- inesistenti. Tranquilli, va tutto bene. D’un tratto, intravediamo uno squarcio nella fusoliera: il tempo di avvicinarcisi e un torso umano dimentico di braccia e gambe ascende verso il soffitto, trapassando con garbo la scena. Gelo. La dolce cantilena di accompagnamento sembra non curarsene, ma le stanze attraversate dalla telecamera odorano di morte. Il montaggio strattona in maniera scomposta, facendosi ora serrato ora pachidermico. Inserti di smembramenti, decapitazioni e mutilazioni si conficcano nella testa dello spettatore come proiettili vaganti. Lampi di orrore lancinante. Sempre più frequenti. La musica si distorce, si spacca in pezzi non ricomponibili, per poi tornare a coccolare. Carne umana sbattuta negli angoli. Sangue raggrumato sulle pareti, vessate come i pavimenti da scarabocchi e geroglifici incomprensibili. Tranquilli, in fondo va tutto bene. E’ solo giunta l’ora di dormire.
    Su Dead Space si è detto di tutto e scritto ancor di più. Ciò che però va rimarcato è la centralità di una trama che si fregia d’un tasso di teatralità inusuale per il medium. Coinvolge e disturba adottando dei processi narrativi non dissimili da quelli dei primi due Silent Hill, seppur propugnando un’ottica diametralmente diversa: quella hollywoodiana. Prima di essere un’opera ludica, Dead Space è di fatto un sci-fi horror appassionante, apprezzabile anche da chi al pad preferisce la poltrona di un cinema; un’esperienza transmediale, la cui ampiezza di respiro è rintracciabile negli antefatti contenuti nei fumetti (tre numeri, a breve ristampati in un unico volume) e nella serie animata (dvd e blu-ray) che ne accompagnerà il lancio il prossimo 24 Ottobre.
    Sul versante giocoso, il titolo EA conclude con autorevolezza ed autorialità il discorso strutturato nel ’96 da Bio Hazard, cestinato poi da Capcom a favore dei pruriti action di Resident Evil 4.
    In sostanza, Dead Space è un autentico survival horror. Terrore genuino al 100%. Smussa a poco a poco la scorza coriacea del giocatore moderno fondendo meccaniche classiche ad altre deliziosamente innovative, andando così a comporre un corpus impegnativo e ricco di spessore.
    Attracchiamo. Mano sul portello, umidiccia. Un passo timido dentro l’Ishimura.
    “C’è...c’è nessuno?”...

    Hands On

    Innanzitutto, la cornice numerica. Il test ha riguardato il primo livello e buona parte del secondo per un totale di due ore abbondanti di gioco, capaci di intorcinare per benino le nostre corde emotive. Considerando la ripartizione dell’avventura in dodici livelli, una longevità di diciotto/venti ore si profila essere qualcosa di più d’una fanfaronata promozionale da ufficio stampa. A differenza di quanto riportato in passato, nella versione definitiva è presente inoltre il selettore della difficoltà (facile, normale, difficile), atto a garantire un’esperienza in linea con le abilità di chiunque. Restando in tema, la sfida proposta a livello intermedio è parsa pressoché inappuntabile: il gioco prende per mano il fruitore iniziandolo alle meccaniche di base, non lesinando comunque sui colpi bassi e soprattutto improvvisi. Dead Space è un mostro gelido che si riscalda al fuoco del nostro panico. Le dinamiche intrecciate fin dal prologo interattivo -stilisticamente conforme agli escamotage di Half Life 2- assumono dunque la forma di un sincero monito: controlla quelle fiamme, cocco, altrimenti finirai per bruciarti.
    Sì, Dead Space mette i brividi. Che percorrono la schiena ed arrivano dritti al cervello, facendogli prefigurare scene e situazioni che magari non si verificheranno. O forse sì. Insomma, pura paranoia interattiva. Per raggiungere un tale obiettivo -piuttosto alto per la sintassi solitamente piana di un gioco- gli sviluppatori hanno operato in due direzioni. Dapprima, minando la familiarità data dall’esperienza. Grammatiche e stili differenti, rispetto agli horror del passato: sia Project Zero che Silent Hill, com’anche il recente Alone in the Dark, per fomentare la paura usavano i soliti meccanismi in maniera intensiva, reiterandoli per l’intera durata dell’avventura. Chiaro che alla lunga la tensione tendeva ad allentarsi, intervallando salti sulla sedia a crassi sbadigli. Dead Space, invece, stuzzica l’emotività sovraccaricando la scena con un numero impressionante di stimoli visivo-sonori, volti a rendere meno prevedibile il ritmo di gioco e viva e organica l’ambientazione. I punti di riferimento risultano dunque estremamente fuorvianti, appigli scivolosi che spesso ingannano, dissimulano, impedendo la lettura corretta della situazione, acuendo così tensione e frustrazione. I colpi di scena, nonostante siano assolutamente scriptati, sono quindi fantastici nella loro crudele imprevedibilità. Cinque minuti passati a girovagare tra bagni, spogliatoi e corridoi baciati dai riflessi esterni delle stelle, e a riprenderci dal combattimento furibondo appena terminato. L’allarme è ormai suonato da un pezzo, e la debole luce rossa cerca di illuminare quello che può. Ergo, quasi nulla. Ombre allungate e contorni vermigli sono tutto ciò che riusciamo a decifrare. I corpi martoriati dei Necromorph giacciono a terra: quelli sì, li vediamo per bene. Premiamo RS per attivare la scia luminosa (disattivabile) indicante il tragitto da seguire: conduce ad uno sportello elettronico. Dopo quella bolgia infernale, la prossima stanza sarà giocoforza all’insegna del “liscio come l’olio”. Poi, un movimento dietro di noi. Svelto, fugace, quasi impercettibile. Ma lo notiamo. Puntiamo il plasma cutter, fendendo il buio con la torcia di cui è dotato. Niente di niente. Apriamo la porta elettronica. Passi, veloci, provenienti da tergo. Ci voltiamo nuovamente, stavolta con un briciolo di apprensione in più. Ancora una volta, non c’è nulla, e respiriamo, nel gioco e nella realtà, coi piedi ancora puntati tra le due stanze. Quando finalmente capiamo dov’è il simpatico essere con le chele, la nostra testa sta già fluttuando, in una pioggia di sangue e lacrime.
    Il secondo punto di forza è l’atmosfera. Claustrofobica, insana. Nient’altro? Già che ci siamo, aggiungeremmo anche corrosiva. L’avevamo segnalato nelle anteprime precedenti: i rimandi a cult movie cinematografici come ‘Alien’, ‘La Cosa’ e ‘Punto di non Ritorno’ non si contano. Beninteso, siamo ben lontani da un citazionismo di grana grossa: la rilettura dei sotterfugi narrativi e registici dei capolavori di cui sopra è stata profonda e a beneficiarne è anche la fotografia. In soldoni, l’illuminazione ambientale è assolutamente fenomenale, e non solo sotto il profilo tecnico. La cifra stilistica restituisce un’immagine tagliata da schizzi di luce infidi, un chiaroscuro talvolta straniante che ama gingillarsi giocando col “vedo, non vedo”.
    Vogliamo parlare del sonoro? Allo stridore urlato dei violini, che irrompe nelle scene più concitate, fa da contraltare una miscela composta da urla lontanissime e disumane, da un vociare sommesso, da bisbigli lamentosi, da rumori metallici e di passi; il tutto pronto ad alternarsi coi profondissimi silenzi regalati dal gioco, cadenzati solo dal respiro affannoso del protagonista.
    Trama e sceneggiatura, sebbene saccheggino bagagli tematici non propriamente originali (eufemismo), affrontano questioni come religione, progresso, politica e genetica con piglio maturo, e con coraggio. Ne riparleremo quando avrete visionato di persona il secondo livello, nella fattispecie uno dei laboratori deputati alle ricombinazioni genetiche. Il sopraggiungere dei Necromorph non è che una parentesi -piuttosto dolorosa, a onor del vero- di un intreccio narrativo che merita di essere valorizzato e conosciuto nel suo complesso.
    Lo spettacolo di cui si è sfortunatamente testimoni colpisce, vuoi perché raccapricciante, vuoi perché talune immagini sono così forti che è difficile scacciarle dalla mente. E sì che di giochi ne abbiamo visti tanti. Tra i meandri dell’Ishimura, gruppi di sopravvissuti respirano ancora. Certo, la loro condizione mentale è tutta da verificare, ma ci sono, sono lì, in bilico tra la morte e qualcosa di ancora più orrendo. Livello numero 2. Cadaveri sbatacchiati un po’dappertutto. Sentiamo piangere, alla nostra sinistra. Ci voltiamo con gli occhi di chi non vorrebbe guardare. Una madre (?) è riversa sul corpo sventrato di un uomo. Piange. Forse si accorge della nostra presenza, e alza lo sguardo. Continua a biascicare parole che non comprendiamo, ma tanto non sta parlando con coi. Restare indifferenti, a livello emotivo, è comunque difficile. Un’ultima carezza, un’occhiata veloce al nostro indirizzo, prima di conficcarsi qualcosa nel cervello, e morire.
    Poco più avanti, un tunnel scuro e trapassato dal vapore aspetta solo di essere attraversato. Qualcosa sbatte contro qualcosa. Una tubazione rotta, forse. O magari uno sportello elettrico mal funzionante. Niente di tutto questo. E’ un uomo. In fondo al corridoio, con un faretto puntato addosso che lo erge dalla penombra. Sbatte la testa contro un paletto. Con forza. Inutile dire che l’impatto scenico di questo scorcio è sbalorditivo. Perché spiazza. Che facciamo, ci avviciniamo? Lo freddiamo? Ma è pur sempre un uomo, con le budella in bella mostra però. Il portavoce EA seduto vicino a noi s’ammutolisce. Attendiamo qualche istante, poi ci muoviamo. A metà dell’anfratto, un colpo deciso e lo vediamo crollare, col cranio fracassato.

    Per ciò che attiene alle armi ed al sistema di controllo, nulla è cambiato rispetto a quanto riportato nelle anteprime precedenti. Quello che ci interessava capire era se le varie componenti di gioco interagissero fra loro in modo omogeneo, o fossero separate da un gameplay a compartimenti stagni. I primi due livelli, benché tutoriali, sono stati piuttosto esplicativi: azione ed esplorazione si uniscono ad un puzzle solving incorporante elementi didascalici alla RE (recupera la chiave per aprire la porta) ed altri decisamente più frizzanti, che si appoggiano sia all’accessorio antigravitazionale in dotazione, che alla stasi (la funzione che permette di “congelare” per qualche istante nemici ed oggetti, rallentandone i movimenti). Chiaro che inizialmente gli enigmi risultano piuttosto accessibili (incastrare parti meccaniche negli appositi alloggi via GG; spostare elementi e piattaforme per agevolare il passaggio; rallentare portelli elettronici difettosi, per oltrepassarli senza rischi). Gli sviluppatori hanno comunque promesso che l’uso della materia grigia sarà fondamentale per il prosieguo dell’avventura almeno quanto avere stomaco e nervi saldi. Le premesse sono quindi veramente ottime.
    Da considerare inoltre le stanze prive di ossigeno e a gravità ridotta. La distorsione dell’immagine, che si sporca nei contorni e nella definizione durante la decompressione, è di sicuro impatto, ma ciò che conta è la tensione provocata dalla mancanza di aria buona da respirare. Ne incontriamo una. Nessun compito specifico, dobbiamo solo attraversarla. Entriamo: lo spettacolo è abbacinante. La fusoliera è sventrata, e restiamo qualche secondo ad ammirare stelle, pianeti e l’acqua fuoriuscente da un canalino rotto del soffitto, che fluttua prima di ghiacciarsi. Poi l’affanno ci schiaccia. Fiato corto. Niente panico. Cominciamo a correre, ma l’ambiente è piuttosto angusto e sbattiamo ripetutamente contro le pareti. Il ticchettio della tuta non ci dà tregua. Stiamo per lasciarci la pelle o, meglio, per esalare letteralmente l’ultimo respiro. Ok, panico. Vigliacchi fino al midollo, torniamo da dove siamo venuti e ci salviamo in corner. C’è sempre tempo per ritentare.
    Gli ambienti a gravità zero (che incontriamo nel secondo livello), sono sostanzialmente un gioco nel gioco. Sulle prime, anche le cose più semplici diventano complesse, poiché è necessario ragionare in maniera diversa. Le strutture di movimento canoniche perdono di valore, non esistono pavimento e soffitto, proprio perché i concetti di sotto e sopra si svuotano di significato. E’ straniante, il ribaltamento di prospettiva, giacché facilita l’arrivo del pericolo da ogni dove, ma è anche denso di possibilità. Due batterie da trovare ed allocare, una porta da aprire. Capiamo il dove, ma non il come. Come raggiungerla? Camminando? No, lanciandosi. Premendo contemporaneamente LT ed Y Isaac effettua un vero e proprio tuffo nel vuoto, utile anche in previsione dei combattimenti, che puntualmente ci verificano. I Necromorph spuntano dalle tubature. Anche per loro, comunque, l’assenza di gravità è una sorpresa inattesa ed infatti faticano a circondarci a dovere. Schiviamo, tuffandoci, un paio di bestioni. Da una piattaforma, assistiamo al dimenarsi volante di due alieni piuttosto contrariati. Tramite la gravity gun richiamiamo un’invitante bombola rosso fuoco e la spediamo al loro indirizzo. Sperando che possano apprezzare il gesto...
    I combattimenti sono violenti e cattivi al punto giusto. I Necromorph sono mossi da una IA reattiva e differenziata per tipologia, fermo restando che ciò che li rende davvero temibili è il connubio fra velocità e resistenza ai colpi.
    Sparare alle gambe (qualora presenti) e finirli schiacciandone il cranio coi piedi (RB) è una prassi imprescindibile. Se in gruppo, utilizzare la stasi per bloccarne i movimenti è sicuramente una mossa intelligente. Ma Dead Space è un survival horror, non un third person shooter. Che succede quando le munizioni scarseggiano? Perché scarseggeranno, fidatevi. Come la mettiamo quando l’indicatore della stasi fa segnare il “tutto esaurito”? Fin da subito, il gioco EA mette in difficoltà, spronando a non fossilizzarsi su meccaniche vecchie bensì a pensare in maniera diversa. Si può sempre ricorrere alla gravity gun ed utilizzare arti amputati (chele affilate, per esempio) per tagliuzzare gli abomini ancora in piedi. O si può anche scappare, perché bastano un paio di morsi per finire vittima sacrificale nei loro rituali di smembramento. I nemici lasciati in vita, però, hanno la sgradevole tendenza ad inseguirci tramite i condotti dell’aria e l’eventualità che si ripresentino nei momenti meno opportuni è tutt’altro che remota. Infine, la gestione del menù in real time non consente distrazioni o attimi di pausa, anche quando si è alla disperata ricerca di un med kit. In questo senso, sarebbe stata preferibile l’assunzione automatica di kit medici (se presenti nell’inventario) in caso di prossimità alla morte, visto che correre col menù-ologramma che occlude la visuale non sicuramente il massimo della funzionalità.
    Le armi, dotate di una funzione secondaria (che può essere il cambio di orientamento -verticale/orizzontale- del plasma cutter o la granata dello sparachiodi), possono essere migliorate negli appositi banchi disseminati nella nave, previo il recupero del congruo numero di nods. Senza quest’ultimi, scovabili negli armadietti o in contenitori strategicamente nascosti, non si va da nessuna parte. Ogni upgrade (danni inflitti, capacità, velocità di ricarica e di fuoco per le armi; aumento del tempo di stasi; potenza del congegno antigravitazionale) costa dunque un determinato numero di nods, fattore che inietta sostanza alla fase esplorativa.
    Inizialmente la tuta è differente sia per cosmesi che per caratteristiche da quella solitamente intravista nei video. Più grezzo e spartano, il vestiario di livello 1 si addice proprio ad un tranquillo ingegnere minerario. Per gli upgrade (resistenza, ossigeno, livello energetico), ma anche per comprare nuove armi, è necessario rivolgersi agli shop automatici. Qui entrano in gioco invece i crediti racimolati nel corso dell’avventura. Inoltre, il negozio è utilizzabile per depositare i propri orpelli in eccesso (è possibile anche abbandonarli: l’inventario non è infinito), che poi ritroveremo anche negli altri punti vendita sparpagliati per il gioco.
    Infine, confermata la presenza abbondante di boss di fine e metà livello particolarmente mastodontici. Per la cronaca, il mostro “mezzano” del sesto capitolo è alto due volte Isaac Clark.
    Difficile chiedere di più.
    In Dead Space i tocchi di classe sono di casa. Tecnicamente è davvero sopraffino, d’accordo, con texture di pregio ed effetti di luce e particellari da applausi, ma questi da soli non sarebbero bastati a renderlo la perla che in effetti è. Il producer del gioco, Glen Schofield, ha semplicemente imposto che ogni immagine risultasse artisticamente raffinata, tagliata da filtri particolari capaci di elevare l’estetica al di sopra di una grafica semplicemente “bella”. Tutto è minuziosamente curato, dai logo della Ishimura, ai cartelli pubblicitari (i quali, fra l’altro ospitano gli stessi membri del team di sviluppo), fino ad arrivare agli oggetti che decorano la scena.
    Ottimo e soprattutto funzionale il modello fisico: Dead Space -sebbene si diletti con la gravità- non verrà certo ricordato per questo o per l’interazione ambientale, che si rinetra dunque nella norma delle produzioni dell’attuale generazione.
    Ottime anche le animazioni, che riflettono il peso crescente dell’armatura, e la stanchezza del protagonista. Del sonoro si è già parlato, ma del doppiaggio no. In inglese, è assolutamente perfetto e compensa la mediocre espressività degli NPC. Della traccia italiana, abbiamo potuto apprezzare un paio di voci (competenti e professionali), oltre alle parti registrate da Dario Argento. Certo l’appeal commerciale che una tale operazione può comportare è elevato, ma al momento la traccia sonora deve essere lievemente rivista. Argento è sì un ottimo regista, ma deve impegnarsi di più per risultare incisivo come doppiatore. L’impegno c’è, e tanto, e EA ci assicura che il risultato finale sarà più che buono.

    Dead Space Dead Space, in uscita il 24 Ottobre su Xbox 360, PS3 e PC, è il perfetto punto di contatto fra una certa scuola di survival horror e le possibilità fornite oggi dalle piattaforme HD. Appassiona, crea suspense e terrorizza sia con un gameplay eterogeneo che con una scrittura narrativa matura. Serve altro? Sì, dei contenuti scaricabili. Ma di questo parleremo nella prossima recensione.

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