Provato No More Heroes

Il primo impatto con l'opera di Suda 51

Provato No More Heroes
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Disponibile per
  • Wii
  • Pc
  • Doverosa premessa: per gentile concessione di Atari Italia, Everyeye ha potuto sviscerare a fondo la versione italiana di No More Heroes. In accordo però col recente posticipo della data di uscita, si è deciso di proporre ora solo un fugace resoconto del nostro hands on contenente le prime impressioni scaturite da un titolo che -ne siamo certi- farà parlare a lungo di sé. Un’opera, quest’ultima di Suda 51, che gongola alla luce riflessa dalle molteplici sfaccettare che lo compongono, ognuna delle quali splendente di elementi meritevoli di menzione, riflessione e approfondimento.

    No More Heroes rappresenta uno spaccato importante dell’odierna Game Culture, un compendio imprescindibile per chiunque abbia amato o tuttora ami il videogioco, perchè capace di concertare entro le mura di una struttura di gioco familiare un lirismo visivo composito e effervescente, il cui studiato parossismo è lo scrigno esagerato che conserva uno dei più genuini omaggi alla storia del divertimento interattivo. Uno stravagante atto d’amore per un’arte che sta tutt’oggi attraversando una travagliata fase adolescenziale, strattonata per le maniche sia da una critica ancorata a stilemi giornalistici stantii, che dall’acerbità della stessa industria.
    A monte risiede la chiave stilistica, unica, inconfondibile, che assapora il gusto della citazione con rimandi cristallini all’epoca in cui i pixel erano ancora ben visibili sullo schermo. Ogni soluzione grafica adottata pesca ispirazione dal pozzo mai prosciugato del retrogame, senza però intenti parodistici. Icone, font utilizzati, organizzazione del menù, rivendicano un ruolo diverso dal dimenticatoio in cui sono stati accantonati giacché vessati dall’obsolescenza. No More Heroes ci pone una volta di più dinanzi all’immaturità di un settore di mercato volta interamente al futuro, recalcitrante nei confronti di un passato che non solo non glorifica, ma che spesso rinnega, se non nelle operazioni “raschia barile” (leggasi: compilation) che tanto hanno proliferato in questi ultimi anni. Lungi dall’essere una mera retrospettiva, il titolo di Grasshopper Manufacture titilla le nostre corde emotive giocando sulla linea del tempo, fondendo moderno e antico in un impeto artistico che va oltre lo “stylish” propugnato, ad esempio, da Viewtiful Joe. Laddove nella creazione di Clover Studio era palese la volontà di tendere alla perfezione stilistica, seppur nei termini di una “vecchia” ossatura bidimensionale, in NMH c’è del grezzo, o meglio il passato così come si presentava. Una scelta di significanti e significati visivi non casuale o meramente decorativa, bensì pregna di connotazioni storiche dalla cui mescolanza l’unico fattore che evidenzia tendenze anacronistiche -e quindi non più valide- è l’accezione stessa del termine “retrogame”. Il monito del designer nipponico appare fumoso solo agli occhi di chi non vuol vedere: il prefisso “retro” è svilente e decurta il valore di un continuum temporale che non si frantuma ad ogni salto generazionale, o alla comparsa di un hardware più performante, ma che al contrario persiste come patrimonio culturale dal quale si possono attingere inestimabili risorse tanto stilistiche quanto di design.
    Si pensi ancora al sonoro: l’andamento musicale di No More Heroes risuona in chiave attuale i jingle stralunati ed ossessivi dei giochi di vent’anni fa, armonizzandoli con effetti assordanti e melodie che trasudano le ingerenze della coeva cultura pop. Il risultato riempie l’orecchio in maniera compulsiva -sferzate della katana frapposte al ridondante tintinnio dei soldi vinti ad ogni uccisione mischiato alle grida furiose degli avversari miscelate al meccanico rollio della slot machine che controlla le mosse speciali...può bastare?- e definisce ulteriormente una scena di gioco che gode di un proprio ritmo interno, furioso quanto si vuole, tuttavia mai caotico o scompaginato. Solo dannatamente incalzante. E meravigliosamente anni ’80.
    Le inserzioni iconiche di No More Heroes, comunque, non timbrano il proprio cartellino solo nel videogioco che fu. I suoi filamenti fuoriescono dalla bolla che racchiude il medium per intersecarsi con quelli del cinema, per esempio, eludendo però il limite della mera citazione. Star Wars e Ritorno al Futuro sono le fonti primarie, le coperte più calde con cui scaldare gli animi degli spettatori. Ma c'è dell’altro, naturalmente. Il superamento di alcune barriere, come quello della quarta parete, o l’adottamento di stratagemmi narrativi che strizzano l’occhio alle opere di un guru come Kojima.
    No More Heroes sa di essere un videogioco, non si nasconde dietro paraventi stereotipati presi in prestito dalle altre forme artistiche. Punta forte sull’anticonvenzionale per spiazzare ed interdire. Ribaltamenti dell’inquadratura, inversione dei comandi, filtri grafici allucinanti si sposano ad un character design fuori da ogni logica, animato da un contorta assimilazione del “politicamente scorretto”.
    Ciò che ci rimane da capire è se la coerenza della forma scenica possa compensare in qualche modo le manchevolezze di quella tecnica. Perché, come vedremo nella recensione, il motore grafico non è esente da difetti. Né la meccanica di gioco riesce a defilarsi del tutto da una certa pesantezza, dovuta in gran parte alla ripetitività che scorre soprattutto nelle parti ambientate in città. E’ bene comunque evitare fraintendimenti: NMH non è GTA. Sicché la funzione di Santa Destroy non è la stessa di Liberty, Vice City o San Andreas. Qui non vi è nulla del protagonismo ambientale dei titoli Rockstar North. La città appare piccola, con ben poche attrattive, chiusa in sé stessa, popolata da un nugolo apatico di individui pronti solo ad essere stirati dalle ruote della nostra moto. E’ perfettamente funzionale alle esigenze del protagonista, alle sue ossessioni e passioni. Non alle nostre. E’ fatta a misura di Travis Touchdown. L’errore degli sviluppatori, sempre se così si può definire, è stato quello di diluire l’esperienza ludica in maniera eguale tra le fasi cittadine (lavoretti secondari, missioni da killer) e quelle dedicate ai combattimenti classificati, dividendole e bipartendo di fatto il gameplay in due tronconi che faticano ad amalgamarsi. E’ il design a scricchiolare, non la visione originale.
    Ne riparleremo diffusamente fra qualche giorno.

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