Si possono dire tante cose sul lavoro di David Cage, sul suo modo di trastullarsi creativamente con i confini che dividono film e videogioco. Si possono sottolineare i difetti di sceneggiature con qualche buco narrativo di troppo, i limiti di un comparto ludico tutt'altro che preponderante, o perfino discutere sull'effettiva rilevanza delle scelte offerte dai giochi di Quantic Dream.
Quello che proprio non si può dire, però, è che i lavori dello studio francese siano produzioni povere di cuore, incapaci di trascinare i giocatori in un vortice di emozioni e ricordi memorabili. Un'eredità potente, che Detroit: Become Human punta a rielaborare in una delle avventure narrative più libertarie di tutti i tempi, portando il consueto modus operandi di Quantic Dream verso vette mai raggiunte finora. Un proposito ambizioso, anima di un titolo che immerge i giocatori in un mondo dalle sfumature cyberpunk, promettendo loro un controllo pressoché totale sul dipanarsi delle vicende narrate. Con tanta carne al fuoco, potete tranquillamente immaginare il livello dei nostri tumulti tantrici quando, nel mezzo di un evento milanese dedicato al gioco, ci siamo trovati a poter giocare (praticamente per intero) il primo atto dell'avventura. Due ore e mezza che ci hanno lasciato nel cuore un tornado di sentimenti contrastanti... ed è assolutamente una cosa buona.
L'alba dell'androide
Passi brevi e misurati lungo il vialetto centrale di un parco assolato. Immerse nel verde, scene di placida quotidianità: bambini che giocano, chiacchiere di cortesia tra passanti, il ritmico scalpitare del traffico in lontananza. Al centro della scena, un uomo dal portamento elegante, composto, perfettamente integrato nella serena "normalità" del contesto. Pochi metri e la scena cambia totalmente, aprendosi su un piccolo tassello di frenesia urbana, tra macchine in attesa al semaforo e il rapido viavai dei pedoni davanti all'ingresso di un grande centro commerciale. Una rottura che offre uno spiraglio su di un mondo ben meno accogliente, specialmente per noi.
La prima sequenza di Detroit: Become Human ci cala nei panni di quello che, in un futuro non lontano, sarà il leader di una rivoluzione della coscienza, guida di un esercito di macchine schierate contro il dominio dell'umanità. Ancora schiavo della propria programmazione, Markus deve svolgere alcune semplici commissioni per il suo umano, l'anziano pittore Carl Manfred. Non si tratta, almeno all'apparenza, della più potente delle aperture, eppure tanto basta perché Detroit: Become Human manifesti apertamente almeno alcuni dei suoi principali punti di forza. Al termine della scena, infatti, il titolo ci offre uno sguardo alla prima "flowchart" generata dalle scelte operate dal giocatore. Un semplice diagramma di flusso che riporta tutti i bivi e gli snodi "decisionali", presenti nella scena appena giocata, evidenziando il percorso seguito senza esplicitare dettagli su nessuna delle strade mai imboccate. Una discrezione che, tra l'altro, titilla con vigore la curiosità del giocatore, in grado, al termine di ogni scena, di selezionare specifici punti nodi della "flowchart", per affrontare nuovamente la sequenza e optare per un diverso corso d'azione. Si tratta di una scelta di design intelligente, che rende subito palese, agli occhi dei giocatori, la qualità dell'ampiezza decisionale offerta dal titolo, manifestazione di una sceneggiatura aperta il cui andamento può essere modellato a piacimento da chi stringe il controller. Un punto, quest'ultimo, ribadito a più riprese dal game director David Cage, che con Detroid punta a raggiungere la piena espressione di quella formula di contaminazione cinema-videogioco inaugurata ben tredici anni fa con l'uscita di Fahreneit.
È difficile stabilire, dopo solo poche ore di gioco, se questa promessa sia stata effettivamente mantenuta, quanto sia davvero consistente l'intreccio e che peso abbiano le decisioni dell'utente sulla trama portante, determinata dallo spazio, importantissimo, tra le diverse "flowchart". Sappiamo però per certo che esiste un intero universo di microscelte in grado di modificare, anche radicalmente, l'andamento di ogni singola sequenza. E non parliamo solo delle percentuali di successo come negoziatore del poliziotto sintetico Connor, ma di piccole deviazioni narrative, azioni all'apparenza insignificanti, capaci di generare "effetti farfalla" concretamente percepibili. In una sequenza piuttosto avanzata nei panni di Kara, ad esempio, siamo stati scagliati nel cuore di Detroit, sotto un lugubre mantello di pioggia battente, con l'obiettivo di trovare un riparo sicuro per Alice, appena sottratta alle grinfie del padre orco Todd. Senza macchiarsi dell'infamia dello spoiler molesto, possiamo dirvi che, nello spazio di un incrocio stradale, le interazioni tra Kara, l'ambiente e i personaggi, ci hanno permesso di intravedere almeno tre soluzioni alla nostra urgenza del momento, con esiti radicalmente differenti. Nell'arco di una manciata di minuti, avremmo potuto mancare totalmente l'incontro con un personaggio importante, finire anzitempo nel mirino delle forze dell'ordine, e perfino perdere del tutto la fiducia della nostra piccola protetta. Tutto questo, ovviamente, al culmine di una serie eventi perfettamente coerente con le vicissitudini passate di Kara, determinate dalle nostre azioni in-game. A fare la differenza è sempre la condotta che si decide di seguire, nei panni di personaggi meravigliosamente caratterizzati, in grado di proiettare nell'animo del giocatore una gran quantità di suggestioni emozionali. D'altronde proprio l'emozione, nella sua forma più dirompente, è la chiave dell'evoluzione degli androidi di Detroit in Deviant, liberati da uno shock che genera un preciso un "imprinting" caratteriale. L'umanizzazione di Kara, ad esempio, viene innescata dalla volontà di difendere Alice dagli abusi del padre, un desiderio di protezione che definisce per intero la natura "deviante" dell'androide. L'emozione che affranca Markus è invece la rabbia, lo sdegno di chi non riesce più ad assistere passivamente a un'ingiustizia, il prodotto più spregevole della libertà dell'uomo dai vincoli asimoviani.

La trasformazione in Deviant dei tre protagonisti è un punto cardinale della trama, e il modo in cui viene gestita, le variabili connesse a questo evento drammatico, contribuiscono a rafforzare la fiducia nel lavoro svolto dal team di sviluppo per estendere peso e portata del libero arbitrio in dote al giocatore. Guardando il dipanarsi degli eventi attraverso gli occhi di Kara, Markus e Connor, gli utenti possono ad esempio decidere di non assecondare affatto la "devianza", rimanendo nei limiti della programmazione e innescando così avvenimenti tanto sorprendenti quanto - a volte - drammatici.
Una prospettiva che ci lascia spazio per sognare le possibili implicazioni di "imprinting" caratteriali diversi da quelli visti finora, scatenati da emozioni differenti. Tenete a mente che scelte dei giocatori possono persino condurre tutti e tre i protagonisti a una morte prematura, che tronca in maniera definitiva lo scorrere della trama ben prima di aver raggiunto uno dei molteplici finali, in coda a una sceneggiatura che, tra svolte e incroci, conta oltre 3000 pagine, trenta volte la lunghezza media di uno script cinematografico.
Il peso della coscienza
Il concerto di potenza audiovisiva e libertà decisionale messo in piedi da Quantic Dream è così efficace da stimolare il coinvolgimento del giocatore nei momenti più inaspettati, anche quando le regole del gameplay lo costringono ad assecondare ligiamente i limiti della programmazione dei protagonisti. Nei panni di Kara, alle prese con le faccende casalinghe imposte dal suo abietto padrone, ci siamo sentiti impotenti, faticando a gestire i moti di stizza evocati dalle minacce rivolte da Todd alla figlioletta.
Sommovimenti emozionali che permettono di entrare in sintonia con i personaggi, di sentire il peso, soffocante, delle catene di codice che tengono in scacco la mente dei sintetici. Detroit: Become Human è la storia di un gruppo di androidi, e su questo non c'è dubbio, ma la sensazione è che l'occhio di David Cage indugi molto spesso sui lati più oscuri dell'umanità, con un'alternanza di ottiche che tenta di definire, in maniera mai banale, il concetto stesso di "umano". Una ricerca che parte dalla base forte, coinvolgente, di un mondo che risuona fortemente col nostro, dove si radunano folle schierate contro uno specifico gruppo sociale, quello degli androidi, accusato di "rubare il lavoro" e corrompere la società. Un campionario tematico che offre continui inviti alla riflessione, senza però imporre forzature prospettiche, muovendosi sempre - o quasi - nel campo dell'ambiguità morale, giocando con i limiti del concetto di giustizia e di diritto. Può un essere umano abusare a suo piacere di quello che è indiscutibilmente sua creazione artificiale? Che peso hanno nella risposta l'ombra del pensiero senziente, o le sembianze antropomorfe dell'oggetto in questione? E la coscienza? Una serie di interrogativi che il titolo deposita in fondo all'animo del giocatore in maniera spesso sottile, immergendolo in un mondo che ingloba richiami alle leggi di segregazione razziale di inizio ‘900, ai rischi dell'automatizzazione del lavoro e agli aspetti più spaventosi della singolarità tecnologica. Una gamma di influenze che Detroit gestisce senza mai esibirsi in facilismi morali o lezioncine da pulpito, lasciando il giocatore libero anche di accordare il suo universo interiore allo scorrere delle vicende. Forse è proprio per questo che, del terzetto, il personaggio che ci è rimasto più nel cuore è il freddo Connor, l'androide che, nella nostra esperienza, più di tutti incarna questo percorso di crescita, riflesso del progressivo incedere sulla strada del coinvolgimento.
Connor è l'unico personaggio che non abbiamo visto trasformarsi in deviant, assistendo invece ad un'evoluzione più lenta, scandita dalla graduale erosione delle sue direttive come macchina al servizio dell'uomo.
Un viaggio che comincia con un gesto piccolo, sempre subordinato alle scelte dell'utente, che può permettere a Connor di salvare la vita a un pesciolino morente, caduto a terra da un acquario ormai distrutto. Una variabile apparentemente insignificante in una scena, quella dell'ostaggio, con ben altre priorità, ma che comunque segna un piccolo passo verso l'autocoscienza dell'androide, l'unico, in una stanza piena di umani, ad essersi curato di quella minuscola esistenza. Sempre con Connor abbiamo sperimentato anche gli aspetti più freschi di una formula di gameplay che non si allontana mai troppo dagli schemi ludici di Heavy Rain. Un complesso di dinamiche che determina sia le interazioni ambientali dei personaggi, sia gli snodi dialogici, fino ad arrivare a QTE di grande effetto, il cui fallimento - anche parziale - può comportare alterazioni significative del percorso narrativo. Pur non stravolgendo il canone delle avventure "made in Quantic Dream", alcune scene con Connor ci hanno permesso di fare un'occhiata ad alcune interessanti variazioni sul tema, diverse dalle sequenze investigative già testate in passato.
Nel corso di un interrogatorio, ad esempio, il giocatore era chiamato a gestire attentamente i livelli di stress del prigioniero, modulando l'aggressività delle proprie interazioni per convincere il soggetto a svuotare il sacco senza farlo sentire né troppo blandito, né troppo minacciato. Anche in questo caso, rigiocando la scena, abbiamo assistito ad esiti molto diversi tra loro che, per forza di cose, non possono fare a meno di esercitare un'influenza consistente sul futuro del personaggio. Ad aumentare l'efficacia di questi momenti, sempre caratterizzati da un forte impatto emotivo, c'è anche una recitazione eccellente, digitalizzata alla perfezione da un comparto tecnico che offre spiragli di next-gen. Al netto di qualche piccola asperità, soprattutto per quel che riguarda la modellazione degli elementi di contorno, l'ultima demo di Detroit conferma infatti la promessa di un comparto tecnico assolutamente all'avanguardia, che si manifesta in una resa dei materiali per la gran parte impeccabile, cui si accompagna un comparto animazioni di altissimo profilo.
Si nota qualche piccolo cedimento qualitativo, specialmente quando il controllo del personaggio passa direttamente al giocatore, ma il pregio dell'ensemble si attesta su livelli clamorosi, grazie anche alla regia virtuale di un Cage in forma eccellente, che amplifica il trasporto emotivo con movimenti di camera precisi e ben ritmati. Un flusso di immagini nel quale si innesta un ricco mosaico di sonorità che ne esalta ogni fotogramma, in una sinfonia le cui fluttuazioni d'intensità si accordano alla perfezione con lo stato d'animo del pubblico. Detroit, lo si capisce sin da subito, è un titolo che non teme di spiazzare il giocatore, dispensando colpi bassi all'animo e precipitandolo in situazioni con una forza evocativa inedita per la storia curricolare di Quantic Dream. Un trascinamento catalizzato da un gameplay sicuramente non rivoluzionario, ma che si accorda perfettamente con una messa in scena ad alto tasso di pathos, a tratti sconvolgente. Tutti elementi che rendono ancor più "pesanti" le responsabilità del giocatore, tra le maglie di una storia di cui è al contempo autore e protagonista. Al momento non siamo in grado di dire se Detroit: Become Human saprà sfuggire ai difetti dei suoi predecessori, ma non possiamo negare che il poco tempo passato in compagnia del nuovo gioco di David Cage ci ha lasciato dentro un tesoretto di pensieri e suggestioni, portando a quota "hype" le nostre aspettative nei confronti della prossima esclusiva targata PlayStation.