Dying Light provato all'E3 2014: uno zombie game convincente

Il frenetico survival horror di Techland, seppure ancora acerbo, convince sul fronte dell'atmosfera e dei controlli

Dying Light provato all'E3 2014: uno zombie game convincente
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Disponibile per
  • Pc
  • PS4
  • Xbox One
  • Xbox One X
  • PS4 Pro
  • WB Games ci crede. Techland ha dato prova di sé alla grandissima con Dead Island e dunque la scelta era abbastanza ovvia. Dying Light, la nuova IP inscenata nel bel mezzo di una apocalisse zombie, funziona, diverte, terrorizza. In sintesi: rinviatelo pure, ma se le premesse sono queste, avete la nostra benedizione. Premesso questo, un pizzico di disappunto: la mini demo presente sullo showfloor dell’E3 2014 non è che un timidissimo aperitivo di quanto seguirà il prossimo febbraio. Nuove info però non hanno tardato ad arrivare all’orecchio e consentendoci così di fare il punto su uno dei survival più attesi, e soprattutto più promettenti, del 2015. Dying Light sarà disponibile su PC e console old e next gen.

    Senza tregua

    Spazziamo il campo: Dying Light ha la carica giusta per diventare un piccolo grande classico del genere. I primi momenti sono infatti folgoranti e spiegano per bene le dinamiche soggiacenti, così come i rimandi e i distacchi da Dead Island. Il mondo di gioco, totalmente open world e tratteggiato alla stregua di evidenti paesaggi sudamericani, non solo stupisce per generosità, in termini di estensione, ma è anche pregno, ricco, gonfio di strutture in cui svicolare, e su cui aggrapparsi per tentare di scampare agli abbracci indesiderati. L’ambiente è svincolato da qualsiasi costrizione ed accoglie al suo interno, perlomeno nella brevissima demo testata, veramente di tutto. La zona collinare, tagliata in due da un’autostrada e punteggiata da palazzi e casupole affastellate le une sulle altre, in un pericoloso dedalo di viuzze e arterie principali, pullulava letteralmente di zombie, disegnando un ambiente piacevolissimo da esplorare, sebbene girovagare a zonzo, o a caso, facendo leva magari su una botta di fortuna, è il metodo migliore per crepare. Lo studio ed il controllo del territorio è di fatto fondamentale e potrebbe rappresentare lo spartiacque per una missione riuscita e un cervello mordicchiato. Le dinamiche parkour, mediate anche da Mirror’s Edge, rispondono a dovere, regalando soddisfazioni saporite. Il protagonista non è chiaramente un atleta, dunque salti ed eventuali atterraggi vanno ponderati a dovere, con il giusto tempismo sul tasto dorsale per non veder vanificata la presa.

    Il risultato è un’interazione ambientale convincente, utilissima ad immergere il giocatore in un climax ascendente, se non proprio vertiginoso. La sequenza che abbiamo giocato, prosaicamente uno spostamento da un punto A ad un punto B, laddove il secondo rappresenta una safe house da liberare da una comitiva di non morti per poi attivarne la chiusura dall’interno delle varie porte, ha rivelato un carattere decisamente coerente con il mood apocalittico. Se è vero che l’intento originale del team era quello di mostrare cosa farebbe un essere umano medio alle prese con un inferno di carne deambulante in putrefazione, non possiamo che ritenerci appagati: correre, correre ed ancora correre, saltando muri, reti divisorie, arrampicandoci con le unghie e con i denti sui tetti degli edifici più bassi o delle automobili, cercando un riparo che, di fatto, non esiste. Ogni angolo, ogni anfratto, può rivelarsi letale. C’è anche da dire che, a fronte di un numero impressionante di personaggi su schermo, divisi per tipologie e abbozzamenti di ruotine comportamentali differenziate, la loro carica aggressiva si perde mentre sfrecciamo a perdifiato, tentando di dribblarli.

    Il discorso cambia radicalmente di sera, che vede l’arrivo di sentinelle assai più aggressive, veloci e dotati di sensi meglio sviluppati e abituati a localizzare la preda. Con una minimappa privata di alcuni importanti riferimenti ed una visibilità ridotta sotto la soglia della paura pura, la notte di Dying Light è un postaccio mortalmente fascinoso. Utilizzare un approccio più accorto, evitando di fare baccano, magari saltando in maniera sottile sui tettucci o su superfici plastiche traballanti dedite alla produzione di rumore, tanto rumore, è davvero utilissimo. Chiaro che, nonostante la natura open world, il gioco inserisca, nel corso delle missioni, elementi che amplificano il senso di urgenza, di tensione, la necessità di fuggire senza guardarsi indietro con gli occhi iniettati di sangue.

    Mille modi per morire

    Rispetto a Dead Island è migliorato, nelle reazioni, nella gestione delle distanze, il sistema di combattimento: i colpi sono sì lenti, sì impallati, ma esprimono benissimo la natura terrorizzante del gesto, e la potenza nel fracassare il cranio di chi ci vuole male. Il tempismo è tutto, così come la gestione della fatica. I colpi alla testa, sempre ben accetti, sono però merce rara. Fiaccare i nemici, o rallentarli, per poi colpirli da dietro con una mazzuolata decisa è invece un modus operandi che potrebbe dare buoni frutti sulla media distanza. Le armi predisposte per l’hands on lasciavano intuire una buona varietà: ascia con un retrogusto infuocato, machete modificato con tanto di lama circolare, coltello, revolver, pugnali da lancio e la classica mazza da baseball. Munizioni poche, pochissime, e ampio spazio alla creatività, con la possibilità di modificare gli strumenti grazie agli oggetti recuperati (opzione che non abbiamo testato).

    Se le scaramucce con i nostri mostruosi amici sono parecchio stimolanti (e attenzione a mantenere una soglia accettabile negli scontri sequenziali: ingaggiare quattro zombie contemporaneamente equivale a lasciarci la pelle), e a maggior ragione quelle in notturna, gli scontri con gli esseri umani sono assai diverse: chiaramente più veloci, e meglio equipaggiati, rispondono colpo su colpo, aprendo scenari non dissimili a quelli intravisti in The Last of Us.
    Raggiunta la safe house, abbiamo incontrato un paio di variazioni sul tema: insieme ad alcuni aggressivi comprimari, il circoletto da ripulire ospitava anche due entità decisamente più brutali, una con in mano un enorme cartello stradale, con tanto di grumo di asfalto alla base, l’altra capace di sputare acido dalla distanza. Muoversi in continuazione, sapendo sempre come e dove andare, ma pronti a schizzare in caso di spiacevoli novità, è la chiave vincente per evitare la dipartita. Non è stata mostrata alcuna modalità multiplayer: sappiamo già della co-op, ma in realtà il team s’è preso del tempo per limare ed implementare la modalità multigiocatore. Stesso discorso per il supporto a Kinect, Playstation Camera e Touchpad. Timidi esempi di utilizzo, in giochi della concorrenza, non mancano, tuttavia siamo curiosi quale sarà la direzione creativa intrapresa da Techland, volta ad acuire l’immersione del giocatore.

    Fronte grafico: su console, il gioco è chiaramente indietro. La build mostrata, decisamente vecchia, lasciava intravedere un buon level of detail, al pari di una profondità visiva incoraggiante. Meno positivo il riscontro sulle texture, e sull’effettistica, per ora al palo, e su un aliasing che su Xbox One stonava parecchio se confrontato con la stessa demo per PS4, che tra l’altro girava ad una risoluzione superiore. Discorsi comunque privi di una valenza effettiva, data la lontananza dalla release e la volontà del team di ottimizzare il tutto per rendere le due versioni quanto più simili possibile, e soprattutto capaci di non sfigurare nei confronti dell’edizione PC.

    Dying Light Dying Light è un progetto convincente. Open world, interazione ambientale efficace, sistema di controllo privo di sbavature e, non ultima, la capacità innata di stimolare un terrore sincero e vibrante. Mancano molti mesi all’uscita nei negozi, per cui nel corso dei prossimi mesi effettueremo svariati hands on per valutare densità delle missioni, così come la loro varietà, l’incidenza dell’inventario e la sua gestione, la qualità della co-op. Sospendiamo invece il giudizio sulla parte tecnica: per il resto, Dying Light è dannatamente convincente.

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