All'evento milanese post-E3 di Nintendo non poteva ovviamente mancare uno spazio dedicato a The Legend of Zelda: Breath of the Wild, portato all'attenzione dei giornalisti sotto forma della stessa build in due tempi già mostrata nello sfarzoso padiglione a tema allestito per la fiera losangelina. Chi vi scrive, per la prima volta beneficiario di quei densi istanti di pellegrinaggio tra le vastità del Gran Plateau, non ha potuto fare a meno di collegare questa nuova esperienza a quelle che, per stessa ammissione di Miyamoto, sono state le suggestioni necessarie alla genesi del primissimo episodio della serie. È noto infatti che lo storico game designer di Kyoto abbia infuso nel suo capolavoro datato ‘86 le reminiscenze più genuine dei sui giorni di bambino, quando soleva avventurarsi tra boschi, grotte e altri luoghi naturali a lui completamente sconosciuti. Luoghi che, come ha sempre precisato, amava esplorare in una solitudine pressoché eremitica, lasciandosi pervadere dallo stupore che quell'età più di tutte è in grado di provocare nell'essere umano. Ecco: GamePad in pugno e cuffie ben salde ai padiglioni auricolari, quell'intento di far emergere meraviglia in chi s'immerge nel gioco per la prima volta, seppur veicolato da mani e menti diverse dal passato, vive oggi come - e più di - allora, ancora straordinariamente tangibile. Laddove molte cose sono cambiate, nel contempo.
(Ri)scoprendo la Leggenda
Perché sì, tra il primo The Legend of Zelda e Breath of the Wild c'è un filo diretto e (in)visibile davvero molto stretto, oseremmo dire inscindibile. Faticheremmo oggi a definire la mappa a centoventotto schermate della prima Hyrule in 8 bit nei termini di un open world. Eppure, è indubbio che la volontà di creare un mondo aperto, dove l'esplorazione potesse esser libera e l'incedere solitario e introspettivo, fosse già presente in nuce fin dagli albori, in attesa soltanto di trovare forme e contenitori più consoni alle immagini custodite nella memoria del suo fenomenale creatore. Tanto si è provato a fare negli anni in questo senso - a Ocarina of Time, soprattutto, va il plauso più grande -, ma nulla ha mai avuto le ambizioni che dimostra oggi il nuovo lavoro del folto team capitanato da Aounuma e Fujibayashi, quest'ultimo curiosamente game director di Skyward Sword, uno degli episodi meno "open" dell'intera esistenza zeldiana. Il nuovo universo di gioco appare insomma come summa e sublimazione della filosofia da sempre alla base degli Zelda, modellato dagli sviluppatori secondo due linee guida che, seppur concettualmente in contrasto, sembrano compenetrarsi di continuo. Di fondo vi è un forte senso di familiarità che si palesa ora nella magia del colpo d'occhio, foggiato in una via di mezzo rassicurante di cel shading e grafica realistica, ora nella citazione più o meno velata di luoghi e personaggi dell'epica di riferimento. Leggere il nome di Ganon - evidentemente inteso nella sua primordiale incarnazione animalesca - tra le prime righe di testo non dovrebbe sbigottire nessuno; meno scontato, invece, il ritrovarsi da subito tra le mura cinte d'edera di un Temple of Time abbandonato, così come imbattersi in un old man che, pur imponente e quasi torvo nel suo attuale anonimato, potrebbe rievocare nei fan qualche piacevole memoria dal passato. La seconda corda che Breath of the Wild fa vibrare è ovviamente quella della scoperta, inevitabile per un'opera che, al di là delle suddette strizzate d'occhio alla tradizione, persegue convinta la via del rinnovamento. Si sono già spesi fiumi di parole sulla propensione della nuova formula alla commistione di generi, sull'importanza del motore fisico, sull'inedito respiro "occidentale" di cui il progetto sembra prosperare. Qui non vorremmo ripeterci, cercando invece di porre l'accento su un paio d'altre questioni quantomeno singolari.
La prima riguarda l'incipit, che porta in dote un aspetto stranamente passato in sordina, eppure potenzialmente interessantissimo nell'ottica d'iniziare a congetturare un po' sulle possibili derive della narrazione. L'eroe, costretto al sonno in una strana vasca di deprivazione sensoriale, si desta infatti al nome di Link, pronunciato in modo inequivocabile da una voce femminile già di per sé destabilizzante per chiunque sia cresciuto con i classici dialoghi "silenziosi" della serie. Il fatto ci sembra rilevante, e non tanto per il parlato in sé. È infatti la prima volta in un episodio canonico che il protagonista viene di fatto privato della sua valenza di ponte diretto con l'utente - è nota la consuetudine di poter assegnare una denominazione personale all'Hylian taciturno -, diventando ora Link a tutti gli effetti, in maniera evidentemente incontrovertibile proprio poiché menzionato per voice acting di un personaggio interno al gioco. Chissà che non sia stato recuperato qualche frammento di uno dei primissimi concept pensati e poi accantonati da Miyamoto-san, per cui Hyrule era un mondo di stampo sci-fi, la Triforza un'icona fatta di microchip e Link, già allora sorta di Eroe del Tempo, fungeva da collegamento - stavolta in-game - tra passato e futuro degli avvenimenti raccontati. Gli ambienti di Breath of the Wild, una mescolanza di interni tech fantasy venati di luci blu al neon e di costruzioni en plein air dal sapore ancestrale, paiono perlomeno suggerirlo. La seconda questione che più di tutte esalta chi scrive, e che circolarmente si ricongiunge a quella voglia d'esplorazione senza vincoli anelata fin dai tempi del NES, riguarda quell'incentivo continuo a sperimentare con le possibilità di progressione. Che il nuovo Zelda rifugga l'avanzamento lineare è cosa nota, ma la varietà di modi con cui è possibile approcciarsi alle situazioni proposte dall'open world è un aspetto della produzione che si può comprendere appieno solamente pad alla mano. Decidere come affrontare il viaggio tra due punti, se correndo lungo il sentiero o, stamina permettendo, facendosi una bella nuotata, oppure scalando certe strutture, o facendo snowboard con lo scudo o, ancora, sfruttando il nuovo magnete per farsi catapultare frontalmente a bordo di una piattaforma è qualcosa che affascina e diverte.

Ed è ugualmente bello uscire dagli schemi anche in relazione alle piccole cose: cucinare può senz'altro regalare qualche soddisfazione, ma potremmo andare di fretta e preferire colpire un cinghiale di passaggio con una freccia infuocata - magari accesa dopo aver infiammato un ciuffo di sterpaglia - per ottenere la carne già bell'e cotta. Sperimentare, insomma, sarà la parola chiave di quella che si configura come un'esperienza nel significato più puro del termine. Non vediamo l'ora di poterlo fare come si deve al di là di quel 2% di mappa che Nintendo ci ha sottoposto, comunque già ben capace di avvolgerci e catturarci.