Recensione Amy: Recensione del survival horror di VectorCell

Un Survival Horror sbarca sul PSN con ottime premesse, ma...

Recensione Amy: Recensione del survival horror di VectorCell
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Disponibile per
  • Xbox 360
  • PS3
  • Pc
  • Trasferiamoci oltralpe e andiamo a trovare il signor Paul Cuisset, game designer francese che, nonostante lavori più recenti, non possiamo che ricordare per gli storici Flashback (inchino) e Fade to Black (inchino). Oggi, con la sua softwarehouse VectorCell, Monsieur Cuisset ci propone un survival horror di stampo classico ma non privo di influenze di varia provenienza, titolo scaricabile che aveva suscitato attese speranzose ma che pare destinato a dividere le opinioni dei giocatori per le sue intrinseche contraddizioni nonché per la sua inusuale difficoltà: AMY (niente inchino) è già disponibile a 10 euro su PlayStation Network ed Xbox Live.
    A dare il nome al gioco è una bella bambina dallo sguardo triste: la piccola Amy, che soffre di autismo e non proferisce parola, è stata ospite di una poco raccomandabile struttura di ricerca, dove è stata studiata da scienziati senza scrupoli per via delle sue paranormali doti psichiche. Noi vestiremo i panni di Lana, la giovane donna che ha ridato ad Amy la libertà. Sembrerebbe una storia finita bene, ma è solo il prologo di un'avventura dagli orrori ancora maggiori: il treno che avrebbe dovuto portare le ragazze in salvo deraglia nel bel mezzo della più classica delle apocalissi zombie causate dai deliri scientifici dell'uomo.

    Non perderla di vista

    Dopo una piuttosto stringata presentazione dell'esile vicenda e dei personaggi in gioco, guadagneremo il controllo della nostra Lana: il livello introduttivo ci vede vagare per una stazione ferroviaria non particolarmente accogliente, che deve spaventare non poco la piccola Amy...
    La (sovra) abbondanza di locations decisamente scure aiuta probabilmente a mascherare qualche imperfezione grafica: la mancanza di luce creerà forse quella cupa atmosfera claustrofobica che ci aspettiamo da ogni horror game, tuttavia l'assenza di effetti luminosi e particellari di livello rende a gli ambienti piuttosto piatti al colpo d'occhio.
    La modellazione dei personaggi è buona, con picchi di eccellenza da vera e propria produzione ad alto budget se ci soffermiamo a guardare i bei volti delle nostre protagoniste, splendidamente riprodotti. Sempre all'altezza le molto definite textures, a compensare un polycount ambientale spesso sotto la media.
    Non del tutto assenti quindi le note positive, ma il rovescio della medaglia, dal punto di vista puramente estetico, è per contro una palese ripetitività degli elementi dell'arredo, nonché soprattutto una generosa quantità di tearing più o meno evidente.
    A questo flagello aggiungiamo il lento, lentissimo refresh del framerate: ritmo e movimenti sono talmente blandi da evidenziare con malignità le incertezze e le legnosità delle animazioni di Lana, cosa che si rivelerà poi non tanto deleteria per la fruibilità del videogame quanto piuttosto per i nostri nervi.
    Altra nota di demerito è meritata dal level design, poco vario e ispirato e che indugia in mappe che nonostante la buona ampiezza faranno largo uso di aree superflue, porte chiuse e barriere invalicabili più o meno verosimili; insomma non viene comunicato il benché minimo guizzo di creatività, e attraversare alcuni scenari desolanti ci lascerà più con l'amaro in bocca che incuriositi.
    Anche l'accompagnamento musicale latita, lasciandoci spesso soli a vagare per tristi corridoi; eppure il comparto audio dovrebbe rivestire una importanza di primo piano in ogni produzione di genere. La nostra dose di incredulità è rincarata dalle pessime recitazioni dei doppiatori, nessuno escluso, con tanti saluti alla credibilità del mondo di gioco: a posteriori, l'imbarazzante qualità della traccia parlata della scena animata introduttiva suona come un campanello d'allarme che forse avremmo fatto meglio ad ascoltare.

    Tienila per mano

    Già, perché addentrandoci nella nostra partita ad AMY, proviamo sincero pentimento per non aver assecondato i nostri istinti iniziali.
    Coniugando alla più classica delle avventure horror di sapore old school meccaniche meno battute di cooperazione tra un personaggio principale ed un suo surrogato, AMY vorrebbe essere un videogame d'atmosfera, in cui il giocatore avverte in un crescendo di tensione crudele di avere in mano le vite di una protagonista fondamentalmente impreparata agli orrori che la attendono e soprattutto di una creatura ancora più fragile, una bambina emotivamente labile.
    Il prodotto di Paul Cuisset riesce in questo ambizioso intento? Assolutamente no.
    Le meccaniche del gioco rendono abbastanza palese una certa avversione all'approccio combattivo. Per difendersi, Lana può impugnare esclusivamente dei bastoni con cui colpire le creature zombie, armi di fortuna che però non avranno vita lunga, lasciandovi spesso inermi nel momento meno opportuno. Se fuggire a gambe levate con una bimba al seguito non è una opzione consigliabile, non resta che il metodo stealth. Per evitare di farci udire dai nemici, che si tratti degli zombie o - peggio ancora - dei soldati umani armati fino ai denti di cui la città pullula (la solita lezione dell'homo homini lupus), sarà necessario a volte camminare con somma cautela evitando di generare rumori. Certo, provateci voi con quei tacchi ai piedi: neanche a farlo apposta, la nostra piccola compagna di avventure potrà, grazie ai suoi misteriosi poteri psichici in stile Rain Man, generare all'occorrenza una bolla di silenzio che ci renderà più discreti.
    Come è ovvio, ci saranno compiti che solo la bambina potrà assolvere in virtù ora delle sue abilità, ora della sua corporatura minuta, le classiche catdoors o pertugi di aerazione troppo stretti (?) per una persona adulta. Non avremo mai il diretto controllo di Amy, ma potremo farle eseguire solo estemporanee azioni contestuali, come ci inviteranno a fare i pulsanti visualizzati a schermo. Le due ragazze dovranno insomma di tanto in tanto separarsi, e faremo bene in simili casi a trovare dei nascondigli di fortuna per la nostra protetta. Poiché però l'aria è quasi sempre pregna del letale virus, stare lontani dalla bambina e dal suo inspiegabile tocco magico ci esporrà all'infezione: a differenza di Amy, Lana non è immune al morbo, ne mostra sul corpo i segni inequivocabili si avvicina ogni secondo di più al Game Over. In questo stato la donna, però, sarà rilevata come infetta e quindi lasciata in pace dai famelici mostri. Peccato che bastino un rumore di troppo, un paio di secondi di ritardo sui movimenti da compiere o l'arrivo inopportuno della piccola Amy, che giustamente dopo un po' si stancherà di stare nascosta e vorrà venire a cercarci, a far precipitare in men che non si dica la situazione. In alcuni frangenti ogni passo dovrà essere calcolato con perizia estrema per non incorrere in un nemico armato che può freddarvi a vista, arrivare al punto in cui si trova una dose curativa o l'arma da usare per difenderci, o per tornare da Amy prima che l'infezione ci uccida: come è ovvio, in una impostazione così rigida è probabile che occorreranno diversi tentativi a vuoto prima di maturare l'unica strategia corretta per superare l'empasse.

    Horror questo sconosciuto

    Nonostante le molte buone intenzioni, sono rari i momenti in cui il gioco riesce davvero a costruire la tensione che intende comunicare, e ancora più rari quelli che non sono irrimediabilmente danneggiati dal discutibile level design o dal cattivo tuning tra gli elementi costituivi del gameplay.
    Il gioco ripete infatti sempre gli stessi schemi, riproponendo fin troppe volte pattern stra abusati: un interruttore per sbloccare la porta si trova in una stanza a cui solo Amy può accedere? Il classico montacarichi da azionare dalla distanza? E che dire delle sovrabbondanti keycard colorate? Fin dai primi minuti di gioco si avverte chiaramente una impostazione che sa di anacronistico.
    Sia i combattimenti, sia l'elemento collaborazionistico tra i due personaggi, sia la componente stealth sono appena degli embrioni poco rifiniti, che non riescono a caratterizzare la produzione se non in negativo. Locations interessanti o enigmi ben congegnati potrebbero riuscire a risollevare il giudizio del giocatore... ma non ne troveremo in AMY. Le mappe sono spesso inutilmente labirintiche, al solo scopo di confonderci nei momenti meno opportuni oppure di fornirci armi o oggetti curativi che ben presto perderemo, e gli indovinelli sono non solo tremendamente inverosimili e fuori contesto, ma questo è un falso problema per chi ha passato anni ad aprire serrature con chiavi a forma di pezzi degli scacchi, ma anche e soprattutto pessimamente concepiti: scoprirete presto quanto sgradevole può essere l'accoppiata "soluzione random" e "numero limitato di tentativi".
    Venendo però a patti con questi difetti (in fondo anche Silent Hill: Shattered Memories disperdeva delle buone idee di fondo con un bilanciamento poco curato che ne inficiava la portata innovativa), può AMY rivelarsi un'esperienza apprezzabile dal giocatore conscio dei limiti del prodotto? Difficile. Il gioco non permette in alcun modo di salvare la partita, lasciando l'onore unicamente al sistema di checkpoint e tutto l'onere allo sventurato player: i punti di controllo sono rarissimi, e gli unici hard save automatici sono quelli di cui la console ci degna a cavallo tra un livello e l'altro. Questo significa che, privi di ogni paracadute, ad ogni game over potremmo dover ripetere sessioni di gioco lunghe anche un'ora o più, unicamente per ripetere lo stage già affrontato fino al precedente decesso. Ne avremo la forza? Va da sé che ad ogni caricamento la nostra scorta di armi e siringhe curative viene azzerata, come se la natura trial and error di AMY non fosse già sufficientemente punitiva di per se stessa invitando quasi senza appello all'abbandono.
    Sebbene suoni come una facile giustificazione, sottolineiamo che la difficoltà esasperante del gioco è per molti versi una scelta deliberata di VectorCell, non potrebbe essere altrimenti: tuttavia le pessime scelte di design di fatto uccidono il divertimento che i più anzianotti potrebbero trarre dal tentativo di riportare in auge la difficoltà media dei good old days, peraltro a tratti rievocati dall'ingessatissimo sistema di controllo.

    E' probabile che potremmo anche chiudere tutti e due gli occhi e perdonare tanti orrori se il gioco riuscisse nel suo supposto intento principe, cioè spaventarci e tenerci costantemente sulla corda. Ebbene, così non è: il timore dell'ignoto lascia il posto al fastidio per un level design scialbo e ripetitivo; all'ansia del non potere giovare del contatto curativo di Amy subentra presto la tremenda frustrazione dettata dalle terrificanti meccaniche trial and error, nonché dalla non particolarmente brillante intelligenza artificiale della bambina; ogni buona intenzione muore in noi quando, e capita spesso, Lana lancia un urletto da damigella in angustie ad un innocuo rumorino improvviso, escamotage a buon mercato con cui gli sviluppatori immaginavano di farci saltare sulla sedia. Per qualche brivido faremmo meglio a rivolgerci ad altre produzioni: Forbidden Siren, Deadly Premonition, Luigi's Mansion?

    Amy AmyVersione Analizzata PlayStation 3La somma di questi elementi determina una scomoda verità: l’ennesimo problema di AMY è la totale assenza di immersività offerta al giocatore, catapultato in un videogame che non fa nulla per tentare di coinvolgerlo. Gli enigmi sono tanto mal congegnati quanto obsoleti e fuori contesto, il sistema di salvataggio e respawn frustrante, le mappe di gioco inverosimili, i puzzle ambientali che coinvolgono la bambina oggettivamente assurdi nella loro monotonia, la storia dimenticabile e l’elemento ansiogeno non pervenuto. La crasi tra Ico e il più abusato prototipo del survival horror vecchia generazione avrebbe senza dubbio potuto in qualche modo funzionare, ma decisamente non con questa attenzione nulla al bilanciamento dei vari elementi in gioco. AMY raccoglie una quantità di idee discrete e anche di evidentissimi clichées, ma alla ricetta unisce tante, troppe sviste stilistiche e concettuali che inesorabilmente decapitano il progetto e lo gettano a decomporsi in nella chiazza di potenziale inespresso dove probabilmente dovreste lasciarlo.

    4.5

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