Recensione Danganronpa: Trigger Happy Havoc

Prigionieri di un’avventura grafica inquietante e folle

Recensione Danganronpa: Trigger Happy Havoc
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  • PSVita
  • Pc
  • Alla Hope’s Peak non si entra pagando un’ingente retta o presentandosi con un curriculum di tutto rispetto. E’ la Hope’s Peak che sceglie te, non il contrario. La speranza (hope, per l’appunto) non si riduce all’essere ammessi: grazie alla formazione ricevuta, la prospettiva è quella di poter ridisegnare il corso della propria vita. L’istituto più prestigioso del mondo non fa altro, del resto: seleziona i talenti più promettenti, li affina, li potenzia e li restituisce alla società, pronti a cambiarne le sorti e illuminare il cammino dell’uomo comune. Non si tratta solo di essere intelligenti: bisogna essere speciali. Nelle arti marziali magari. O nel baseball. Nell’informatica o, perché no, nell’essere otaku in tutto e per tutto.
    Makoto Naegi, protagonista della disavventura che stravolgerà per sempre la sua vita, non è nulla di tutto questo. La lettera d’ammissione recapitatagli a casa parla chiaro: è un comunissimo alunno che ha avuto la fortuna di essere stato scelto a caso tra migliaia di altri come lui.
    Un favore dalla dea bendata non si rifiuta mai, e il giovane sente già il profumo di un futuro pieno di successi quando varca per la prima volta la soglia della Hope’s Peak.

    Una scuola claustrofobica

    La tensione di dover stare al passo con studenti molto più talentuosi di lui dura poco. Makoto inspiegabilmente perde i sensi nell’atrio della scuola e si risveglia in un’aula piena di telecamere e con le finestre sbarrate. Sarà il primo test attitudinale? Il mistero non fa altro che infittirsi non appena incontra i suoi quattordici compagni di studio, anch’essi incapaci di farsi un’idea chiara della situazione. Gli sceneggiatori di Spike non ci risparmiano qualche cliché: il misterioso, la timida, quella dalla lacrima facile, la palestrata e l’immancabile bullo che prenderebbe a pugni tutto e tutti. Eppure basta il rapido giro di presentazioni per riconoscere l’eterogeneità del cast virtuale e il vivido background che compone il pacchetto di esperienze personali accumulate da ciascun adolescente. Sin dai primi dialoghi sorgono simpatie, frizioni e domande a tutto vantaggio della curiosità dell’utente che viene grandemente e ottimamente stimolata.
    Qualcosa inizia a chiarirsi solo dopo la prima, indimenticabile, apparizione di Monokuma: inquietante orsetto-robot in miniatura che con tono festoso annuncia al gruppo il suo stato di prigionia. C’è solo un modo per abbandonare la struttura: uccidere uno studente e farla franca nel susseguente processo in cui gli stessi ragazzi dovranno cercare di scoprire l’identità dell’assassino per non essere anch’essi puniti (con la morte ovviamente).
    Danganronpa: Trigger Happy Havoc è in tutto e per tutto un’avventura grafica di matrice nipponica. Il suo fascino risiede nella situazione paradossale e “al limite” nel quale riversano i suoi sfortunati personaggi. Per noi occidentali i riferimenti più diretti sono la saga di Saw, dove l’Enigmista si diverte a torturare le sue cavie per “insegnargli”, in punto di morte, a non sprecare la propria vita, e il successo letterario e cinematografico di Hunger Games. In ambito videoludico abbiamo avuto a che fare con storie simili nello strepitoso Nine Hours, Nine Persons, Nine Doors, pubblicato su 3DS nel 2009, o nel più recente Zero Escape: Virtue's Last Reward, sempre su PS Vita.

    Identico il feeling, simile lo svolgimento. Dove nei diretti colleghi il proseguo della trama era garantito dalla risoluzione di enigmi logici e nel classico ritrovamento di specifici oggetti, Danganronpa: Trigger Happy Havoc si rifà alla saga di Capcom, Phoenix Wright. Il povero Makoto è suo malgrado costretto a svolgere le stesse attività del celebre avvocato: trovare indizi e prove, concatenarle e sfruttarle al meglio durante il processo per convincere gli altri membri della giuria.
    L’iniziale resistenza del gruppo, tagliato fuori dal mondo e costretto a vagare giorno dopo giorno tra uno sparuto numero di sale, cede alla follia e al volere del loro aguzzino. Una spirale di instabilità mentale e omicidi trascinerà i personaggi a scoprire i lati più meschini dell’umanità, in un perverso esperimento socio-antropologico costantemente alimentato da Monokuma che, come in una versione estremizzata del Grande Fratello, gioca costantemente con l’emotività dei suoi concorrenti riempiendoli di regole da rispettare.
    Questo è sicuramente l’aspetto più riuscito e interessante della produzione. Gli sceneggiatori non si limitano a comporre un plot “strepitosamente” malsano e denso di colpi di scena. Tramutano in valore aggiunto ciò che di solito appesantisce giochi del genere. La classica ridondanza e lentezza dei dialoghi delle avventure grafiche giapponesi, restituisce brillantemente il clima claustrofobico della Hope’s Peak. Alla lunga i meno abituati potrebbero stancarsi della morbosità di certe conversazioni, ma chi è solito leggere tra le righe, ad andare al di là del semplice significato testuale delle parole, non potrà che (accorgersi) apprezzare l’effetto assolutamente voluto e ricercato.
    L’atmosfera delirante e schizofrenica si riversa anche nell’art design: eterogeneo (cambia da cut-scene a cut-scene) e dominato da colori acidi. La saturazione e omogeneità delle campiture rende brillante ogni scenario, in un chiaro gioco di contrasto con la pesantezza dei temi trattati. L’assoluta mancanza di riferimenti, non solo per i personaggi ma anche per il videogiocatore, è visibile anche nell’interessante utilizzo di oggetti e artwork bidimensionali in scenari (apparentemente) in 3D. Che si tratti di un titolo traghettato dalla PSP è facilmente ravvisabile in alcuni dettagli poco definiti, ma la risoluzione e brillantezza dello schermo OLED di PS Vita fa scivolare tutto in secondo piano.
    Anche il sonoro si presta al gioco di opposizioni. Temi distesi cadenzano la vita degli studenti. Altri più tesi e ritmati animano i momenti drammatici.

    L’attenzione per l’aspetto artistico è tale che Danganronpa: Trigger Happy Havoc è assolutamente consigliato anche solo per ciò che racconta. Makoto non è certamente tra i personaggi più carismatici mai incontrati. Eppure si finisce per affezionarcisi proprio per il suo essere “normale”, tra tanti studenti superdotati (passateci il termine senza troppa malizia) ben più inclini di lui a perdere la speranza e tentare la via dell’omicidio. Alcune situazioni, inoltre, scadono in un eccesso di ripetitività, ma il mistero dietro alla Hope’s Peak è troppo stuzzicante per arrendersi di fronte a qualche dialogo di troppo.
    Del resto, l’altro ambito della produzione, quello più ludico, non è così convincente come sperato. L’idea di abbandonare le meccaniche classiche delle avventure grafiche ha del pregevole. Rifarsi a Phoenix Wright è un’intuizione di game design intrigante. Peccato che non si raggiunga (e non si voglia raggiungere probabilmente) la stessa precisione e complessità della fonte d’ispirazione. Makoto infondo non è un detective. Basta aggirarsi per l’istituto un po’ a caso, un po’ guidati dagli altri personaggi per imbattersi nelle prove del delitto. Inoltre, una volta in tribunale, le cose non seguono un rigore logico, ma procedono per minigiochi. A volte si tratterà di scegliere la risposta giusta in un breve elenco. Altre di evidenziare una frase sospetta, selezionando precedentemente l’obiezione più consona. Altre ancora dovrete controbattere le accuse dell’interlocutore sfidandolo in un rudimentale rhythm game.
    I palati più fini troveranno simili meccaniche offensive, soprattutto se paragonate allo strepitoso comparto narrativo sotteso. Altri, coloro che sapranno accettare fino in fondo la filosofia del gioco, le riconosceranno per quello che sono: l’ennesima provocazione di un’opera che fonda tutto il suo senso nella follia di Monokuma e del suo esperimento. Sta insomma in voi scendere a compromessi, o rifiutare una simile strutturazione ludica. Di sicuro l’eccessiva linearità delle fasi investigative e la sconclusionata eterogeneità in cui è suddiviso il processo sono limiti oggettivi piuttosto palesi.

    Danganronpa: Trigger Happy Havoc Danganronpa: Trigger Happy HavocVersione Analizzata PlayStation VitaMonokuma è un orsetto-robot completamente pazzo. Per molti versi ricorda lo straordinario Joker di Heath Ledger ed è impossibile non provare sentimenti discordanti per uno dei personaggi che meglio rappresentano la follia che dilaga in questa stramba avventura grafica tutta da leggere. Più che un vero e proprio gioco, Danganronpa: Trigger Happy Havoc è una storia da assaporare un poco alla volta, un atmosfera, malata e sinistramente assuefacente, in cui immergersi prestando attenzione ad ogni dettaglio, un esperimento da cui apprendere una lezione importantissima, ma da osservare senza il classico distacco degli scienziati. Imperfetto nella sua componente ludica, fin troppo lineare, ripetitivo come ogni avventura di matrice nipponica sa essere, vi regalerà uno dei migliori intrecci narrativi a cui avrete preso parte su una console portatile.

    8.5

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