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Iron Harvest Recensione: la guerra dieselpunk di King Art Games
In un 1920 alternativo, tre forze combattono per uscire vincitrici dalla guerra. A loro disposizione giganteschi mech: questo è Iron Harvest.
INFORMAZIONI GIOCO
Articolo a cura di
Daniele D'Orefice
Disponibile perPc
PS4
Xbox One
Xbox One X
PS4 Pro
PS5
Xbox Series X
Il 1920+ è l'universo immaginato dall'illustratore polacco Jakub Rózalski e base per lo strategico Iron Harvest; un periodo storico alternativo in cui la rivoluzione industriale si è spinta oltre a ciò che abbiamo letto nei libri di storia, fino a creare un'industria dominata da macchine ancora più avanzate. Chiamate automacchine, o più semplicemente mech, queste tecnologie alimentate a diesel sono sfruttate per diversi compiti, come l'agricoltura, e ovviamente anche per la guerra. Nella mente di Mr. Werewolf, il soprannome con cui è conosciuto Rózalski, l'improvvisa impennata nella complessità ed efficacia negli armamenti ha prodotto conflitti ancor più distruttivi, dove i primi prototipi di corazzato impegnati nella grande guerra sono soppiantati da giganti dieselpunk capaci da soli di falcidiare centinaia d'uomini. Il periodo immaginario del 1920+ (che è la base, oltre che di Iron Harvest, anche del gioco da tavolo Scythe) non riguarda però solo la guerra, piuttosto vive di contrasti: mette in parallelo - come si vede da molti artwork - paesaggi rurali e bucolici con macchine di morte torreggianti. È affascinante proprio per il modo in cui viene rafforzato lo stacco tra la condizione di braccianti impegnati nei campi o di semplici soldati di fanteria, e quella dei mech dalla complessità e dimensioni inquantificabili.
Differenze (in)conciliabili
Il 1920+ è poi un periodo storico rivisto anche dal punto di vista politico: le radici sono solide nella realtà, ma Mr. Werewolf ha comunque aggiunto dettagli di fantasia. La Polania è il nuovo nome della Polonia, un paese rurale che ha iniziato ad adottare le automacchine più tardi rispetto agli altri; risultano per questo meno avanzate, più grezze, composte da scarti di mezzi agricoli e industriali.
La Rusviet è l'Impero Russo dominato ancora dallo zar Nicola II e mai colpito dalla rivoluzione bolscevica del 1917. La Sassonia è invece l'Impero Tedesco: i suoi soldati sono dotati di equipaggiamento simile a quello prussiano (come il classico elmo chiodato) e dispongono di tecnologie belliche all'avanguardia, probabilmente le più moderne d'Europa. L'universo di fantasia si concentra per lo più su queste tre nazioni, e lo stesso fa Iron Harvest: il gioco dello studio King Art Games, con base a Brema, è uno strategico in tempo reale che racconta il 1920+ attraverso tre campagne distinte. Ce n'è una in cui si ripercorrono le sorti di una Polania dominata dall'occupazione dei Rusviet; una in cui si mette a nudo una cospirazione ai danni dello zar e dell'Europa tutta. Nell'ultima si tengono le redini del fiero esercito sassone, si assiste al declino di un'egemonia e a un modo di fare la guerra che scavalca ogni barriera morale.
Gli sviluppatori tedeschi si sono concentrati sulle sorti di poche individualità più che su quelle di intere nazioni: l'incipit della campagna polaniana ci presenta infatti la giovane Anna Kos, che assieme al suo "misiu" (piccolo orso, in polacco) Wojtek diventa un'eroina della rivoluzione contro l'oppressione Rusviet. La storia di Anna Kos è tra l'altro ispirata alle reali vicende di Irena Bokiewicz, una donna che accudì un piccolo orsacchiotto, chiamato poi proprio Wojtek, dopo che alcuni cacciatori l'avevano privato della madre (in seguito Wojtek venne arruolato come soldato semplice nell'esercito polacco).
L'attenzione alla storia è dunque costante, anche quando si parla di vicende fantastiche: per fare un esempio, Nicola II è affiancato da Grigori Rasputin, che il gioco dipinge come un macchinatore e manipolatore; la figura di Nikola Tesla è anch'essa presente, però è al centro di racconti tendenti alla fantascienza più spicciola, e che poco ci sono piaciuti.
Gli errori compiuti da King Art Games sul piano narrativo sono infatti quelli di virare su storie fantapolitiche, cospirazioni mondiali e incredibili tecnologie, sviando l'attenzione del giocatore lontano dagli elementi costitutivi dell'immaginario di Iron Harvest.
Il nuovo modo di fare la guerra, la rivoluzione polaniana, il crollo dell'impero sassone asservito alle sproporzionate ambizioni del Kaiser e dell'alto comando sono sfumature che si percepiscono a sprazzi ma non sono mai la parte dominante del racconto. Un racconto che, peraltro, interseca le vicende dei vari protagonisti (Anna Kos e suo fratello; Olga Morozova con la sua tigre siberiana Changa; Gunter von Duisburg al comando del suo mech Brunhilde) in modi che sembrano troppo forzati dall'idea di avere un'unica storia condivisa e un unico nemico da abbattere: Iron Harvest è sì composto da tre campagne per amore di varietà, ma anche per mostrare quanto le diversità dei modi di fare guerra possano servire una causa più grande. Una morale condivisibile, ma veicolata perlopiù attraverso fasi fatte e cliché narrativi.
Il diesel è il sangue dell'impero
Malgrado una scrittura non brillante, le campagne di Iron Harvest si dimostrano piuttosto valide grazie a un mission design vario e quasi sempre appropriato. Le situazioni che vengono proposte nelle ventuno missioni (sette per ogni campagna, intervallate da filmati) spaziano da quelle più classiche, in cui va costruita una base e va distrutta quale nemica, fino a variazioni sul tema, magari con condizioni particolari o con la totale assenza di base building.
Ci sono poi missioni dove si controllano solo degli eroi o un gruppo ristretto di personaggi: non tutte sono riuscite, ma in linea generale si tratta di sequenze facili e rapide, ottime per tirare il fiato dopo lunghe sezioni che possono vederci impegnati anche per più di un'ora sullo stesso scenario.
Lo stile di gioco di Iron Harvest è affine a quello dei titoli Relic: il base building c'è ma è molto ridotto, le risorse non si estraggono dai giacimenti con le unità, ma vanno conquistate sul campo di battaglia. La microgestione delle unità "civili" è assente e gli edifici non hanno altri prerequisiti, se non il costo in risorse. In Iron Harvest le strutture produttive sono solo un paio: una caserma per le unità di fanteria (in cui è compresa anche l'artiglieria e le esotute corazzate) e un'officina per i mech. Il resto delle costruzioni comprende delle casematte per la difesa, reticolati di filo spinato, sacchi di sabbia o mine anticarro.
Fatta eccezione per il collocamento delle difese, che in alcuni scenari è essenziale, la costruzione della base non richiede molti sforzi mentali. Iron Harvest è infatti un gioco che fa molto più affidamento sull'approccio tattico, sull'importanza del posizionamento e sul corretto utilizzo dei mech e delle loro abilità uniche, nonché sulle capacità che ha il giocatore di mantenere il controllo di punti cardine per la produzione di risorse.
Il ferro è quella più comune, essenziale per qualsiasi tipo di unità o edificio. Il petrolio è più raro e utile nello specifico per le automacchine. Le miniere di ferro e i pozzi di petrolio sono sparsi per la mappa, spesso difesi da contingenti nutriti di nemici che vanno prima scardinati. Una volta perso un punto, tuttavia, l'IA non rimane passiva ad accettare le conseguenze, ma quasi sempre invia molto rapidamente un nuovo esercito per riprendere le postazioni. Immaginate quindi i combattimenti dello strategico di King Art come un continuo tira e molla per il controllo di punti strategici, una lenta avanzata verso un obiettivo, costantemente rallentata da contrattacchi e da sortite.
Questo stile non è nuovo per chi ha esperienza con i giochi Relic, più nello specifico con Company of Heroes, che a livello di ritmi e filosofia è molto simile ad Iron Harvest. Da Company of Heroes viene ereditata la composizione a squadra piuttosto che a singola unità, almeno per quanto riguarda la fanteria; oppure l'importanza delle coperture, specie nei combattimenti fra truppe appiedate.
Nel gioco di King Art esistono i classici rapporti carta-sasso-forbice, ma le coperture o gli edifici (che possono essere presidiati) risultano determinanti, in particolar modo nelle tattiche difensive. Un drappello di mitraglieri può tenere in scacco diverse ondate di fanteria quando posizionato dietro un muretto, e un gruppo di semplici fucilieri può rivelarsi un avversario più duro del previsto all'interno di un edificio. L'importanza di queste tattiche, comunque, cala vertiginosamente quando entrano nell'equazione i mech. I mostri d'acciaio sono infatti spesso armati con artiglieria in grado di annullare il valore difensivo di un riparo e possono abbattere qualsiasi edificio a cannonate o semplicemente sventrandolo con il corpo metallico. La distruttibilità dell'ambientazione restituisce l'idea che le grosse macchine da guerra abbiano un'imponenza notevole e che, sbuffando e cigolando, siano capaci di demolire intere città con una rapidità impressionante.
Di fronte a loro la fanteria diviene carne da macello: c'è davvero molto poco da fare, a meno di essere in gran numero e con le giuste armi, se per contrastare qualche mech infuriato si hanno solo semplici soldati. E dunque, sebbene abbia perfettamente senso e rafforzi le idee proposte nel mondo immaginario del 1920+, i mech si rivelano unità da preferire alla semplice fanteria quasi in ogni situazione.
I soldati a piedi sono sì più rapidi, godono di maggiori probabilità d'infiltrazione e soprattutto sono gli unici in grado di occupare i punti di controllo. I mostri meccanizzati sopperiscono però alla lentezza con una grande corazzatura e una superiore potenza di fuoco. I mech non possono sfruttare coperture, ma il loro posteriore è più debole agli attacchi, quindi devono star attenti a non essere aggirati. Nelle battaglie si tende quindi ad adoperare manovre d'accerchiamento, che sono più semplici quanto più sono veloci le automacchine (quelle della Polania sono tra le più rapide).
La fanteria può però essere impiegata nelle strategie "rush": i mech, infatti, sono potenti, ma anche molto costosi, e prima di poterne costruire un numero congruo si impiega del tempo prezioso. I fanti sono poi più versatili e sono in grado di raccogliere armi sul campo di battaglia e improvvisarsi genieri, mitraglieri, fucilieri a seconda delle evenienze e delle disponibilità. Purtroppo questi dettagli sono quasi ininfluenti nella campagna, dove l'attacco immediato e rapido si risolve sempre in un fallimento, e dove alla flessibilità è quasi sempre preferibile la maggiore potenza di fuoco, specie di fronte a un'IA che parte con grosse condizioni di vantaggio.
7
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Iron HarvestVersione Analizzata PCI punti di forza di Iron Harvest sono il suo stile e il suo immaginario. Sono i paesaggi naturali dilaniati dalla guerra e le città percorse da grosse automacchine rombanti, aspetti che raccontano il lato più distruttivo dell’ingegno umano. Il gioco di King Art Games è poi anche un buon RTS, forse troppo conservativo e aderente alla “scuola di Relic”, tanto che sembra abbia davvero poco di suo da comunicare. Ma questo non è un vero problema, perché lo stile dei Company of Heroes ben si sposa con la guerra del 1920+, dove gli uomini sono solo dei bersagli per le macchine e gli scheletri di antiche città diventano il posto ideale per gli scontri tra soldati, tra mitraglia e cannonate. Quel che più duole è che la campagna abbia una scrittura generalmente debole, che si allontana, per toni, dall’immaginario di Różalski, virando su una fantascienza un po’ spicciola. Ecco, sotto questo punto di vista ci saremmo aspettati molta più inventiva, ma anche così, Iron Harvest rimane un gioco di strategia piacevole ed evocativo.