Recensione No More Heroes

La fine degli eroi su Wii

No More Heroes
Recensione: Nintendo Wii
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Disponibile per
  • Wii
  • Pc
  • I know...you want THAT, right?

    No More Heroes è un titolo controverso. Nell’anteprima di qualche tempo fa l’avevamo però definito “un autentico atto d’amore per la storia del videogioco”. Conciliare tale contraddizione suona bizzarro, ma è il gioco stesso che lo impone danzando disinvolto tra i propri chiaroscuri e sbatacchiando così le consuetudini della critica. E’ grezzo, e zeppo di approssimazioni grafiche. Propone una fase esplorativa lenta e ridondante. Ed è anche strozzato da una longevità discutibile. Eppure incanta. Com’è possibile?
    Ad un’analisi spicciola, l’opera ultima di Suda 51 potrebbe sì confessare un telaio gracile, qua e là punteggiato dai sintomi di un’effettiva mancanza di continuità o da un design a tratti insicuro. Ma che ci crediate o meno, sono solo le piccole sbavature lasciate da uno scalpello artistico sicuro, che scava nel passato del videogioco per cavarne fuori un pezzo atipico, stralunato, unico nel suo genere.
    No More Heroes è tutto fuorché perfetto. Nessuna mediazione: lo si venera o lo si detesta. Ma va giocato. Perchè nel mezzo, come sempre, luccicano le fauci dell’indifferenza: il buco nero che ingoia i titoli privi di personalità, al pari di quelli travisati, incapaci di farsi capire, di colloquiare con le voglie dei giocatori. Salviamolo dunque dall’inglorioso abisso: No More Heroes non è GTA. Non è un suo clone, non ne rappresenta una diversa lettura, non ne è nemmeno un lontano parente. E’ un gioco diverso. Pazzo, d’accordo, nondimeno esagerato, ma così sopraffino nel dettare le proprie regole stilistiche, talmente superlativo nel giocare col videogiocatore -sorprendendolo con un linguaggio pieno di mille trovate- che lasciarlo sullo scaffale sarebbe quantomeno delittuoso. La classica zappata sui piedi della propria cultura ludica.
    Come per Killer 7, nessuna rivoluzione all’orizzonte, solo tanto, tantissimo divertimento. Con un briciolo di maturità scenica in più.
    Ok, lo amiamo. L’amerete anche voi.

    Essere Travis Touchdown


    Travis è il cuore del gioco. La sua figura viene scolpita da un percorso narrativo che non lesina sui colpi bassi, incuneandosi con maestria tra il trash più spinto e il political incorrect. La sequenza introduttiva racchiude al meglio le passioni e le pulsioni distorte di un protagonista che più antieroe non potrebbe essere. Un otaku invischiato nelle girandole dei propri vizi, la cui ultima depravazione è l’assassinio. Il suo obiettivo? Scalare la classifica dei dieci migliori killer degli Stati Uniti a colpi di katana laser. L’organizzazione che promuove una gara così raffinata deve comunque far fronte alle proprie brave spese di gestione, su questo siamo tutti d’accordo. Il biglietto d’ingresso di questo folle luna park di sangue e decapitazioni è dunque oneroso a dir poco, un salasso che aumenta proporzionalmente all’inasprirsi della competizione. Per chiarirci, se i 50000 crediti spillati dal duello col fulvo maestro di spade -tristemente inchiodato coi suoi tatuaggi al decimo posto- rappresentano una spesa tutto sommato contenuta, i 500000 bramati dalla lotta per il vertice paiono invece meno racimolabili in tempi umani. Soprattutto considerando il verde vivo in cui sono solite sonnecchiare le tasche del buon Travis. Come uscirne? Col sudore della fronte, naturalmente. Sebbene piccola e poco vitale, la città di Santa Destroy non è avara di situazioni in cui raggranellare qualche spicciolo. Due le porte a cui bussare per trovare lavoro, sporco o pulito che sia: quella dell’agenzia K-Entertainment -per salutari omicidi su commissione- o del Job Center. La permanenza nel desolato sobborgo urbano è dunque puramente legata all’accumulo dei soldi necessari per accedere alle sfide classificate. I diversivi sono di fatto inconsistenti (videoteca e negozio di vestiti), mentre l’interazione con altri ambienti è funzionale all’affinamento di alcune caratteristiche di base (nel laboratorio, per esempio, è possibile acquistare spade nuove e accessori più performanti; in palestra si migliora la forma fisica svolgendo tre esercizi elementari). Se lo si guardasse attraverso le lenti del free roaming, la natura costrittiva del gameplay impallidirebbe dinanzi all’apertura di un GTA qualunque. Ma sarebbe un errore. Poiché non sono solo le strutture ad essere inaccostabili, ma anche le visioni che ne hanno guidato il design. Come abbiamo già detto in altra sede, Santa Destroy risponde alle esigenze del solo Travis, non a quelle del giocatore. Tutto gira intorno alla sua ossessione, ogni fattore è mirato alla sua voglia di divenire primo in classifica. Il resto, ovvero il mondo intero, non conta. La cittadina è interamente esplorabile, sia a piedi che a bordo della moto, ma girovagare non appaga come si è abituati a pensare. Non è un problema di estensione, piuttosto di densità. Santa Destroy è praticamente una città fantasma, vuota. Un teatrino poligonale privo di attrattive, costellato da automobili rozzamente ricostruite che viaggiano senza meta e cittadini che si aggirano come (leggeri) fantasmi trascinati da una IA appena abbozzata. Non ha segreti da nascondere o condividere: gli unici tesori che custodisce sono i soldi seppelliti qua e là tra le aiuole, le t-shirt abbandonate in qualche cassonetto o le palle fluorescenti tanto agognate dall’ubriacone del bar. L’esplorazione è dunque addizionale, non è una componente portante del gameplay, tanto che della mappa on screen si potrebbe fare tranquillamente a meno. E’ un mutamento di impostazione di cui si deve tener conto. Ma è altresì chiaro che con tali premesse la noia faccia capolino piuttosto presto. Le acrobazie effettuabili col proprio bolide (burnout e turbo boost) leniscono di poco la sensazione di fiacchezza di una meccanica che, pur coerente e foriera di un proprio messaggio di fondo, rimane tuttavia improntata all’espletazione frettolosa dei lavori proposti. Le mansioni previste sono diverse, spesso accomunate dal canonico leit motiv del “raccogliere”. Immondizia, noci di cocco, gattini, scorpioni: tutto viene agguantato premendo A e risposto nell’apposito contenitore con una leggera oscillazione del Remote. Altre occupazioni, come la scrostatura dei graffiti o la gara di salti con il bolide a due ruote si discostano dall’ovvietà, sebbene risultino incapaci di appoggiare sul piatto qualcosa di veramente nuovo.
    Le offerte dell’agenzia K-Entertainment cambiano chiaramente le carte in tavola, poiché si allacciano al fulcro del prodotto, ovvero i combattimenti. Rimandando a dopo la disamina sul sistema di controllo, soffermiamoci sulla genuinità di alcune soluzioni. Time attack forsennati, scontri che si concludono al primo colpo subito, o che prevedono l’utilizzo di una sola mossa speciale od anche delle sole tecniche di lotta libera, si coniugano agli stravaganti ribaltamenti dell’inquadratura o della prospettiva previsti talvolta dagli sviluppatori, preservando e stuzzicando di fatto l’interesse del giocatore.
    La possibilità di ripetere all’infinito le missioni suddette mitiga tuttavia la diversificazione: la tentazione di puntare sulle operazioni più remunerative, a discapito delle altre, è inevitabile, e lo è altrettanto la frustrazione che ne deriva. La mancanza di stimoli confessata dallo scenario induce a sconfinare nel campo della meccanicità. Una sorta di ripetitiva scorciatoia che trasuda lentezza anche in alcuni particolari secondari. Si pensi alla latitanza del quick save. In caso di sconfitta, è necessario ritornare all’agenzia competente, scegliere di nuovo la missione per poi riportarsi sul luogo che la ospita. Un loop che alla lunga annoia.

    Se l’accaparramento della pecunia assume talvolta i connotati di una formalità fastidiosa, la seconda -e più consistente- parte del gameplay ispessisce l’esperienza con attimi di pura genialità, sia formali che strutturali. I duelli di No More Heroes si vestono di profondità, e si imprimono nelle pupille di chi gioca sia per la velocità che per la purezza stilistica con cui sono coreografati. Tanta virtù non è fortunatamente fine a sé stessa, vista la certosina mappatura dei controlli e la celerità con cui rispondono alle sollecitazioni del giocatore. Il risultato è un battle system assolutamente strabiliante, capace di regalare quelle soddisfazioni che la fase “esplorativa” sacrifica con insistenza.
    La formula rimane la stessa -salvo qualche estemporanea sorpresa- per tutta la durata dell’avventura: gli scontri sono inscenati in livelli chiusi (metropolitana, stadio, scuola, foresta e così via) e prima di servire la portata principale, ovvero la battaglia col boss di turno, prevedono l’eliminazione dei pesci piccoli, che fanno sì leva sul numero, ma che nei livelli avanzati richiedono un discreto impegno per essere sopraffatti, in special modo per via dei diversi armamenti di cui dispongono: spranghe, bastoni infuocati, katane, spade laser fino a giungere alle armi da fuoco necessitano approcci differenti, soprattutto quando maneggiate da cinque-dieci sgherri contemporaneamente.
    Con lo stick del Nunchuk si controlla il movimento di Travis, mentre Z attiva il lock on sull’avversario più vicino; i fendenti della Beam Katana sono assegnati al tasto A; B è invece deputato all’uso delle combinazioni a mani libere (calci volanti, pugni e prese). Le schivate sono gestite dalla croce digitale (controllante la telecamera nella fase free roaming); il pulsante 1 aziona la ricarica della katana, che si completa scuotendo il Remote; le parate infine si compongono in automatico, rimanendo immobili dopo aver “lockato” un contendente.
    Sebbene possa risultare compatibile, la tipologia degli attacchi ha pochissimo da spartire con le nozioni del mero button smashing. Premere senza cognizione il tasto A conduce più velocemente solo alla scarica della batteria che alimenta l’affilato gingillo di morte. Gli avversari, in ossequio all’arma con cui sono accessoriati, schivano, scappano e si difendono coprendo alternativamente la parte superiore ed inferiore del corpo. Per debellare una simile barriera è necessario leggere con criterio quanto accade sullo schermo ed in pochi attimi optare per sferzate alte o basse, eseguibili inclinando di conseguenza il telecomando. Ben accette sono ovviamente le mosse di aggiramento: schivare col giusto tempismo significa disorientare per qualche prezioso istante il diretto avversario, per poi sorprenderlo punendolo da tergo. I casi invece di incroci contemporanei di lame vengono risolti da una prova di forza (sostenibile agitando il solito Remote) che influisce sul perdente sbilanciandone la postura. E’ inoltre possibile stordire il nemico intervallando saggiamente frustate all’arma bianca e spassosissime mosse da wrestler (affinabili nel corso del gioco), in modo da poterlo cinghiare con prese sempre più spettacolari (perfezionando in tempo il QTE presente sullo schermo, in genere richiedente l’utilizzo simultaneo di Remote e Nunchuk). Un Quick Time Event simile sancisce invece la disintegrazione di un nemico ormai privo di energia in uno scontro comune: una sorta di omaggio indiretto alle fatalities tanto care ai frequentatori di casa Midway.
    E ancora. Una monetina per ogni uccisione. La sconfitta di un nemico viene continuamente segnata dall’avvio della slot machine che campeggia nella parte inferiore dello schermo: talune combinazioni sono associate a delle mosse speciali veramente fuori dall’ordinario, in grado di sovvertire -se baciati dalla fortuna, visto che si attivano automaticamente- l’esito di uno scontro. Velocità e chioma bionda degne di un Super Sayan; la capacità di terrorizzare i nemici e frantumarli premendo il tasto corretto (o di irretirli, facendo vedere loro il posteriore, pigiandone un altro); o anche solo la gioia di vedersi moltiplicati i guadagni a missione compiuta.
    E’ pura ipnosi quella veicolata dalla furia di No More Heroes. Un piacere che scorre velocissimo al ritmo di una danza fatale, ancor più serrata e sincopata durante i duelli coi killer. Caratterizzati in maniera anormale e dunque perfettamente in linea con la filosofia sopra le righe del prodotto, manifestano una differenziazione che impone il ricorso oculato all’intero ventaglio dei propri attacchi, oltre che allo studio minuzioso dello scenario. Scordatevi comunque i picchi di difficoltà del primo Viewtiful Joe, di Ninja Gaiden o del terzo Devil May Cry. Sono incubi che l’accoppiata “dolce” e “salato” di No More Heroes vi risparmierà.

    In gamba Travis! Non mi morire, eh!

    Se definissimo No More Heroes un’opera d’arte completa, mentiremmo. Un videogioco non può e non deve svincolarsi dalle proprietà tecniche che deve comunque saper assicurare. Texture scialbe, frame rate incerto, pop up e draw in che mordono palesemente l’ambiente ed una serie di bug piuttosto sconcertanti incidono sulla valutazione complessiva, ma non la inficiano in toto.
    E’ come se i pregi del pargolo di Grasshopper Manufacture coprissero tali mancanze sotto un velo di stile e ispirazione inavvicinabili. Parliamo delle animazioni. Eleganti, stilose e pregne di carattere, si identificano come la punta di diamante del sistema di combattimento.
    Poi, la trama. Folle e così incline ai colpi di scena paradossali che non amarla pare davvero un’impresa titanica. Dialoghi imbevuti appositamente di ridicolo fanno da contrappunto ad una regia delle cut scene cristallina, efficace nel restituire e sottolineare ogni anfratto dell’eccentricità dei personaggi, ancor più del pur eccellente cell shading con cui sono stati rivestiti.
    Proseguendo, il gusto sopraffino per le citazioni. I rimandi amorevoli alla storia del videogioco si respirano in ogni angolo di Santa Destroy: menù, icone pixellose, ma anche poster, console d’annata in bella mostra, così come gli effetti e i jingle che riempiono sonoramente la scena, riportano l’orologio mentale del giocatore indietro di qualche decennio. E poi l’amore per il cinema (si pensi al taglio di alcune inquadrature), per Star Wars, per l’iconografia del Zemeckis anni ’80, per l’animazione giapponese. Ogni elemento è inserito con delicatezza in un contesto che ha una sua intrinseca coerenza, una forma peculiare che richiama l’attenzione anche a livello inconscio, là dove pascolano i ricordi di ogni videogiocatore.
    Infine, la già citata volontà di giocare col fruitore, sorprendendolo. Oltrepassare la quarta parte è dunque quasi un obbligo per un’opera che non fa che sottolineare la propria natura ludica, in modo analogo al secondo Metal Gear del buon Kojima. Eppure, anche quando sembra che abbia detto tutto, ecco spuntare l’ennesima sorpresa, l’ennesima trovata di un gioco che sfrutta ogni canale conosciuto per strabiliare e divertire lungo tutte le dodici ore che gli sviluppatori gli hanno concesso.
    Capito perché lo amiamo?

    No More Heroes No More HeroesVersione Analizzata Nintendo WiiNo More Heroes è una perla rara. Qui e lì ruvida. Qua e là non perfettamente rotonda. Ma trovarne un’altra altrettanto lucente pare proprio difficile. E non solo sulle sponde di Nintendo Wii. Se solo il team avesse optato per una struttura diversa dall’hub che è la città di Santa Destroy, se solo avesse spremuto in maniera più decorosa le peculiarità di Wii si sarebbe gridato al capolavoro assoluto. Ma anche così, menomato da una censura che ha trasformato i fiumi di sangue USA in cumuli di pixel bruciacchiati, questo titolo seminale merita di entrare nella vostra collezione personale. E ricordatevi di fare una capatina in bagno, prima di spegnere la console.

    7.5

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