Olija Recensione: una nuova avventura 2D in Pixel Art da Devolver Digital

Dalla fucina di Devolver Digital nasce Olija, un'avventura 2D in pixel art ispirata ai miti marinareschi e alle leggende della cultura asiatica.

Olija Recensione: una nuova avventura 2D in Pixel Art da Devolver Digital
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  • Pc
  • PS4
  • Switch
  • PS4 Pro
  • C'era una volta il cinematic platform. Il genere, nato con l'avvento del pionieristico Impossible Mission, è diventato particolarmente rilevante nel corso degli anni Novanta, fra capolavori e piccole gemme che in molti ricordano ancora con una certa ammirazione, da Prince of Persia a Heart of Darkness, passando per Another World, Flashback e Oddworld. Come suggerisce la stessa denominazione, la base ludica di queste esperienze è quella dei giochi di piattaforme (a scorrimento orizzontale, nello specifico), laddove l'accento è però posto in larga parte sul fattore avventuroso, sugli snodi di una trama sfumata ma interessante nonché sulla bellezza estetica delle ambientazioni che accompagnano la progressione. La formula "pura" è poi passata di moda, salvo offrirsi di tanto in tanto a sostegno di titoli meccanicamente meno spigolosi, più contemporanei nella forma e nell'aspetto - lo testimonia, per esempio, la rinomata produzione targata Playdead.

    Siamo partiti da lontano perché Olija, sviluppato da Skeleton Crew Studio e pubblicato da Devolver Digital, tiene gran conto di quella tradizione ormai esterna al campo visivo dell'industria. Nel suo piccolo, anzi, tenta di esserne una sorta di evoluzione, più vispo nell'incedere di gioco senza per questo rinunciare a una narrazione affascinante, pregna di rimandi a storie e culture antiche, in cui le immagini, sovente, raccontano più - e con più efficacia - delle parole.

    La dama e il pescatore

    Sono tempi cupi, quelli che incombono sulla vita di Lord Faraday e di tutti gli abitanti del villaggio dei pescatori. Ormai da un po' le normali attività di pesca non danno più i frutti sperati, e lo spettro della miseria sembra avanzare giorno dopo giorno, implacabile. L'eroico signore sceglie dunque di partire alla volta del mare in cerca di soluzioni, seguito da un drappello di uomini ardimentosi. Dopo settimane di navigazione, tuttavia, una tempesta si scatena all'improvviso e distrugge l'imbarcazione in mille pezzi, riversando Faraday e gli altri nelle profondità dell'oceano. Ma il capitano si ridesta in quella che scoprirà poi essere Terraphage, misterioso continente le cui isole sembrano brulicare di anime dannate e creature ostili. Condotto da un vecchio barcaiolo fino al molo di un atollo pacifico - base che Faraday, di lì in avanti, avrà modo di costruire dalle fondamenta - il protagonista non tarderà a partire in cerca dei suoi amici sperduti, rinvigorito dal ritrovamento di un arpione portentoso e dalla conoscenza fortuita di una donna orientale, Olija, che presto diventerà fulcro dei suoi pensieri.

    Il prodotto di Skeleton Crew è impavido come l'eroe che si presta a rappresentare: come base per mettere in scena il suo immaginario non si serve di elementi estrapolati da miti e racconti noti alle grandi platee, ma attinge a un insolito e assai seducente mix di oscure leggende di mare e suggestioni provenienti dalle meraviglie dell'iconografia asiatica. Forgiato in una pixel art minimale ma espressiva, il viaggio di Faraday si dipana fra qualche linea di testo ridotta all'osso - il parlato è volutamente in giapponese, con sottotitoli in inglese - e una ben più ampia quantità di silenzi, resi però significativi dalle leggibilissime interazioni e movenze dei vari attori quadrettati.

    Uno storytelling discreto che fa il paio con tutto ciò che è "cornice", partendo dalla bellissima alternanza di sfondi che asseconda il peregrinare dell'avventuriero: si passa da una foresta di mangrovie agli interni di una fredda caverna, sino a varcare scenografie dai tratti accentuatamente esotici, a delineare un universo in rovina variopinto e dettagliato.

    Dà il suo contributo anche una soundtrack particolare, che tra le sonorità tipiche del Sol Levante innesta musiche flamencheggianti, perfetto contrappunto di una vicenda che mescola fantasia, ambiguità e passione. Olija si completa quasi d'un fiato, in non più di cinque ore, ma non lesina di pathos e, infine, è davvero difficile non avvertire la sensazione di aver assistito, sul fronte diegetico, a qualcosa che, nonostante richieda una certa dose d'interpretazione personale, resta splendido e, a suo modo, prezioso.

    La mossa dell'arpione

    Di Olija, insomma, cattura soprattutto la storia, dal carattere molto intimo, oltre a quel che vi ha strettamente a che fare: le sue suggestioni, l'afflato arcaico e gli innumerevoli non detti.

    Anche il gameplay risulta più che altro al servizio delle esigenze di racconto, non eccessivamente elaborato ma non per questo rinunciatario. Il punto di partenza, scrivevamo, è il mondo dei platform cinematici, su cui si adagia una serie di caratteristiche prese in prestito da linguaggi ludici più dinamici quali, fra i tanti, quelli delle avventure esplorative e dei metroidvania. Dall'isola "quartier generale", Faraday ha il compito di visitare i diversi punti di una mappa di navigazione - nient'altro che dei classici stage a quadri attigui - con lo scopo di raccogliere materiale vario, scovare le chiavi d'accesso alle aree bloccate nonché, possibilmente, liberare i compagni naufraghi dalla prigionia, così da permettergli di tornare sani e salvi al campo base. Riguardo a quest'ultimo luogo, si tratta di un vero e proprio hub verso cui il protagonista dovrà fare ritorno spesso e volentieri non solo per rifocillarsi, ma anche per craftare nuovi oggetti e copricapi - i cappelli equivalgono a dei perk passivi - e, soprattutto, per osservare da vicino la graduale crescita della comunità di sopravvissuti.

    Quanto invece ai livelli, perlopiù dei "dungeon" di medie dimensioni, il software lascia il giocatore libero di perlustrarli in ogni loro anfratto, spingendolo a districarsi fra gli enigmi ambientali e i combattimenti con gli indigeni e i mostri che cercheranno di frenarne l'avanzata. Entrambe le attività impongono l'uso frequente del suddetto, magico arpione, arma primaria del paladino nonché mezzo che, qualora scagliato contro certi oculi giallognoli, permette al nostro di teletrasportarsi nell'esatto punto di atterraggio dell'arnese.

    Questa meccanica è ovviamente terreno fertile per le sezioni rompicapo, sicuramente ben congegnate e stimolanti, purtroppo presenti in numero molto limitato. Più ricorrenti, al contrario, sono gli istanti in cui il gioco chiede di sopraffare il cast di antagonisti a suon di attacchi ravvicinati o dalla distanza.

    Olija ricorre a un combat system scattante, fluido, che all'utilizzo dell'imprescindibile arpione affianca l'uso di uno stiletto, di uno spadone, di arco e frecce, finanche di un fucile, intercambiabili a piacimento tramite tasto dorsale. Passare dalle combo in melee agli assalti da lontano è piacevole e appagante, motivo per cui dispiace che l'impegno richiesto dalle fasi di battaglia sia esageratamente basso, conseguenza di una pletora di avversari sin troppo debole e prevedibile nei pattern.

    La questione migliora durante le poche boss fight imbastite dal team di sviluppo, che in ogni caso colpiscono più per un fatto di grazia coreografica che per un livello di difficoltà realmente percepibile. Ecco: forse l'unico limite di Olija è quello di accontentarsi di una sfida sostanzialmente impalpabile, incapace di farsi sentire, quasi fosse pervasa dal timore di trattenere, o addirittura compromettere, l'ottimo sviluppo e coinvolgimento narrativo.

    Olija OlijaVersione Analizzata PlayStation 4Siamo portati a pensare che Olija non passerà alla storia dei videogiochi, conseguenza di una proposta che, dal punto di vista prettamente ludico, non supera mai la soglia dell’esperienza action-adventure gradevole, e tuttavia lontana dall'essere particolarmente sfaccettata o impegnativa. Ciò nonostante, grazie alle sue peculiari doti di narrazione e messinscena, la produzione Skeleton Crew acquista il sapore di quei racconti dal fascino ancestrale che vale la pena ascoltare, così brevi eppure intensi, non di rado forieri di piccole - talvolta grandi - emozioni.

    7.5

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