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Neppure il tempo di uscire dalla scatola ed è subito amore: PlayStation Classic è piccola e compatta, bella come una dolce nostalgia e affascinante come la prima cotta delle superiori. Una perfetta riproduzione in scala della console che più di ogni altra ha contribuito a diffondere la cultura del gaming nel nostro Paese, e nella generazione di quelli che qualcuno si ostina a chiamare "xennial". Non facciamone una questione di fede videoludica, di Console War: Super NES e Mega Drive hanno una priorità se non altro temporale, e la casa di Kyoto può vantare la più coriacea penetrazione dei suoi brand nell'immaginario collettivo del giocatore; il Dreamcast è ancora l'hardware più coraggioso e visionario del periodo in cui si canonizzava il 3D, ma la prima PlayStation è stato l'inizio di un movimento culturale pervasivo ed esteso. Per merito anche della pirateria, diranno i più maliziosi, ma tant'è: per molti anni PlayStation è stato sinonimo di videogame, e se il gaming è riuscito ad incuriosire fasce di pubblico apparentemente incomprensibili il merito è anche della scatoletta grigia di Sony, degli immaginari che portò sui nostri schermi a tubo catodico, e delle strategie di comunicazione con cui l'azienda aveva deciso di raccontarli.
Oggi, ventitré anni dopo l'arrivo sul mercato di questo ciclone videoludico, stringiamo fra le mani il fedele modellino dell'hardware originale, compatto e minuto ed anche per questo così gradevole. Tutti i dettagli sono al posto giusto: le porte delle Memory Card (ovviamente non funzionanti), il pulsante d'accensione e quello per resettare la console (residuo preistorico di un'epoca perduta), e ovviamente il bottone "Open", che non serve ad aprire il vano del disco ma - colpo di genio! - è il comando per cambiare CD in quei giochi che lo prevedono (come Metal Gear Solid e Final Fantasy VII).
La qualità della piccola console, con il logo centrale incavato e le prese d'aria laterali, è senza ombra di dubbio eccellente, e a giudicare dal rumore che fanno le molle dei tasti sembra che PlayStation Classic sia stata costruita con spirito filologico, replicando (in piccolo) quell'esperienza d'uso un po' "giocattolosa" che la macchina si portava dietro. In questa maniera il mini-hardware assume anche un valore puramente fisico, indipendente dalla (traballante) selezione dei software che contiene: comprare PlayStation Classic è quasi come acquistare l'action figure di un oggetto squisitamente pop, che anche senza essere attaccata ad uno schermo (ovviamente tramite cavo HMDI) può far bella figura sulle mensole di un collezionista.
Dalla scatola emergono anche due pad "primo modello": quelli non analogici, per intenderci, che se confrontati ai moderni DualShock quasi spariscono fra le mani. Anche questi sono ben assemblati e compatti, con un cavo di 140 cm, sufficiente per giocare a una distanza dignitosa dallo schermo. L'attacco dei joypad è USB, ma con un piccolo supporto plastico che riproduce la mezzaluna dell'aggancio originale: un altro piccolo tocco di classe.
Incluso nel pacchetto c'è infine un cavo mini-USB per l'alimentazione, ma manca il trasformatore: una tendenza ormai standardizzata ma a dirla tutta incomprensibile.
Tutto l'entusiasmo con cui si estrae PlayStation Classic dalla scatola e si procede alla messa in opera si infrange nell'esatto istante in cui, dopo la mitologica schermata di accensione, ci si imbatte nell'interfaccia del software. Disposte in cerchio nel bel mezzo di uno spazio blu cobalto ci sono le venti copertine dei giochi inclusi nella console: le immagini sono un po' sgranate e la presentazione è molto spartana.
L'idea che subito si fa strada nella mente del giocatore è che non si tratti di un prodotto ufficiale. E infatti non lo è. Sony ha deciso di utilizzare, come software per far girare i venti titoli in catalogo, un emulatore Open Source. Esplorando a fondo la schermata delle opzioni si trovano tutte le indicazioni sugli autori originali e sul codice sorgente. Non c'è altro modo per definire questo approccio se non come una gigantesca caduta di stile. Il colosso nipponico, in pratica, dichiara apertamente di aver "giocato al risparmio", schivando l'impegno produttivo necessario a mettere insieme un menù degno di tale nome, e se non altro una personalizzazione dell'interfaccia che faccia percepire un minimo di investimento creativo. Si tratta di una condotta pigra e svogliata, che in nessun modo può essere giustificata quando si considera il prezzo di questa "riedizione in piccolo".
Certo, le funzioni basilari ci sono tutte: ogni titolo ha una memory card virtuale da poter utilizzare per i salvataggi, e tornando al menù principale nel bel mezzo dell'azione (alla pressione del tasto Reset) si crea automaticamente un "punto di ripresa" da cui ripartire.
D'altro canto il menù delle opzioni è incredibilmente povero, e non c'è ad esempio nessuna funzione per scalare l'immagine o gestire dimensione e aspetto delle bande laterali che in certi giochi si manifestano in maniera molto prepotente. A livello software, insomma, PlayStation Classic è stata approntata con il minimo sforzo. E a dirla tutta altrettanto pigra è stata l'opera di selezione dei giochi contenuti nel pacchetto. Anzitutto Sony si accontenta del minimo sindacale: una ventina di titoli, proprio come quelli del Mini SNES, ma a fronte di un catalogo davvero sconfinato (e senza sorprese paragonabili all'inserimento del mai pubblicato Starfox 2).
Anche solo volendo fare un rapporto fra quantità e prezzo la piccolina di Sony uscirebbe "sconfitta" dall'offerta contenutistica delle rivali e con una proposta non allineata agli standard di mercato (e qui stiamo considerando anche il Neo Geo Mini, la riproposizione del C64 e pure le versioni "flashback" delle console SEGA e Atari).
Dentro l'hardware in miniatura trovano posto titoli di varia caratura. Ci sono classici intramontabili che ancora oggi si lasciano giocare con piacere, come Metal Gear Solid e Final Fantasy VII, prodotti che si scrollano di dosso gli anni che hanno con estrema facilità.
Ci sono istituzioni dei generi di appartenenza come Tekken 3 e Resident Evil, digeribili anche in moderni nonostante la grafica 3D non sia invecchiata proprio benissimo.Ma nel calderone ci sono finite anche produzioni completamente futili come Ridge Racer Type 4, Jumping Flash e Battle Arena Toshinden (quest'ultimo inserito con intento solamente "documentaristico", visto che fu uno dei primi titoli a proporre una grafica interamente poligonale).
Inutile girarci intorno: le omissioni celebri sono troppe, anche volendo mettere da parte le mascotte classiche come Spyro e Crash, recentemente tirate a lucido nei remake. Che fine hanno fatto Silent Hill, Soul Reaver, Vagrant Story?
Sarebbe bastato il giusto tris di prodotti (ci sentiamo di citare anche Gran Turismo, Castlevania, Chrono Cross, Legend of Dragoon) per cambiare drasticamente la sostanza di PlayStation Classic.
Arriviamo addirittura a dire che anche solo un prodotto mai uscito sul mercato europeo (come Parasite Eve o Final Fantasy Tactics) avrebbe potuto ingolosire di più rispetto a tanti altri titoli sembrano blandi riempitivi. Troppi puzzle game, troppi giochi di guida, pochi jRPG. Pure la selezione dei platform è tutta sbagliata: Rayman è davvero ingiocabile, e avrebbe potuto essere sostituito da Tombi, Klonoa, persino da Pandemonium.
Sony sembra essersi impegnata per scegliere videogiochi invecchiati maluccio, poco rappresentativi dell'epoca d'oro della sua console, e con una penetrazione soltanto marginale nell'immaginario collettivo. Il risultato è che per molti la selezione dell'edizione giapponese risulterà più intrigante, e che in fin dei conti le opere davvero significative e digeribili ancora oggi sono la metà di quelle incluse nella lista.
PlayStation ClassicVersione Analizzata PlayStationNon tutte le console in versione “mini” sono uguali. A chi dice che si tratta soltanto di operazioni pensate per lucrare sulla nostalgia, rispondiamo che iniziative di questo tipo hanno un valore che include, ma supera, quello affettivo: incarnano un'occasione per riscoprire e far riscoprire il (proprio?) passato videoludico, e un sistema per accedere, legalmente e rapidamente, a librerie di titoli che si pensano rappresentative di determinate stagioni creative. D'altro canto anche nell'assemblare queste “riedizioni hardware” c'è bisogno di cura e di attenzione, proprio come quando si mette insieme una mostra o un'esposizione. Il rischio è altrimenti quello di proporre un percorso poco significativo e disomogeneo, in una cornice tutt'altro che affascinante. Duole ammetterlo, ma è questo il caso di PlayStation Classic. L'elenco di giochi, oltre ad essere abbastanza ridotto, include troppi prodotti rinunciabili, e non riesce a dar conto dell'eccezionale fermento creativo che accompagnò i migliori anni della prima PlayStation. Il “peccato mortale” di Sony è d'altro canto quello di aver utilizzato un software Open Source, spartano e minimale, dimostrando un interesse solo superficiale per la sua stessa iniziativa. Se PlayStation Classic si salva in corner è per la qualità costruttiva e per quella decina di titoli che ancora oggi brillano di luce propria, rappresentando un grande patrimonio dei videogiocatori. Da Wild Arms a Tekken 3, da Resident Evil a Metal Gear Solid, da Oddworld a Grand Theft Auto, un'abbondante manciata di capolavori si trova anche qui, e rigiocarla è sempre un piacere.
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